Una volta fondate, le città greche di Sicilia e Magna
Grecia recitano da protagoniste nella storia dei territori colonizzati, nel
rapporto a volte conflittuale, ma comunque proficuo con altre realtà culturali,
nella speciale interpretazione di sviluppi politici che interessarono anche la
madrepatria, nell’attivarsi di dinamiche innovative, percepibili, in alcune
aree almeno, fino e oltre la prima guerra punica. Tanto da partecipare
anch’esse attraverso memorie storiche e monumenti alla definizione della nuova
Italia.
di Stefania De Vido
Greci, indigeni, Fenici: difficili intrecci
La storia delle città greche fondate in Italia ci
riguarda molto da vicino, non c’è dubbio. Ci riguarda perché i Greci qui giunti
a partire dall’VIII secolo hanno costituito un ingrediente essenziale nel
progressivo farsi di un’identità che non ha potuto né voluto prescindere da
essi anche quando si è avviato e concluso il processo unificante sotto il
dominio di Roma.
Tra l’età arcaica e l’età classica la geografia umana
dell’Italia meridionale e della Sicilia è molteplice e varia; non solo: essa
cambia con l’attuarsi di dinamiche storiche complesse che fanno di questa vasta
regione una declinazione sotto molti aspetti particolare, e particolarmente
vitale, nella storia del Mediterraneo colonizzato dai Greci. Solo un assunto
pregiudiziale, invero ormai superato dalla critica, guarda a questa come a
grecità periferica e dunque in qualche modo deteriore rispetto alla presunta
purezza delle città della madrepatria. Proprio nel contatto più o meno amichevole
con le realtà etnicamente diverse essa ha invece trovato motivo di cambiamento,
se non di maturazione, costituendo insieme a esse capitoli nuovi nella storia
“d’Italia”.
Il primo, e forse più arduo, elemento è costituito dalle
popolazioni indigene, come tali preesistenti all’arrivo dei Greci. Senza voler
entrare qui nel dibattuto e forse irrisolvibile problema dell’etnogenesi della
penisola e della Sicilia, resta che anche in Italia l’inizio dell’età del Ferro
– e con essa la colonizzazione – segna un passaggio essenziale non solo nella
cultura materiale, ma anche nelle modalità di popolamento. Ora, difficile dire
cosa viene prima e cosa dopo, e, soprattutto, scandire la catena delle cause;
sta di fatto che è proprio con l’VIII secolo e dunque con l’avviarsi dei
processi insediativi da parte dei Greci che si colgono segni di cambiamento nel
popolamento “originario”, da leggersi facilmente come reazione ai meccanismi
avviati dall’innesto ellenico in grande stile (grande rispetto ai numeri di
allora). Una carta dell’Italia preromana potrebbe mostrare quanti colori e
popoli (ethne) vi fossero; certo, non va dimenticato che di essi spesso
ricostruiamo nome e localizzazione a partire da una geografia greca che in
questi popoli ha voluto riconoscere scansioni o differenze (di origine, di
cultura, di nomoi), lì dove la cultura materiale mostra un panorama assai più
sfumato e non sempre evidente. Anche la lingua, sensore più di altri oggettivo
nel riconoscere gruppi culturalmente diversi, è scritta in alfabeti mutuati e
derivati da quello greco (quello latino compreso), rendendo non sempre agevole
l’esatta localizzazione sul territorio.
Non basta: svolgono un ruolo di rilievo e per più versi
decisivo gli Etruschi che pur stanziati nelle lontane terre dell’attuale Toscana
incrociano le vicende dei Greci anche in luoghi sorprendenti (l’alto Adriatico
di Spina e Adria, per esempio), facendosi ovunque mediatori importanti di
modelli e valori propri del mondo ellenico. I Fenici, infine, che insediati
stabilmente in Sardegna e in Sicilia occidentale, si fanno progressivamente
promotori e interpreti delle ambizioni cartaginesi nei mari e nelle terre
d’Italia.
Grecità d’Occidente: esperimenti
Difficile e forse improprio, dunque, parlare di grecità
occidentale come entità statica e sempre uguale a se stessa, là dove sin dalle
prime generazioni coloniali essa ha mostrato capacità di innovare e di
cambiare, di interpretare cioè il bagaglio metropolitano alla luce degli
stimoli della terra straniera. E questo non si verifica solo al momento dei
primi insediamenti, ma matura con il maturare delle molteplici esperienze
storiche delle colonie che, al pari delle città di Grecia propria, vivono
un’ampia gamma di esperienze politiche e sociali pur sotto la peculiare
angolatura occidentale.
