“MOZIA. Fenici in Sicilia” di Gaia Servadio (Feltrinelli)
L’intervista.
“I Fenici erano un popolo fantasioso”: Gaia Servadio, Mozia e altre storie.
A cura di Daniela Sessa, 7 giugno 2018
Quello che
colpisce di Gaia Servadio sono gli occhi da gatta. Non è solo il colore di un
verde trasparente e striato di viola. È quel guizzo ironico e nient’affatto
dolce di una donna che ne ha viste tante, ne ha raccontate tante. “Io ho
incontrato tutti”: mi dice con un pizzico d’orgoglio e con uno sguardo
schietto, citando le persone che ha incontrato nella sua gaia vita e,
credeteci, citarle sarebbe un elenco troppo lungo. Incontro Gaia (un nome, un
destino a sentire la risata aperta con cui interrompe il fiume di parole che è
frenesia di raccontare e di ricordare) a Siracusa, dove ha presentato “Mozia.
Fenici di Sicilia” (Collana UEF, Milano, Feltrinelli, 2018) chiudendo la
rassegna “Je suis au jardin” promossa dalla Libreria Casa del Libro. E mai
giardino dell’anima fu più adatto a ospitare una donna così eccezionale come
Gaia Servadio, se, prendendo spunto
dagli scavi di quel piccolo e prezioso lembo di Sicilia che è l’isola di Mozia
afferma “Anche quando si scava una
città, si scava dentro noi stessi”. Ha
scavato Gaia Servadio alla ricerca delle parole per raccontare la storia della
scoperta di Mozia, città misteriosa e scomoda per i Siracusani che la
distrussero nel 397, facendo dei suoi abitanti degli esuli (si rifugiano sulla
terraferma nella colonia di Lilibeo, l’attuale Marsala), uomini senza patria,
forse indesiderati seguendo quel destino dei popoli semiti, cui la stessa
Servadio appartiene e che ha condiviso da ragazzina in fuga dalle leggi
razziali. Ha trovato le parole della narrazione, della letteratura. Perché il
suo libro ha il pregio di mescolare i piani della ricerca storico-archeologica
con quello del racconto, di spargere qua e là nelle pagine un tocco di lirismo
e di bozzettismo. Una scrittura fresca ed elegante restituisce al lettore la
bellezza di un luogo unico della Sicilia “E io ci ero tornata, dopo tanti anni,
tornavo e ritornavo. A Mozia, il lentisco era ancora in fiore… la pioggia aveva
incoraggiato fiori variopinti, primule violacee, cespugli di mirto bianchissimo
e orchidee selvatiche dai colori smaglianti… Respiravo l’odore del mare e della
vegetazione disseccata; un miscuglio pungente che mi faceva immaginare scene
che non avevo visto ma che erano state descritte dagli autori classici. Seduta
su quelle pietre color ocra tagliate duemila e cinquecento anni prima, guardavo
con gli occhi della fantasia e vedevo ombre.”
– Nella nota
alla fine del suo libro lei afferma che “il segreto dello scrivere è leggere,
imparare, ri-leggere, cercare di organizzare e poi dipingere una grande tela”.
Un approccio alla scrittura che per molti versi si sta perdendo?
È proprio
così. Quando si affronta questo tipo di soggetto, la storia e la ricerca
storica, specie in Italia c’è la tendenza a esprimersi con un linguaggio odioso
e accademico; e appena si prova a rendere quel soggetto narrativa, ecco
spuntare l’etichetta divulgatorio. Invece è molto più difficile fare della
Storia, che è sempre storia umana e dunque la materia più esaltante, una
narrazione. A volte si scivola in frasi o espressioni che ormai non dicono
niente o per eccesso di accademia o per difetto di capacità espressiva. Occorre
fare come Stendhal: usare meno parole possibili. Mai dimenticare che la
letteratura è un incontro: va sì ragionata, ma poi va fatto lo sforzo di
divertire il lettore.
– Il suo
libro su Mozia diverte e desta curiosità su una città fantasma. Perché
quest’amore per i Fenici?
Il popolo
dei Fenici è innanzitutto misterioso. Misterioso perché perdente: tutti quelli
che hanno perso nella Storia sono rimasti silenziosi, perché la Storia l’hanno
raccontata gli altri, i nemici. I nemici sono i Greci che hanno distrutto Mozia
e poi i Romani che hanno distrutto Cartagine. Io amo i Fenici di Mozia, meno
crudeli di quelli di Cartagine che – mi permette lo scarso politically correct?
