27 dicembre 2017
GIUSEPPE
UNGARETTI
Atene,
Grecia, vertice di favola
incastonata
dentro il topazio che l’inanella.
Sul proprio
azzurro insorta in minimi limiti
per essere
misura, libertà della misura, libertà di legge
che a sé
liberi legge.
Sino al
mare, dal cielo al mare, liberi l’umano vertice,
la legge di
libertà, dal mare al cielo.
Non saresti
più, Atene, Grecia, che tana di dissennati?
Che tana
della dismisura, Atene mia,
Atene occhi
aperti a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi.
Ora,
mostruosa, accecheresti?
Chi ti ha
ridotta a tale, quali mostri?
GIORGIO
FRASCA POLARA
Qui sopra (e
in una pagina dello “Zibaldone”) c’è una splendida, amara lirica con cui
Giuseppe Ungaretti reagì nel 1967 al golpe dei colonnelli fascisti in Grecia,
di cui quest’anno cade il cinquantenario. Ma a parte la pubblicazione in un
libricino donato ai lettori de “l’Unità”, questa lirica è un vero e proprio
samisdat, come quelli che circolavano clandestinamente in Urss nella stagione
del terrorismo staliniano. Perché è un fatto che, ancora oggi, questa lirica
viene ostinatamente censurata dai cosiddetti curatori delle opere del grande
poeta. E allora, anzitutto, la spiegazione: di come è nata, di quando è apparsa
e dove, e del perché non è compresa nell’opera omnia di Giuseppe Ungaretti e
anzi ne è stata cancellata.
Scritta di
getto dal poeta dell’Allegria nell’avanzato autunno del 1969, in pieno golpe
dei colonnelli greci, è stata e resta un’opera che vive tuttora in
clandestinità: malgrado le diecine di edizioni, di lusso e non, della Vita d’un
uomo, in quella raccolta di “tutte le poesie” di Giuseppe Ungaretti, curata
dallo scomparso critico Leone Piccioni, c’è assolutamente quasi tutto: perché
manca proprio e solo questa Grecia 1970 del cui autografo possedevo una copia
che pubblicammo su “l’Unità” il 30 maggio 1993 come “lancio” di un volumetto
con un gruppo di liriche del poeta, scelte dal collega Nicola Fano, e tra le
quali impaginammo anche questa appassionata elegia.
È giusto
dunque raccontare la storia di questa poesia, e della censura che ne è stata
fatta, anche per rendere un dolente, postumo omaggio ad un finissimo e schivo
poeta, Elio Fiore, amico e allievo di Ungaretti, che mi donò copia di questa
lirica, il cui originale era appeso sopra un Cristo di Pericle Fazzini nel caotico
studiolo di Elio, un’umida e oscura stanzetta tra le mura nobili e cadenti di
quella che era stata la rinascimentale Casa dei Fabii, in Portico d’Ottavia,
nel cuore di quel ghetto romano dove anch’io ho vissuto, in faccia al suo
studiolo, per molti anni. (Quel palazzo, oggi, non è più cadente: ristrutturati
gl’interni, sbarrato l’ingresso con un cancello di ferro, scomparsi i cessi
appesi nel vuoto, le antiche famiglie giudìe allontanate, ad abitarlo ora c’è
solo gente nota e facoltosa: gente che può, tra cui una nota collega in
giornalismo).
Elio aveva
molto sofferto, e nella sua difficile vita fu aiutato anche materialmente da
Giuseppe Ungaretti, tanti anni addietro, quando vita e poesia di Fiore erano
già irreparabilmente segnate dalla più terribile di tante dolorose esperienze:
l’aver visto e vissuto la deportazione in massa degli ebrei romani in quel “16
ottobre ’43” di cui Giacomo De Benedetti ha scritto uno straordinario ricordo
con parole assai dolenti, e forti come pietre.
La lirica
risale all’autunno del 1969 quando, nel quadro di una campagna di solidarietà
promossa dopo il colpo di stato dei colonnelli greci, Pietro Dorazio, uno dei
padri dell’astrattismo romano e uomo di forti sentimenti civili, chiese a
Ungaretti di scrivere una poesia da legare ad una cartella di nove serigrafie a
colori che sarebbe stata venduta per aiutare gli antifascisti greci esuli in
Italia. Il poeta accettò con entusiasmo: non dimenticava mai di esser uomo del
suo tempo. E buttò giù, d’impeto e con poche correzioni, un disperato canto per
il paese oppresso dalla feroce dittatura dei colonnelli.
