La sigaretta che gli pende stanca, annoiata,
dalla bocca è l’immagine stessa di Fernando Santos. “Fumare mi aiuta a pensare”
dice. Calmo, composto, pacato. Non si fa prendere dall’agitazione, neppure
adesso che è Campione d’Europa e può contare sul calciatore più forte, forse
anche il più bravo, del mondo. “Il Portogallo, così come tutte le altre squadre
del mondo, dipendono dai loro giocatori migliori. Chiedete al ct dell'Uruguay,
anche lui dirà che dipendono da Cavani e Suarez. Noi dovremo giocare da
squadra, se Cristiano Ronaldo sarà lasciato da solo il Portogallo perderà la partita.
Anche quando ha segnato 3 gol l'ha fatto grazie al lavoro della squadra”.
Fernando Santos, classe 59, inizia la sua
carriera da giocatore nel 1971, nel Maritimo, per finirla appena tre anni dopo
all’età di ventuno anni. Pensava infatti che il calcio non era la sua strada,
si iscrisse all’Istituto Superiore di Ingegneria di Lisbona, dove conseguì un
“barachelato”, titolo di studio simile alla laurea, in ingegneria elettrica e
delle telecomunicazioni. Ma il pallone lo richiama a sé. Comincia ad allenare
proprio nella squadra con la quale appese gli scarpini al chiodo, il Desportivo
Estoril Praia,. Sono subito grandi successi e dopo la promozione in serie A si
trasferisce nel 1998 al Porto. È la sua grande opportunità e Fernando Santos
non la stecca. In 3 anni all’Estadio do Dragao vince campionato, due
supercoppe, due coppe nazionali e guida la squadra fino ai quarti di finale di
Champions League. Dal 2001 inizia il suo vagare tra Portogallo e Grecia: AEK
Atene, Panathinaikos, Sporting Lisbona. “Ogni volta che ero in Portogallo
qualcosa mi tirava indietro, verso la Grecia”. E allora di nuovo AEK Atene,
Benfica, PAOK e nel 2010 la nazionale greca. Una panchina che scotta,
un’eredità pesante.
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Perché lì sopra, fino a quel momento, c’era
un certo Otto Rehhagel, il tedesco che aveva portato gli elleni sul tetto
d’Europa nel 2004. Ai Mondiali del 2014, dopo aver buttato fuori la Costa
d’Avorio di Drogba e Gervinho, dovette fermarsi contro la Costa Rica, ai calci
di rigore. Agli Europei di Polonia, nel 2010, riuscì a centrare i quarti.
Innamorato dell’arte classica e della storia
greca, “un popolo che sa combattere e rialzarsi”, tra Platone e Aristotele ha
scelto Mourinho come modello, “il numero uno al mondo”. Sarà stato a
passeggiare sull’acropoli di Atene, a fumare all’ombra del Partenone, sconvolto
dall’atarassia che gli scorre nelle vene, quando arriva la chiamata dal suo
Portogallo. La seleçao portuguesa aveva perso la prima partita per le
qualificazioni ad Euro2016, con l’Albania.
Il canto delle sirene era un fado di Amalia
Rodrigues, il canto del popolo portoghese, fatto di saudade e lontananza. Lo
richiamava a casa, per vincere. D’altronde fado prende il nome proprio da
fatum, destino. Oggi, mentre fuma la sua ennesima cicca, la canzone che gli
passa per la testa è semplice: “massimo rispetto per l’Uruguay, ma passiamo
noi”.
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