-hanno radici arabe; i Fenici sono più fantasiosi, sofisticati, con una cultura
e un ordine civico. A Mozia c’era un re sacerdote: lo sappiamo dai mosaici di
una villa (IV-V sec.). Forse c’era anche una letteratura. Di certo non
importante, ma un popolo che ha avuto la magnifica intuizione di inventare
l’alfabeto avrà avuto anche una cultura letteraria.
– Un popolo
che attrae il suo interesse. D’altronde lei ha dedicato a una splendida donna
di origini fenicie un altro libro. Mi riferisco a Didone, su cui la letteratura
ossia l’”Eneide” di Virgilio ha fatto un’operazione politica
Didone è
quella che porta via il tesoro di Melqart, è una regina che trasmette la
corona. Questo è l’aspetto più importante del mito, su cui poi Virgilio ha
appiccicato la storia della famiglia Giulia. Didone è una donna forte e
curiosa. Una donna con la la fretta semitica. La fretta semitica è il viaggio,
la curiosità. La letteratura non ha raccontato Didone così, come invece l’ho
voluta io.
E qui Gaia
Servadio fa un gesto a significare che Didone è una donna strong. Forte come
Gaia, viene da pensare. E viene da pensare alla carriera di questa scrittrice
eccentrica e luminosa. Saggia a dispetto del cappello di improbabile vintage
che indossò per intervistare Paul McCartney. Saggia a dispetto della minigonna
con cui si presentò al colloquio col compassato Giorgio De Benedetti. Saggia e
ironica quando accettò di firmarsi Gaio per Pannunzio, direttore di Il Mondo.
Saggia e curiosa quando giovanissima arrivò per la prima volta in Sicilia,
inviata dalla BBC, per intervistare Danilo Dolci o quando per il Telegraph
intervistò il mafioso Angelo La Barbera al confino a Linosa. Un episodio del
capitolo siciliano di Gaia Servadio, inglese e profondamente italiana nello
stesso tempo. “Della Sicilia amo le
radici. Le ho scoperte grazie a Vincenzo Tusa, che mi portò a Mozia per la
prima volta. La Sicilia la prima volta mi diede un pugno allo stomaco, così
antica e spaventosa. L’arrivo in Sicilia mi ha cambiato la vita, per questo
torno spesso.”
A proposito
della sua vita, raccontata nell’autobiografia “Raccogliamo le vele”, Gaia
Servadio è stata una donna capace di abitare i salotti dell’edonismo londinese
degli anni Sessanta, di creare e farsi trascinare in scandali dove lo snobismo
sapeva arrendersi all’eleganza e la spregiudicatezza diventare estetica. Una
donna colta e stravagante, studiosa di arte e appassionata di musica classica e
dell’opera (ha collaborato con teatri importanti ed è stata amica di Claudio
Abbado e Hans Werner Henze). Mai banale
e di ben dosato egocentrismo.
Giornalista pungente e scrittrice di biografie e romanzi, attenta
promotrice della cultura è stata insignita dei titoli di Cavaliere Ufficiale e
di Commendatore al merito della Repubblica italiana.
– L’hanno
definita eccessiva, impulsiva e bulimica di curiosità. Si riconosce in quest’immagine?
Io non sono
la stessa donna giovane e impetuosa. Con l’età ormai mi guardo con grande
distacco e ironia.
– Negli anni
Sessanta scrive “Tanto gentile e tanto onesta” (il libro è stato recentemente
ristampato), storia di una ragazza che decide di vivere seducendo tutti,
diventando protagonista della Swingin London, usando il sesso come arma della
curiosità e del predominio sull’altro. Un modello di femminilità che quello che
oggi i movimenti come #metoo combattono e negano. Cosa ne pensa Gaia Servadio,
che ha avuto sempre il dono dell’occhio strabico per guardare le cose?
Faccio due o
tre passi indietro. Se io fossi vissuta al tempo delle suffragette, queste mi
avrebbero dato un fastidio tremendo. Riconosco che se è terribile che il lavoro
di una donna sia pagato meno di quello di un uomo, è anche vero che c’è nella
donna, oltre al dono dell’intuito, anche la possibilità di tirarsi sempre
indietro. Non posso condannare ma trovo un’esagerazione scandalizzarsi per
queste storie di violenze nel mondo dello spettacolo, anche perché accade in
tutti gli ambienti e si è sempre saputo. Anche se devo ammettere che è solo con
l’esagerazione che si fanno dei passi avanti.
– Quindi
nessuna rivendicazione. Anche per la cosiddetta scrittura al femminile?
Non ha senso
rivendicare la scrittura al femminile. Non esiste la scrittura al femminile: vi
è solo un modo o un altro di guardare le cose e non appartiene al sesso dello
scrittore. C’è solo un Calvino che vede in modo diverso da un Moravia. Posso
dirle che trovo odiosa la scrittura al femminile?