La cartella
fu presentata il 27 gennaio del 1970 nella storica libreria romana dell’Oca
dove lo stesso Ungaretti declamò la lirica dedicata alla “Atene mia oppressa”.
Quella stessa sera Ungaretti fornì a Dario Micacchi, il critico d’arte de
“l’Unità“, una limpida, modernissima chiave di lettura di quei versi: «Bisogna
stimolare i giovani a non avere paura. La paura è lo stato d’animo che
determina le peggiori conseguenze. Basta che s’insinui la paura perché un
popolo perda la libertà. Abbiate paura della paura!». Per Ungaretti questa
denuncia alta e appassionata – «Chi ti ha ridotta a tale, quali mostri?» – è il
canto del cigno. Settantaduenne, il poeta morirà d’improvviso appena quattro
mesi dopo, e nel frattempo avrà messo mano a penna solo ancora una volta, la
notte del Capodanno ’70, per comporre L’impietrito e il velluto. Ma, a
differenza di quest’ultima lirica, raccolta poi nella così detta opera omnia,
la maledizione contro l’Atene «tana di dissennati» avrà – ha tuttora – vita
strana, difficile, emarginata. Tant’è che, come ho detto, non comparirà mai,
neppure nella ennesima ristampa del Meridiano mondadoriano dedicato all’opera
poetica Ungaretti, e neppure nel capitolo dedicato proprio alle sue “Poesie
disperse”.
E se la
ingiustificabile giustificazione di questa esclusione – segnalata più volte al
curatore, contestata ad ogni riedizione, ma sempre ignorata – è stata sempre
data dall’esser, quei versi, dettati da “occasionalità”, un discrimine
letterariamente singolare e criticamente inaccettabile dal momento che esclude
dal mosaico ungarettiano questa sola tessera, forse piccola ma con tanta storia
in sé, con tanti stimoli politico-civili e tanti riferimenti per la complessiva
opera del poeta. (A proposito di riferimenti: pare evidente che nella sua
lirica contro i colonnelli Ungaretti abbia tenuto presente come archetipo il
primo canto All’Italia di Giacomo Leopardi. Dove il remoto «Chi la ridusse a
tale?» è mutato in un prossimo «Chi ti ha ridotto a tale?». Del resto già
Umberto Saba si gloriava, con umiltà e grande amore per i classici, che non ci
fosse nel suo Canzoniere «un solo verso che sia interamente mio»….)
Liquidato il
regime, i greci esporranno in una teca il manoscritto della lirica di Ungaretti
nel museo ateniese dedicato proprio alla loro Resistenza. Mentre in Italia essa
continuerà a girare solo tra amici e allievi del maestro, nei seminari e nei
convegni a lui dedicati, sino a quando il mio giornale di un miglior tempo non
la farà conoscere a centinaia di migliaia di lettori. Ma sarà anche questa, per
Grecia 1970, una pura parentesi: quando si tratta di carta di giornale, la fine
è nota. Ancora un particolare, non secondario, che Elio Fiore mi segnalò qualche
anno dopo, dopo averne parlato con Mario Luzi, che restò “turbato” da questo
particolare, che è poi una coincidenza: il manoscritto dell’elegia ha il tratto
sicuro, scarse le correzioni, è completa di titolo e porta la data. E’ quella
del 12 dicembre 1969: lo stesso giorno della strage fascista alla Banca
dell’Agricoltura di Milano. Impressionante coincidenza.
(Post
scriptum: i lettori de “l’Unità” non seppero mai che l’autore di quel piccolo
scoop ero stato io. Per pura sciatteria chi doveva impaginare sul giornale la
mia ampia presentazione dell’inedito dimenticò di mettere la firma al pezzo. Di
più: il curatore del libretto ungarettiano che l’indomani sarebbe stato
allegato al giornale non mise nemmeno una sigla alla nota esplicativa su come
“l’Unità” fosse venuta in possesso del manoscritto. Un piccolo, ulteriore segno
del crescente disordine in cui viveva e morirà il giornale fondato da Antonio
Gramsci.)
Giorgio
Frasca Polara
Inviato e
notista de “l’Unità” per oltre quarant’anni. Spiega diritto parlamentare e
costituzionale ai corsi dell’Ordine dei giornalisti, e giornalismo politico ai
master di Scienze politiche della Sapienza. È stato portavoce della presidente
della Camera Nilde Iotti. È autore di alcuni libri, tra cui la riproduzione
anastatica del manoscritto di Togliatti del "Memoriale di Jalta"
(Sellerio ed.).
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