Antonio de Pereda: “Il sogno del nobiluomo”, museo de la Real, Academia de
Bellas Artes de San Fernando di Madrid
Alla fine del XIX secolo Sigmund Freud pubblica L’interpretazione dei
sogni, un’opera rivoluzionaria destinata a diventare un classico della
psicoanalisi del Novecento. Ma già nel II secolo d.C. l’autore greco Artemidoro
di Daldi, primo tra tutti, si era occupato di sogni nel suo manuale di onirocritica.
Francesca Boccaletto - 4 GENNAIO 2018
I sogni vengono da lontano e non smettono di sorprenderci, senza fornirci mai
risposte certe. “Greci e Romani ritenevano che servissero sostanzialmente a
predire il futuro, al contrario Freud pensava che comunicassero informazioni
relative al nostro passato, in quanto capaci di mettere in luce gli strati più
profondi, più remoti della nostra psiche, i quali avrebbero modo di emergere
proprio durante il sonno e attraverso il sogno”, spiega Maurizio Bettini,
classicista, docente di Filologia classica all’università di Siena e autore di
Viaggio nella terra dei sogni (il Mulino), un libro che esplora con gusto la
dimensione onirica, serbatoio simbolico inesauribile, proponendo un viaggio nel
tempo che raggiunge l’oggi partendo dagli antichi -che i sogni non li facevano
ma li vedevano (e a quelle immagini i Greci davano il nome éidola)-, dalla
parola greca óneiros, da cui proviene l’aggettivo italiano onirico, e dal
somnium dei Romani. “Il sonno è una forma di evaporazione, un dissolversi verso
l’alto. Com’è bello dormire: dormire quando si ha sonno, quando si è felici,
com’è bello dormire dopo che si è stati felici”.
Prima di sognare bisogna riuscire ad addormentarsi. Durante il sonno “la
psiche allenterebbe le proprie barriere, alleggerendo la censura che viene
esercitata durante la veglia e permetterebbe che desideri rimossi e sepolti
nell’oblio, traumi tanto dolorosi quanto (per questo) dimenticati, vengano
finalmente alla luce. Salvo che la censura, assopita ma non completamente
annullata, fa sì che nei sogni questi impulsi salgano alla superficie solo in
maniera distorta, deformata: cosa che spiegherebbe perché le nostre visioni
notturne sono così spesso incoerenti e assurde”. Se per gli antichi e per Freud, in modi
diversi, il sogno si propone come latore di messaggi rilevanti, per lo
scrittore e antropologo francese Roger Caillois, autore nel 1956 de
L’incertitude qui vient des rêves (Incertezza dei sogni, nell’edizione
italiana), “i sogni hanno appena più sostanza delle forme assunte di volta in volta
dalle nuvole o dai disegni che compaiono sulle ali delle farfalle”. Scettico
sul loro significato simbolico, ma affascinato dal loro modo di comporsi e
organizzarsi, come si trattasse di ammirare una galleria di dipinti: “Ci sono
delle occasioni in cui i sogni sono così affascinanti nella loro forma, nel
modo in cui si succedono e si legano tra loro, che meritano di essere studiati,
non tanto perché ci sia un significato nascosto, ma solo e soltanto per la loro
composizione”. Per Caillois, “spesso la realtà è più contradditoria dei sogni
[…] Viaggiando attraverso luoghi singolari, insoliti, mi è accaduto di
assistere a spettacoli ancora più incredibili di quelli a cui si assiste
durante i sogni”. Un ribaltamento di prospettiva, un rovesciamento del punto di
vista: “Il problema – spiega Bettini – non è tanto ridurre i sogni a realtà,
disciplinando tramite la ragione le loro forme bizzarre, quanto quello di
ridurre la realtà a sogno, sottolineandone gli aspetti di maggior bizzarria […]
Se si osserva la realtà attraverso i sogni, e non più i sogni attraverso una
loro (presunta) realtà, si arriva a comprendere come e quanto la realtà possa
essere a sua volta enigmatica, tale e quale un sogno”.
Oltre al punto di vista di antichi, psicoanalisti (e giocatori del lotto)
che caricano il sogno di messaggi importanti e quello invece di chi nel sogno
non vi vede alcun significato, c’è un terzo sguardo degno di nota e a fornirlo
è Fëdor Dostoevskij che, ne L’idiota, si concentra sul sonno tormentato del
principe Myškin, che si addormenta sul divano stringendo tra le mani tre
lettere di Nastas’ja Filippovna. Solo dopo aver sognato l’innamorata in
lacrime, si deciderà a leggerle: “Quelle lettere gli sembrarono come un sogno.
A volte capita di fare sogni strani, impossibili, innaturali, al risveglio li
ricordate chiaramente e vi meravigliate di uno strano fatto: ricordate prima di
tutto che la ragione non vi ha mai abbandonato nell’intero corso del vostro
sogno […] Ma come ha fatto la vostra ragione ad ammettere le manifeste assurdità
delle quali il vostro sogno è disseminato? […] Perché poi da sveglio, una volta
immerso nella realtà, ogni volta sentite, e spesso anche con insolita
prepotenza, che avete lasciato insieme al sogno anche qualcosa di irrisolto?”.
