“Leggiamo
sempre per un ascoltatore sconosciuto. Uno che non è venuto alla lettura delle
nostre poesie per obbligo o per reverenza, ma per il puro piacere e la passione
della poesia. Se a fine serata uno sconosciuto viene timidamente a stringerti
le mani, la serata non è andata a vuoto.”
Lea Melandri
Ho
incontrato Sotirios Pastakas a Paestum, ospiti entrambi all’Hotel Calypso di
comuni amici, Roberto Paolillo e Gabriella Paolucci. Insieme abbiamo rievocato
gli anni Settanta, quando era in Italia, studente di medicina all’Università di
Roma, cantato e ballato. Ma è alla Casa internazionale della poesia di
Baronissi che, qualche sera dopo, ho potuto ascoltarlo mentre leggeva alcune
sue composizioni.
Non ho
difficoltà perciò a riconoscermi in uno dei tanti “sconosciuti” che, spettatori
silenziosi in sala e senza particolare famigliarità con la poesia, hanno
sentito sobbalzare il cuore, preso da un inatteso coinvolgimento. Ho pensato
subito che se il “lirismo” ha significato in molti casi trasformare una “scia
di immondizie” in “versi perfettamente puri”, inseguire enigmi linguistici,
Sotirios Pastakas poteva senz’altro essere definito un antilirico. La semplicità
che riesce a produrre una comprensione immediata è solo quella che ha radici
così profonde nell’esperienza da toccare il sentire più intimo di chi legge,
modificare la percezione che ha di sé e del mondo.
A
Massimiliano Damaggio, che in una intervista per Versante Ripido del 5 aprile
2013 gli chiedeva “Che cos’è la poesia?”, Sotirios risponde:
“La poesia è
lingua e come lingua crea sinapsi tra cellule nervose, i neuroni del cervello
umano; dopo una poesia sconcertante, il cervello umano inizia a lavorare
diversamente, cambia il modo con cui vediamo il mondo e tutto ciò che ci
accade. In questo modo la poesia cambia il mondo. E poiché i neuroni e le
sinapsi sono miliardi di miliardi, ci saranno sempre nuovi poeti che
scuoteranno il nostro pigro cervello.”
Una risposta
scherzosa, ma al medesimo tempo rivelatrice dell’aspettativa immensa che
Sotirios ripone nel fare poesia. La parola che può scuotere l’ordine esistente
non ha niente di dottrinale e di ideologico; il suo “impegno civile”, si
potrebbe dire, sta nella capacità di uscire dalla separazione tra privato e
pubblico, tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, sta nel tentativo di
sottrarre all’“afasia” pensieri, sentimenti, passioni “impresentabili” della
vita e della quotidianità.
È da lì, dalle
aree di frontiera meno praticate dai saperi e dai linguaggi tradizionali,
considerate ancora oggi “non politiche”, che parte il viaggio di una poesia
consapevole del legame imprescindibile tra corpo, individuo e legame sociale.
In questa
singolarità dell’opera di Sotirios Pastakas ho creduto – o voluto vedere il
segno del salto di coscienza storica che è avvenuto con i movimenti degli anni
Settanta: la critica al dualismo che ha contrapposto e differenziato il destino
degli uomini e delle donne, relegando al medesimo tempo nella “natura” le
esperienze umane più universali, come la nascita, la sessualità, l’amore, la
sofferenza, la solitudine, l’invecchiamento, la morte. È vero che la poesia,
tra tutte le lingue sociali che conosciamo è quella che ha continuato a dare
testimonianza di tutto ciò che passa nelle “viscere della storia”, senza avere
paura di nominare l’orrore. Ma l’esito è stato spesso solo la bellezza e la
perfezione del verso.
Sotirios è –
come qualcuno lo ha definito – “un poeta dello sguardo”: uno sguardo che scava,
spudorato e impietoso, nelle ferite del corpo, nominando i risvolti
“indicibili” di un amore finito (L’esperienza del respiro), che si aggira negli
interni delle case passando dai gesti più banali della quotidianità al dialogare
tenero e pensoso col proprio gatto (Jorge). Ma è anche lo sguardo che riesce ad
accostare la violenza del mondo alla distruttività con cui ci accaniamo
talvolta sul nostro corpo, che può, attraverso pochi versi scarni, far
incontrare in cucine disadorne, su tavole quasi vuote e cibi sempre più poveri,
l’“impasse economica” che sta attraversando il suo paese e la spinta a creare
nuove forme di “collettività” e di “altruismo” (Rancio).
Nella
splendida lirica, Sarajevo, il ponte che unisce le due sponde del fiume
Miljacka e permette alla gente di “camminare su e giù, incontrarsi e scambiarsi
abbracci”, si può considerare l’immagine che più si addice all’idea e
all’appassionante amore che Sotirios ha per la poesia.