Anche le colonie di Magna Grecia e Sicilia conoscono le
lacerazioni della conflittualità interna che produce non solo staseis
(“conflitti interni”) e violenza, ma anche dinamismo sociale, vitale tutte le
volte che sa trasformare, integrandole, le molte componenti della città,
compresi quegli elementi anellenici che costituiscono imprescindibile serbatoio
non solo di forza -lavoro e di donne, ma anche di risorse materiali e non. In
maniera leggermente attardata rispetto alle madrepatrie e meglio documentata in
Sicilia che in Italia, anche queste poleis conoscono così la tirannide, assunta
con la forza da personaggi spesso di estrazione aristocratica che giocano le
proprie carte pensando in grande.
In queste città arrivano artisti, poeti, filosofi; queste
città sono ricche, popolose, in crescita costante e spesso proprio sotto i
tiranni si dotano di quei complessi monumentali che fanno dell’arte greca
occidentale (architettura, scultura, coroplastica) una variante non periferica
delle espressioni artistiche metropolitane.
Queste poleis hanno soprattutto grandi ambizioni di
espansione per mare e per terra: gli Emmenidi di Agrigento puntano a nord,
verso l’interno sicano e la costa settentrionale dell’isola, dove contano di
mettersi in contatto diretto con i mercati tirrenici controllati dagli
Etruschi; i Dinomenidi costruiscono la propria forza tra Gela e Siracusa e
procedono con una spregiudicata strategia che mira al controllo sulle città
greche di matrice calcidese e sui Siculi; le città dello Stretto si contendono
egemonia e controllo di un passaggio vitale nell’equilibrio delle forze tra
isola e continente. Le carte si confondono cento volte e quando, nel fatale 480
a.C., la coalizione greca guidata da Gelone di Siracusa vince sui Cartaginesi
(e le alleate Reggio e Selinunte) non è solo, come vorranno i posteri, la
vittoria dei Greci sui barbari (duplicata di lì a poco da Ierone contro gli
Etruschi a Cuma), ma anche e forse soprattutto la superiorità di alcune colonie
sulle altre, la sanzione definitiva dell’egemonia di Siracusa nei decenni a
venire.
Per certi versi in Magna Grecia gli esperimenti sono
ancora più originali: c’è un uomo che arriva dall’Oriente, Pitagora. Nella
seconda metà del VI secolo la grande Crotone accoglie il sapiente e da lì ha
inizio una vicenda che, lungi dall’essere solo crotoniate, coinvolge numerose
altre poleis, Metaponto in primis, generando una sorta di rinnovamento politico
che declina l’identità aristocratica tipica di queste comunità secondo le
prescrizioni severe di un pensiero che è anche stile di vita e che come tale
attrae, assorbendole, anche le componenti indigene. Il pitagorismo in Magna
Grecia diventa così lievito della trasformazione politica, soprattutto per il
crollo dei poteri più tradizionali, quale quello dell’achea Sibari, caduta nel
510 a.C. proprio per mano crotoniate.
La fine di Sibari è un evento spartiacque non solo dal
punto di vista delle traballanti cronologie della storia arcaica, ma anche
sulla lunga distanza di una complessiva dinamica territoriale. I profughi alla
ricerca di una possibile patria, un vuoto da riempire: anche queste sono le
premesse dell’ambizioso progetto pericleo che sfocia, nel 444 a.C., nella
fondazione di Thurii, colonia panellenica. Anche in questo caso il panellenismo
rimane più utopia che concretezza, ma gli anni Quaranta del V secolo segnano
comunque l’avvio, o l’incremento, della politica ateniese in Occidente. Il tema
è molto dibattuto; basti qui dire, con il linguaggio di Tucidide che ha
dedicato a questa Atene pagine memorabili, che inevitabile fu non solo la
guerra con Sparta, ma anche l’aprirsi per Atene delle prospettive occidentali,
prima con missioni esplorative o limitate per forze e obiettivi (negli anni
Trenta e Venti) e poi con la grande spedizione del 415-413 a.C. Qui la storia
del Mediterraneo si salda nel segno di una grande ambizione – coltivata da
Alcibiade – e di una tremenda disfatta, con la morte o la prigionia di tutti
gli Ateniesi vinti. Non furono sufficienti le incerte alleanze con Leontini,
Reggio e Segesta nel segno di una parentela inattuale e di ricchezze solo
promesse: in fondo continuava a essere valido il principio orgogliosamente
proclamato dal siracusano Ermocrate nel congresso di Gela del 424 a.C. – “la
Sicilia ai Sicelioti” – a dire di un destino ancora tutto isolano, tutto
coloniale. Strano paradosso: proprio nel V secolo, nel momento in cui giungono
a compimento molti dei processi avviati nel periodo arcaico, il flusso quasi
costante che aveva spostato uomini e cose dall’Egeo orientale verso Occidente
sembra subire un brusco rallentamento o, piuttosto, un significativo
cambiamento di segno. Non erano più i tempi della colonizzazione di vecchio
stampo; altro era il modo di concepire modi e funzioni degli spostamenti di
consistenti gruppi di uomini. Il mondo stava diventando (troppo) piccolo e le
modalità innovative, per quanto violente, messe in atto dall’impero ateniese
l’avevano drammaticamente dimostrato.
