Κυριακή 17 Δεκεμβρίου 2017

Grecia, nel limbo dei profughi. L’isola di Lesbo trasformata in centro detentivo: “Qui da 20 mesi, trattati come animali”

Αποτέλεσμα εικόνας για LESBOS PROSFUGES


La vedi dalla spiaggia, dal porto, dal balcone dell’albergo, dal tavolo del ristorante pieno di turisti: la Turchia è così vicina che sembra quasi di poterla toccare allungando la mano. Ed è da lì che ogni giorno partono gommoni e barche piene di migranti. Arrivano principalmente dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq. Credono di varcare le porte dell’Europa, si ritrovano intrappolati in un limbo che può durare mesi, a volte anni. Siamo a Lesbo, in Grecia. Oggi l’isola è di nuovo al collasso, schiacciata da un’altra emergenza umanitaria dopo quella del 2015. Qui e nelle altre isole egee, da agosto a novembre sono arrivate più di 7mila persone in fuga da bombe e miseria. Migranti che, una volta sbarcati, non possono spostarsi prima che la domanda d’asilo venga esaminata e approvata.

di Giulia Zaccariello | 17 dicembre 2017

Se nel 2015 infatti le isole greche erano luoghi di passaggio nella rotta verso i balcani e il nord Europa, l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia del marzo del 2016 le ha trasformato in centri di detenzione, dove i richiedenti asilo restano bloccati per mesi, andando a riempire le strutture di accoglienza ben oltre le loro capacità.  Per avere un’idea della situazione si può cominciare dai numeri. Gli arrivi nel settembre del 2017 sono stati il doppio di quelli del 2016. Una media di 70 al giorno. L’hotspot di Moria, il più grande a Lesbo, gestito dal governo greco, ha una capienza di 2300 persone, ma oggi ne ospita oltre 7mila. Più del triplo. Il Fatto.it ha varcato i cancelli del campo, ha parlato con il direttore e con i profughi, ma con il divieto di accedere ad alcune aree. Le famiglie vivono in container o in tende, talvolta da campeggio, che si riempiono d’acqua quando piove e volano via come castelli di carta quando sale il vento dal mare. Alcune persone dormono per terra, mentre i bambini corrono e giocano tra cumuli di rifiuti e guardano la realtà attraverso il filo spinato che circonda ogni sezione del centro. Spesso, racconta chi vive dentro, manca l’acqua, in alcune tende addirittura i bagni e i servizi igienici, mentre il cibo non è sufficiente. Condizioni di vita durissime, che l’organizzazione Human right watch ha paragonato a quelle di “un campo di concentramento”, e che spesso fanno da detonatore a violenze e risse tra i vari gruppi (spesso di diverse nazionalità) o proteste sedate dalla polizia.  Ed è in questo clima che i migranti sono costretti a vivere , in attesa di sapere se saranno rimandati in Turchia o se potranno abbandonare l’isola per riunirsi con le proprie famiglie già in Europa. Solo chi rientra nelle cosiddette “categorie vulnerabili”, cioè chi ha bisogno di particolare assistenza come disabili, minori non accompagnati e persone affette da gravi disturbi, può usufruire di un percorso più veloce e sperare di essere trasferito in campi più accoglienti come quello di Pikpa (un vero “gioiellino” figlio della solidarietà degli abitanti del luogo). Per tutti gli altri il tempo dentro il centro può dilatarsi, superando anche l’anno e mezzo. E spesso questo ha delle conseguenze psicologiche devastanti. Rahmoud ha 36 anni e arriva dalla Siria. La sua storia è quella di tanti dimenticati sull’isola. Dopo aver avuto due domande d’asilo rifiutate e aver trascorso tre mesi nella prigione che c’è all’interno di Moria insieme a moglie e figli, Rahmoud ora si trova a Pikpa, un campo gestito da abitanti del posto riservato a persone vulnerabili. Ma ancora non sa cosa ne sarà della sua vita e di quella della sua famiglia. Ed è terrorizzato che possa essere riportato in Turchia, dove ha subito violenze e vessazioni. “Mi picchiavano, non lo dimenticherò mai” ci racconta davanti alla telecamere. La moglie non riesce a pensare al futuro e prende psicofarmaci per riuscire a gestire l’ansia: “In Siria abbiamo visto la morte in faccia,ma i bambini detenuti senza motivo, quello mai“.

“Lo stato psicologico di alcuni di loro è scioccante” spiega Aria Danika, coordinatrice dei progetti di Medici senza frontiere, che in queste settimane ha “intensificato il suo intervento umanitario” a Lesbo. “Nelle nostre cliniche di salute mentale riceviamo in media 10 pazienti al giorno che soffrono di stress psicologico acuto, molti di loro hanno tentato il suicidio o l’autolesionismo. La situazione sulle isole era già terribile, ora va oltre la disperazione”. Nei giorni scorsi Medici senza frontiere insieme ad altre organizzazioni umanitarie ha lanciato l’allarme in vista dell’inverno e del calo delle temperature. Perché non si ripeta quanto accaduto a gennaio, quando morirono tre migranti intossicati dal monossido di carbonio nel tentativo di riscaldarsi. ”Come possono le autorità greche ed europee continuare a credere che tenere le persone in queste disastrose condizioni possa dissuadere altri rifugiati a venire? Questa crudele politica imposta alle persone vulnerabili in cerca di protezione è fallita e deve fermarsi”, afferma Emilie Rouvroy, capomissione di Msf in Grecia. ”È arrivato il momento di mettere fine alla politica di confinamento sulle isole e consentire a queste persone di andare lì dove i loro bisogni di protezione possano essere soddisfatti con umanità” conclude Rouvroy.

IL VIDEO QUI:


(Le traduzioni del video sono a cura di Alì Rida e Shady Hamadi.)

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