Ha paura
Greg Louganis quando si avvicina al trampolino. È il nono tuffo dell’infinita
eliminatoria verso la finale del trampolino da tre metri ai Giochi Olimpici di
Seoul 1988.
di Alessandro Mastroluca - 2 giugno 2016
È normale avere paura prima di un tuffo così, un triplo e mezzo
rovesciato carpiato: si parte fronte all’acqua ma si gira all’indietro, con la
testa che torna verso il trampolino. In fondo, è uno dei tuffi più difficili di
tutto il programma del trampolino e della piattaforma: per i giudici è il 307C,
per il mondo è “il Tuffo della Morte”, uno dei più difficili in programma
(coefficiente 3.5). Louganis è stato uno dei primi a lavorarci, da quando
l’hanno introdotto nel programma internazionale nel 1982. Quando si affaccia
sul trampolino, pensa al terrore paralizzante che l’ha bloccato la prima volta
che è salito sulla piattaforma da dieci metri per eseguirlo.
Magari pensa
al 1983, ai Mondiali Universitari di Edmonton. Sono in due a portare il 307C
dalla piattaforma, lui e il sovietico Sergei Chalibashvili, che deve eseguirlo
appena prima di Louganis. Greg è concentrato, non guarda. Il botto lo sente
soltanto, avverte la piattaforma che trema, poi l’acqua diventa rossa e non si
può più guardare. Poi tutto diventa rosso e non si deve guardare. Chalibashvili
non si è dato abbastanza spazio, nella rotazione ha sbattuto con la testa sul
blocco di cemento e non riprenderà più conoscenza.
Ha avuto
paura per tutta la vita, Louganis. I suoi genitori, papà delle Samoa, mamma
svedese, hanno 15 anni quando nasce. Dopo 8 mesi lo danno in adozione a Peter e
Frances Louganis. Ma Peter ha problemi con l’alcol, il loro rapporto è
problematico da subito. Greg soffre di asma, di molteplici allergie (polline,
peli di animale, molti alimenti). Un medico propone alla famiglia adottiva di
portare Greg a danza. A tre anni e mezzo, già esegue numeri da solo. È
dislessico, anche se la scuola gli diagnostica solo un ritardo
nell’apprendimento: i compagni lo chiamano “frocio”, “ritardato” o “negro”, per
quella carnagione un po’ scura che ha preso dal padre. A nove anni comincia a
fumare, e poco più in là a bere. Soffre di depressione, tenterà tre volte il
suicidio. “C’è una sola certezza riguardo la paura” ha detto, “prima o poi devi
affrontarla“. Greg ha anche il terrore dei serpenti e reagisce come in pochi
avrebbero fatto. Compra un boa constrictor e gli dà da mangiare pulcini morti
tutti i giorni finché la paura sparisce.
L’acqua lo
salva. A nove anni, i medici gli avevano detto di smettere con la ginnastica
perché le ginocchia si stavano sviluppando male. Greg li ignora, ma le gambe
gli restano un po’ storte. Durante i tuffi, anche quando ha la testa incassata
nella raggruppatura o nella carpiatura, può vedere uno spiraglio di luce,
prendere i giusti riferimenti. La piccola malformazione diventa un enorme
vantaggio competitivo. Nel 1975 incontra Sammy Lee, medaglia d’oro nel 1948 e
1952. “La prima volta che l’ho visto” ha detto al Guardian, “ho capito che, con
il giusto coach, Greg sarebbe potuto diventare il più grande tuffatore della
storia”. Lee inizia a lavorare con lui per preparare i Giochi di Montreal.
Nella finale dal trampolino soffre di mal di denti e arriva sesto. Chiede aiuto
a un dentista, ma teme i controlli antidoping e rifiuta gli antidolorifici.
Dalla piattaforma vince l’argento dietro Klaus Dibiasi. “Fra quattro anni sarai
tu al posto mio” gli sussurra il campione italiano.
L’invasione
sovietica in Afghanistan e il boicottaggio Usa ai Giochi di Mosca fanno
avverare la profezia solo a LosAngeles: dalla piattaforma chiude con 751.41
punti, oltre 100 in più del secondo; dal trampolino con 710.91, che è a
tutt’oggi il più alto dall’avvento dell’attuale sistema di punteggio. Ai
Mondiali di Guayaquil due anni prima aveva già riscritto la storia: è suo il
primo “perfect 10” nella storia dei tuffi.
Ogni passo
di rincorsa prima del Tuffo della Morte è un passo in meno. Ogni tuffo
completato è un tuffo in meno prima dell’addio. Perché Greg ha già deciso: dopo
Seoul si ritira. Ha deciso perché ha un segreto. È gay, ma lo sanno solo coach
O’Brien e pochi altri. Ha una relazione violenta con il suo business manager,
Jim Babbitt, che lo picchia e lo deruba minacciando di rivelare il suo segreto
se dovesse lasciarlo. E da sei mesi ne ha un altro, ma di questo non parla con
nessuno. Se l’avesse rivelato al comitato olimpico Usa come avrebbe dovuto
prima dei Giochi, in Corea del Sud non l’avrebbero nemmeno fatto entrare. E
poi, ammetterà O’Brien, “ci sarebbe stato solo un rischio infinitesimale in
caso di ferita aperta: ma quante volte un tuffatore si ferisce in una gara?”.