Il
“nomadismo” della poesia non è vagabondaggio, errare senza meta, ma la
possibilità che ha essa stessa di farsi “ponte”, lastricato di voci diverse e
tra loro sconosciute, come quelle dei poeti che si sono incontrati nel 2006 a
Sarajevo: voci che parlano di guerre ma anche d’amore e di amicizia, che hanno
cantato canzoni popolari e raccontato barzellette, volti su cui si possono
leggere sia il dolore che la tenerezza e l’ironia. La voce “che meriterà la
poesia” deve essere provata in tutte le condizioni, avere gambe per farsi
strada nel mondo, attraversare “i viali illuminati e i vicoli ciechi dei
drogati”, lasciarsi “leccare” da lingue e culture diverse.
Ai poeti
Sotirios chiede la combattività dei “pugili”, anche quando al proprio interno
conoscono fragilità e insicurezze, da loro si aspetta una volontà determinata a
vincere l’afasia, rendere “indolore l’assurdo”, strappare “parole sempreverdi”
persino alle tombe.
Se è così
facile e immediato per qualsiasi lettore o ascoltatore ritrovarsi nelle sue
poesie, sentirle agire emotivamente, intellettualmente dentro di sé, forse è
proprio per questo raro aprirsi all’accoglimento dell’esperienza umana nella
sua indicibile varietà e complessità, a partire da se stessi, da ciò che più ci
accomuna al sentire degli altri.
A proposito
del suo “nomadismo” e del suo vorace interesse per ogni situazione umana,
Sotirios così si esprime:
“Essendo
andato via di casa molto giovane, si è radicato in me lo sguardo del vagabondo
e del nomade. Ho sviluppato una personale filosofia dell’anacoretismo, e una
conseguente capacità di vedere la situazione umana come un moribondo.
Un moribondo
che in ogni momento afferra bulimicamente il meglio che può dagli uomini e dai
luoghi.”
Di una rara,
generosa capacità di apertura verso gli altri e verso il mondo, parla anche
l’idea che Sotirios ha della “traduzione”: non un “tradimento”, come si pensa
di solito, ma un “marsupio” dove la creazione poetica compie il suo sviluppo,
il suo passaggio ad altri luoghi, altre culture, altre lingue.
Pensando
alla crisi, non solo economica, che sta attraversando la Grecia, è difficile
non interrogarsi su che cosa possa essere per il poeta l’“impegno civile”.
Fuori dalla “poesia schierata” e, al medesimo tempo, dall’Accademia, non c’è
che l’autonomia di pensiero e di azione di un linguaggio, che il poeta è
chiamato a difendere gelosamente e dal quale, non a caso, è venuto, nei giorni
più bui, “un insolito fremito vitale”, la spinta a scoprire nuove forme di
solidarietà, la speranza di vedere “nascere dalle ceneri una società migliore”.
Contro la “solitudine politica” dell’uomo contemporaneo, “prodotto e ricetta
del capitalismo”, Sotirios non si è limitato a schierare il poiein, ma una
intensa, diffusa attività che va dall’organizzazione di Festival di poesia,
riviste, trasmissioni radiofoniche, corsi di scrittura creativa, all’uso della
comunicazione digitale – blog, facebook, ecc. –, divenuta indispensabile dopo
la crisi delle pubblicazioni su carta.
“Animale da
compagnia”, quale appare da tutte le foto che lo ritraggono nei suoi incontri
pubblici sorridente e divertito, in mezzo ad amici, ammiratori entusiasti, non
si può che confermare l’immagine che egli dà di sé:
“Trovo
straordinariamente vitale per me trovarmi tra la gente e conoscere persone
estranee tra loro e lasciarle parlare così che io possa trarre nutrimento dalle
loro conversazioni. Le osservo e le ascolto, anche quando sembro distratto e
pensieroso.”
Ma la sua
poesia non potrebbe essere così coinvolgente, se non conoscesse anche l’amore
per la “sospensione del tempo” – quello della sua Larissa, la Grecia di
provincia, che permette di “registrare le inclinazioni della luce”,
l’ondeggiare del mare e la direzione del vento –, e se non dovesse ogni volta
strappare alle “ombre” e al “gelo” una parola creativa di cui tutto si può
dire, tranne che abbia “ceduto alla disperazione”.
La prima
citazione è presa da uno scritto di Sotirios Pastakas pubblicato su face book:
L’identità greca. Tutte le altre sono tratte dall’intervista a Sotirios
Pastakas, “Una poetica dello sguardo”, a cura di Massimiliano Damaggio, uscita
il 5 aprile 2013 su Versante Ripido. Il presente testo è l'introduzione alla
raccolta Corpo a corpo, Multimedia Edizioni, 2016.
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