– E la
categoria del radical chic, esiste?
È passata
insieme alla Sinistra. Non c’è la Sinistra in Italia né in Francia, né in
Inghilterra: Brexit è stata una follia e gli Inglesi se la meritano, perché non
hanno dato un vero contributo all’Europa. Io difendo la reason di un’Europa
unita.
– Non poteva
mancare Gaia Servadio alla diretta dell’ultimo royal wedding. Non poteva farci
mancare il suo sarcasmo: ha scritto di funerale della corona. In che senso?
Io rispetto
l’istituzione della monarchia vecchio stile, quella che si regge sulla dignità.
Direi che la famiglia reale ne difetta. Dignità è anche circondarsi di gente
colta. A quel matrimonio la presenza culturale erano i Beckham.
– Lei vive
in Inghilterra ma si sente profondamente italiana. Cosa pensa dell’Italia?
L’Italia è
un Paese che se la cava. Gli italiani hanno un’inventiva che li fa
sopravvivere.
– Torniamo
alla letteratura. A uno dei suoi magnifici incontri, Philip Roth. Un ricordo di
questo grande scrittore?
A Catania,
durante la presentazione del mio libro, ho fatto alzare tutti in piedi in
ricordo di Roth. Il mancato conferimento del premio Nobel rende il premio
stesso obsoleto e a Roth dispiaceva molto non averlo ricevuto. Le racconto un
aneddoto: Saul Bellow gli aveva lasciato il cilindro che indossava quando
ricevette il Nobel; Roth, che aveva smesso di scrivere, si sedeva nella sua
poltrona su cui appoggiava quel cilindro e ascoltava musica classica. Aveva
anche dato a uno scrittore americano l’incarico di scrivere la sua voluminosa
biografia. Si figuri che questo scrittore è stato con me un giorno e mezzo per
raccogliere notizie sulla nostra amicizia! Ecco, quella biografia sarà la sua
eredità, le sue parole.
* * *
Gaia
Servadio è una scrittrice, giornalista, saggista e pittrice italiana e vive a
Londra dal 1956. Ha esordito nel giornalismo scrivendo per «Il Mondo» di
Pannunzio e ha lavorato per «La Stampa», la BBC e la RAI. Attualmente collabora
con «The European» e al «Corriere della Sera».
In Italia è
stata insignita del titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica dal
presidente Sandro Pertini e nel 2013 Commendatore al merito della Repubblica
Italiana.
Tra le sue
opere di narrativa: Un’infanzia diversa (Rizzoli 1988), Il lamento di Arianna
(La Tartaruga 1988), La storia di R. (Rizzoli 1990), E i morti non sanno (Dario
Flaccovio, 2005), C’è del marcio in Inghilterra (Salani 2011), Raccogliamo le
vele (Feltrinelli 2014), Tanto gentile e tanto onesta (Sonzogno 2015),
Gioacchino Rossini (Feltrinelli 2015), I viaggi di Dio (2016), L’italiano più
famoso del mondo. Giovanni Battista Bulzoni (2018), Mozia. Fenici di Sicilia
(2018)
* * *
La scheda
del libro
MoziaMozia.
Fenici di Sicilia (Feltrinelli, 2018). Sul mare della Storia, Gaia Servadio
traccia le vicende dei Fenici, gli “inventori” dell’alfabeto, grandi
viaggiatori marini e intraprendenti commercianti. Sulle loro favolose navi
arrivarono e fondarono Mozia, isoletta del Trapanese, protetta da una laguna
pescosissima, arricchita da acqua potabile abbondante e a un solo giorno di
navigazione da Cartagine. Da secoli l’archeologia la cercava: persino il grande
Schliemann, lo scopritore di Troia, si mise alla sua ricerca ma fu un inglese,
Pip Whitaker, a dare avvio a veri e propri scavi prima interrotti
dall’antisemitismo fascista (i Fenici sono semiti e la loro lingua assomiglia
troppo all’ebraico), poi ripresi dopo la guerra. Servadio ci conduce per mano
nella genialità fenicia, nella loro inventiva ma anche nella loro crudeltà: il
sacrificio del primo nato agli dèi, la prostituzione sacra alla quale dovevano
sottomettersi tutte le fanciulle di famiglia aristocratica, l’uso continuo
della crocefissione, costume ereditato dai Babilonesi. E ci riporta al contempo
a un mondo straordinario, nel momento in cui l’interesse verso il mondo fenicio
sta conoscendo una nuova fortunata stagione.
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