IL DIBATTITO
A metà
strada, la normativa che ha imposto una presenza minima di almeno un terzo di
donne nei consigli delle quotate ha già superato l’obiettivo. Sono circa mille
le presenze femminili. Successo pieno? Non proprio. Un conto è partecipare, un
altro decidere. E se poi sono sempre le stesse c’è qualcosa da correggere.
È arrivata e
ha detto esattamente ciò che, in base alla legge, non avrebbe dovuto dire:
«Ladies and gentlemen, gentlemen, gentlemen...». È così che Margrethe Vestager,
commissario europea alla Concorrenza, ex vicepremier danese, ha esordito nel
suo discorso alla platea del Forum Ambrosetti di Cernobbio all’inizio di
settembre. Fra i grandi dirigenti d’impresa italiani sul Lago di Como, Vestager
vedeva davanti a sé molti più gentlemen — magari di una certa età — che ladies.
E, implacabile, lo ha fatto notare. Non doveva andare così. L’Italia oggi si
trova esattamente a metà del percorso stabilito dalla cosiddetta legge
Golfo-Mosca, la 120 del 2011, che resterà in vigore per la vita di tre consigli
d’amministrazione consecutivi e dunque farà sentire la sua azione fino al 2022 o
2023. Il principio di base è che almeno un terzo dei posti nei consigli
d’amministrazione e negli organi di vigilanza delle società quotate siano
riservato alle donne. E con buona pace di Vestager questo è stato un successo
che mette l’Italia davanti alla Danimarca nelle classifiche internazionali: a
metà del 2016 la soglia del 30% è stata raggiunta e superata, al punto che oggi
per la presenza femminile negli organi d’indirizzo Piazza Affari è fra le prima
al mondo: dietro la Norvegia — secondo il centro studi Catalyst — ma sempre
molto in alto insieme a Francia e Finlandia e davanti persino alla Svezia.
Che cosa non
torna
Qualcosa
dunque non torna se la legge viene applicata in pieno, ma il commissario
europeo che duella con Google e Apple non se ne accorge a occhio nudo. Dove sia
l’inghippo non è difficile da capire: è nella natura delle posizioni
conquistate, non nel loro numero. Solo nei consigli d’amministrazione in senso
stretto le figure femminili sono passate da 170 (il 5,9%) del 2008 a 687 dell’anno
scorso, secondo le stime della commissione di Borsa. Esse hanno avuto ogni
sorta di effetti positivi. Hanno contribuito ad abbassare l’età media di quegli
organismi, hanno alzato il tasso medio d’istruzione e hanno persino ridotto il
sempre notevole quoziente di familismo ai vertici delle imprese: fra le donne
solo tredici ogni cento hanno avuto diritto a una poltrona al tavolo giusto
solo perché erano mogli o figlie della persona giusta, mentre fra i maschi lo
stesso accade in 17 casi ogni cento. Ciò che manca in questo quadro è,
semplicemente, la qualità. In altri termini il potere.
La
situazione
Alle donne è
stato dato un posto a tavola, non la facoltà di distribuire le carte: appena
più del sette per cento delle società quotate italiane contano su un
amministratore delegato di sesso femminile e si tratta in ogni caso di aziende
minori, che pesano per meno del due per cento della capitalizzazione della
Borsa italiana. La stragrande maggioranza delle consigliere di Piazza Affari
ricoprono il ruolo di indipendenti, cani sciolti e preferibilmente mansueti.
Questa è dunque la risposta a Vestager quando si chiede dove siano le donne
nelle élite d’impresa in Italia: sono lì, a patto che non chiedano di farsi
sentire. Ed è naturalmente un’occasione perduta, perché ormai sembra dimostrato
che aziende aperte al contributo di vertice di tutti — diversi per genere,
preferenze, età, culture — funzionano meglio di quelle nelle quali manca
qualunque tipo di varietà umana e sono abitate da maschi con la cravatta annodata
sempre nello stesso modo. Poi però si scava un po’ di più, ed lì saltano fuori
altre sorprese. Esistono infatti aree nelle quali in questi anni di
applicazione della Legge Golfo—Mosca le rappresentanze femminili si sono
dimostrate — almeno in apparenza — bravissime a riprodurre gli aspetti più
discutibili del comportamento dei maschi. L’unica differenza è che sembrano
farlo meglio di questi ultimi. Gli uomini per esempio tendono a trincerarsi in
oligarchie o ristrette reti di potere nelle quali ci si scambiano posti e
favori? Le donne, a giudicare dai numeri, ancora di più. Fra loro la pratica di
occupare più posizioni in organismi di più società diverse, endemica in Italia,
è oggi più sviluppata che fra le controparti maschili.
I numeri
Le prime
sette donne più ricche di incarichi occupano fra loro 37 posti nei consigli
d’amministrazione o nei collegi sindacali d’Italia. Le prime 26 donne
concentrano il controllo di 113 posizioni. Le prime 51 donne ne hanno 188. E le
prime 188 donne occupano 462 poltrone di Piazza Affari. Vista così, costruita
in pochi anni, appare come una spettacolare concentrazione di incarichi nelle
mani di una nuova élite femminile di queste 188 persone. Accanto a loro ce ne
sono altre 845 che hanno un solo incarico societario e dunque in totale queste
donne sono un migliaio. Se il loro comportamento fosse diverso da quello dei
colleghi maschi, dunque nessuna accavallasse più incarichi, anche a costo di
non riuscire a svolgerli bene, il ceto di donne ai vertici aziendali si
allargherebbe di colpo del 30%. Ne servirebbero infatti circa trecento di più
per colmare i posti oggi occupati da chi ne ha più di uno. In effetti la stessa
Consob ha notato che il numero medio di poltrone societarie occupate da ogni
singola donna è salito da 1,26 del 2013 (uomini: 1,40) a 1,45 del 2016 (uomini:
1,32). Ma la vera domanda riguarda le ragioni di questa tendenza oligarchica,
perché non è affatto scontato che essa sia determinata dalle donne stesse.
Spesso non sono loro che si reclutano da sole, ma vengono cooptate dagli uomini
già ai vertici delle aziende. Osserva Alessandra Perrazzelli, amministratore
delegato di Barclays Italia: «Non vorrei che spesso venissero reputate brave
nei consigli quelle che non danno fastidio, e allora per loro si moltiplicano
gli inviti — dice —. Non vorrei soprattutto che la quota del 30% diventasse una
foglia di fico per tenere le donne competenti alla larga dai ruoli operativi di
vertice». Paola Schwizer, ordinaria di economia all’Università di Parma,
sottolinea però anche quelli che per lei sono aspetti potenzialmente virtuosi:
«Formare reti di conoscenze è negativo se serve per escludere gli altri —
osserva —. Preferirei che le donne usassero la loro capacità di creare
relazioni allo scopo opposto: coinvolgere altre donne nei ruoli guida di
un’impresa, come veicolo di attrazione di nuovi talenti». Per le quote di
genere, nella seconda metà della loro vita, la sfida probabilmente è proprio
qui.
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