Ed ecco la riflessione più interessante offerta da Dostoevskij: “Sorridete per
l’assurdità del vostro sogno e sentite nel contempo che nelle trame di questa
assurdità si racchiude un qualche pensiero, ma il pensiero è reale, in qualche
modo appartiene alla vostra vita reale, ed esiste, è sempre esistito nel vostro
cuore, è come se nel sogno vi fosse stato rivelato qualcosa di nuovo, profetico
e desiderato. L’impressione è forte, può essere gioiosa o dolorosa, ma non
riuscite in alcun modo a capirne o ricordarne la causa o il messaggio che ha
trasmesso”. I sogni trasmettono un sentimento profondo, lasciano un’impronta
emotiva: “L’aspetto più rilevante, inconfondibile, del sogno – precisa Bettini
– si fonda dunque sulla straordinaria impressione che l’esperienza onirica lascia
dentro di noi, impressione che però non riusciamo a nostra volta a esprimere in
pensieri e parole coerenti. Eppure vi è ragione di ritenere che quanto vediamo
nei sogni, se ne possano o meno trarre messaggi, è comunque in grado di
produrre conseguenze di incalcolabile portata per il sognatore. Tanto che,
secondo alcuni, sarebbe indispensabile, o meglio ineluttabile, che dei propri
sogni si fosse addirittura responsabili”. In dreams begin responsibilities,
questo il titolo del libro di Delmore Schwartz pubblicato nel 1938: “Le
responsabilità iniziano nei sogni” rimanda a una citazione del poeta William
Butler Yeats. Spiega Bettini: “Le responsabilità cominciano dove iniziano a
manifestarsi gli impulsi che muovono inconsapevolmente le nostre azioni […] Nei
sogni cominciano le responsabilità perché sono proprio i sogni che nei loro
impalpabili nidi cullano i nostri desideri nascenti e più elementari. Tali però
da farci compiere azioni che influiranno direttamente sulla vita degli altri.
Per questo, quando si sogna, bisognerebbe essere perfino più responsabili che
nella veglia. Ma come sarebbe mai possibile riuscirci?”.
Possiamo condividere i sogni della notte appena trascorsa, ma non possiamo
prevedere quelli che faremo. I sogni occupano il regno della libertà ma
esistono anche dei copioni fissi, o meglio gabbie oniriche ricorrenti, i “sogni
tipici” citati anche da Freud: dalle scale alla nudità a cui, invece, nel
manuale di Artemidoro non si fa riferimento e che con buona probabilità non era
un sogno frequente per i Greci (del resto, nel corso dei secoli, “la società è
molto cambiata e il problema del pudore è divenuto a mano a mano più forte”).
Se vogliamo citare “un sogno tipico che condividiamo con gli antichi, il primo
che viene in mente è sicuramente quello in cui proviamo a scappare e non ci
riusciamo”. Il sogno di immobilità e impotenza che ritroviamo già nell’Iliade
di Omero, in un passaggio drammatico come la morte di Ettore. Nel libro XXII si
sa che morirà: “Ogni volta che Ettore tentava di accostarsi di scatto alle
porte Dardanie – dice il poeta – sotto le solide torri, se mai dall’alto coi
dardi gli dessero aiuto, Achille, anticipandolo, lo ricacciava verso la piana,
sempre rasente alle mura. Come non si riesce in sogno a prendere un fuggitivo,
non riesce l’uno a raggiungere l’altro, così, Achille non poteva prenderlo in
corsa e l’altro non poteva scappare”. E Bettini commenta: “La scena che ci
viene descritta è profondamente onirica: c’è un condannato a morte, che è
Ettore, c’è un carnefice, che è Achille, ma il momento dello scontro e della
morte viene prolungato all’infinito. Come in un sogno in cui non si riesce né a
scappare né a inseguire, in cui il movimento c’è, ma non esiste, è sospeso”.
Anche Virgilio, nell’Eneide, fa riferimento a un sogno di impotenza,
attraverso lo scontro tra due campioni, con una scena rovesciata rispetto a
quella dell’Iliade perché qui a morire è Turno, il guerriero rutulo che ha
scatenato la guerra contro i Troiani, e a ucciderlo sarà Enea, l’eroe buono:
“[…] E come in sogno, quando nella notte una languida quiete grava sugli occhi,
noi immaginiamo di volerci scatenare ansiosi nella corsa, e a metà sforzo
cadiamo sfiniti: la lingua è muta, è svanito il vigore abituale delle membra,
non escono parole e voce; così a Turno, qualunque strada tenti con i suoi
sforzi, la terribile dea nega il successo”. Ecco dunque la fuga impossibile,
quel sogno che ci accomuna tutti e ci fa sentire senza scampo.
Sogni come incubi, che per gli antichi non erano mai solo prodotti della
psiche, ma creature che si avventavano sul dormiente, demoni che saltavano sul
petto, dal latino incubare che significa “mettersi a giacere sopra”. Divinità
per i Greci e i Romani, veri e propri diavoli nel Medioevo. Ma un rimedio
contro i brutti sogni ci arriva da Plinio il Vecchio: “Occorrono lingua, fiele,
occhi e intestino di pitone, cotti in vino e olio, durante la notte”, una
soluzione la cui efficacia non si potrà facilmente verificare, considerando gli
insoliti ingredienti richiesti. Se invece il vostro problema è l’insonnia, la
proposta di Plinio, nella Storia naturale, prevede l’utilizzo del cavolo, da
gustare “tritato con altri ingredienti”, oppure da accompagnare con un
“intingolo”: “Bollito, questo cavolo libera anche dall’insonnia e dalla
difficoltà di addormentarsi, se lo si mangia a digiuno, nella maggior quantità
possibile, con olio e sale”.
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