“Ho sentito
un tonfo sordo” ricorda Louganis, “e sono precipitato verso l’acqua. Ho pensato:
cos’era? Era la mia testa?”. Ci mette poco a capire che, sì, è proprio la sua
testa. “Quel giorno è stato ferito soprattutto il mio orgoglio” ricorderà anni
dopo.
Si apre una
ferita. Sanguina. Il medico, James Puffer, ha dieci minuti per ricucirgli la ferita.
“Ho deciso di intervenire senza guanti, non potevo aspettare altrimenti Greg
avrebbe corso il rischio di non poter riprendere la gara”. Adesso sì che Greg
ha paura. “Volevo gridare a tutti: non toccatemi!” racconterà, “ma sapevo
quanto sarebbe stato inappropriato”. Così Puffer non sa che sta venendo a
contatto, a mani nude, con il sangue di un sieropositivo.
Greg ha
scoperto da sei mesi di avere l’HIV come Babbitt. Il suo medico, che è anche
suo cugino, gli prescrive un farmaco anti-retrovirale da prendere ogni quattro
ore. Lo confesserà però solo nel 1995, anche a Puffer che immediatamente si
sottoporrà a un controllo: l’esito sarà negativo. “Non so cosa sapesse dei
rischi da HIV nell’acqua” dirà l’allora segretario della FINA Gunnar Werner.
“Se sapeva che non ce n’erano, non vedo alcun pericolo nel mantenere il
segreto. Ma se era solo spaventato e non sapeva quel che sarebbe potuto
succedere, penso abbia corso un enorme rischio”. A ripensarci, ammetterà dopo
la conferenza stampa Mike Moran, portavoce del comitato olimpico Usa, “è una
questione privata fra l’atleta e le persone cui sceglie di rivelarlo. Non
abbiamo intenzione di imporre test per l’HIV per poter competere. La gente deve
capire che gli atleti rappresentano l’America, in tutti i suoi aspetti e le sue
diversità”.
Una volta
ricucito, Greg prende una decisione. “Abbiamo lavorato troppo perché io mi
arrenda adesso” annuncia a O’Brien. Si ripresenta sul trampolino per un tuffo
con tre avvitamenti. Il pubblico trattiene il fiato. L’esecuzione è
spettacolare: 87.12 punti, il punteggio più alto della gara per un singolo
tuffo. “Mi sono ispirato a un mio amico” scriverà anni dopo, “Ryan White”. È un
ragazzo dell’Indiana affetto da emofilia di tipo A e deve ricevere trasfusioni
settimanali di Fattore VIII. Nel dicembre 1984, a 13 anni, si ammala di
polmonite e scopre di essere affetto da AIDS che, scoperta due anni prima, in
America è ancora la malattia degli emofiliaci, degli eroinomani, degli
omosessuali, degli haitiani, tanto che solo nel 1985 verranno introdotti i
controlli preventivi sui donatori di sangue. Quando ritorna nella sua scuola,
le famiglie trasferiscono molti dei figli in altri istituti. Così i White si
trasferiscono a Cicero, dove trova un ambiente decisamente diverso e più pronto
ad accoglierlo. A marzo di quel 1988, White ha fatto piangere l’America davanti
alla Commissione per l’AIDS. “A 13 anni ho visto in faccia la morte. I dottori
mi hanno dato sei mesi di vita e io mi sono dato obiettivi alti. Ho preso la
decisione di vivere una vita normale, di andare a scuola e stare con i miei
amici. Sapevo che non sarebbe stato facile. Tutti volevano la garanzia assoluta
e totale che il contatto casuale non causasse contagio. Ma non esistono
garanzie del 100% nella vita. Io e la mia famiglia non proviamo odio per queste
persone, perché abbiamo capito che sono vittime della loro ignoranza. Crediamo
che con la pazienza, la comprensione, l’educazione, io e la mia famiglia
possiamo cambiare la mentalità e l’atteggiamento delle persone intorno a noi”.
Saranno
proprio le confessioni di Louganis, di Magic Johnson, di Arthur Ashe a cambiare
la percezione dell’America e del mondo verso una malattia che, come tutte, può
colpire anche i migliori.
Il resto, in
quella finale olimpica a Seoul, è storia. Louganis vince l’oro dal trampolino
con un margine di 25 punti sul cinese Tan Liangde. Molto più lottata la finale
dalla piattaforma. Prima dell’ultima rotazione, in testa c’è il cinese Xiong
Ni, 14 anni, che avrebbe vinto tre ori tra Atlanta e Sydney. Con l’ultimo tuffo
ottiene 82.56 punti. Louganis ha bisogno della perfezione. E la trova: 86.70
punti, 1.14 più del cinese. “Mister Perfect” saluta i tuffi. E non servirebbe
aggiungere che per l’addio ha scelto il triplo e mezzo rovesciato raggruppato,
il Tuffo della Morte.
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