Mentre Atene arretrava, un’altra grande potenza si faceva
di nuovo avanti in Sicilia; e forse la coincidenza non fu casuale. Proprio alla
fine del V secolo, infatti, Cartagine dopo la lunga pausa seguita alla
sconfitta di Imera torna in grande stile nell’isola, con il solito pretesto di
aiutare una città amica e poi, in breve tempo, con altre e più strutturate
intenzioni.
Siracusa: polis, territorio, “stato”
Proprio sui progetti di Cartagine si gioca la storia
della Sicilia nel IV secolo a.C., fino a quando Siracusa passa il testimone a
Roma, che conduce la partita con la presenza punica nel Mediterraneo disponendo
di ben altri mezzi e prospettive.
Sulla paura del nemico fa leva anche Dionisio, bravo
comandante (a lui si deve l’introduzione massiccia nell’esercito di mercenari e
di poderose macchine da guerra) e politico acuto, quando nel 406 viene scelto
come “stratego con pieni poteri” per fonteggiare i Cartaginesi che, sbarcati
nell’isola pochi anni prima, avevano già abbattuto Selinunte, Imera e
Agrigento, cioè le più importanti colonie della grecità isolana. Il potere di
Dionisio ha molti nomi – dynasteia, tirannide, strategia –, attraversa
quarant’anni, annuncia un mondo nuovo. Il motivo antipunico rimane costante, ma
nei fatti non sa andare oltre la spartizione dell’isola tra le due potenze: di
là, nella parte occidentale, l’eparchia punica, di qua le città greche sotto
l’egemonia di Siracusa; ma il modo spregiudicato con cui questa egemonia
acquista le sembianze di un potere territoriale in cui le identità cittadine
vengono sacrificate alla supremazia della “capitale” già annuncia le grandi novità
dell’ellenismo. Non solo: Dionisio immagina un potere transmarino, cerca di
andare oltre: oltre lo Stretto anche grazie al patto di ferro con la città
amica Locri Epizefirii per unificare sotto il suo nome le città greche di
Italia che proprio contro di lui e i Lucani si riuniscono in lega; oltre il
limite superiore della grecità in Italia, fino a depredare il santuario di
Pyrgi; oltre l’Adriatico, fino a fondare remote colonie sulla costa dalmata.
Quasi una prefigurazione di ben altre diabaseis (“traversate”) che avrebbero
fatto Roma padrona della Grecia.
Morendo, il tiranno lascia una difficile eredità mal
gestita dal figlio Dionisio II e dal cognato Dione: anni spesi in feroci lotte
politiche e in utopie inefficaci che in qualche modo aprono la strada prima a
Timoleonte e poi ad Agatocle. Timoleonte è per certi versi un uomo del passato,
non solo perché viene mandato dalla lontana madrepatria Corinto per risolvere
le questioni interne alla colonia, ma soprattutto per tutte le parole
sbandierate per risolvere in un sol colpo la lotta contro Cartagine e contro la
tirannide: accordo, ricolonizzazione, alleanza militare tra le città greche,
libertà.
Ma nonostante la vittoria del Crimiso, la Sicilia resta
comunque divisa in due; e nonostante i tentativi di riforma, Siracusa resta
così tormentata da lasciare spazio all’ascesa di un uomo nuovo, figlio di
vasaio e grande soldato, Agatocle. Anche il potere di Agatocle cavalca capacità
militare e slogan antibarbarici, ma egli osa di più, portando flotta ed esercito
sul terreno stesso del nemico, in Africa, donde però torna sostanzialmente
sconfitto, e giungendo a controllare Corcira, isola che torna a svolgere un
ruolo chiave tra Oriente e Occidente pur nell’inedita veste di dote per la
figlia del tiranno; il quale nel frattempo è diventato basileus, allineandosi a
tutti diadochi che nel 306 a.C., uno dopo l’altro, si fregiano di un titolo dai
molti echi e dai molti onori, inaugurando l’ellenismo dei regni.
L’Occidente greco, però, non ha nel suo destino un regno,
ma la repubblica romana che nel frattempo si è già affacciata in quella che era
stata Magna Grecia, martoriata dall’aggressività delle popolazioni locali,
Lucani e Sanniti. Anche dopo la morte di Dionisio, la lega italiota continua a
svolgere un ruolo attivo soprattutto per dar forza a un elemento greco sempre
più in declino.
Anche in Italia si guarda alla Grecia metropolitana:
Taranto, nel frattempo diventata città egemone della lega, nella seconda metà
del IV secolo chiede aiuto prima ad Archidamo spartano, poi ad Alessandro il
Molosso e poi – ma siamo già nel 280 a.C. – all’epirota Pirro, a partire dal
quale la storia dei Greci di Italia è ormai storia di Roma.
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