Peter Paul Rubens, Romulus and Remus
Sulle prime non ci volevo credere, ho
pensato che la notizia fosse scaturita dalla giovialità goliardica d’una
tifoseria calcistica. Poi sono stato richiamato alla realtà dall’imbarazzo di
un giornalista del Tg che, con aria esitante, forse perché gli scappava da
ridere, ha confermato quella che era sembrata a tutti gli effetti una burla.
Eccola: «Hanno affumicato le tette della lupa».
MICHELE MIRABELLA, 8 Aprile 2018
I fatti. Nel telegiornale della tv di
Stato, di un paese di cui molto si occupano le cronache politiche di questi
tempi, per parlare della partita di calcio, Roma-Barcellona, hanno arredato lo
studio con i blasoni delle squadre. Come tutti sanno quello della Roma, per
dirla con gergalità approssimativamente araldiche, è troncato di giallo e di
rosso cremisi onerato di una lupa capitolina che sazia due lattanti con le sue
mammelle gonfie di latte. Nel basso dello scudo, «di giallo la scritta riporta
il nome di Roma e la data 1927». Ma né l’araldica, né la correttezza
diplomatica, né il senso del ridicolo, hanno potuto nulla contro la censura,
forse nella sua più vergognosa variante, l’autocensura. Ha colpito durissimo
sul morbido, sul soavemente tenero: sulle mammelle della lupa, della gloriosa e
affettuosa lupa capitolina che, con il suo latte, sfamò Romolo e Remo, come
sanno, non solo i Romani, non solo gli Italiani, non solo gli Europei, ma tutti
gli uomini e le donne che hanno letto un libro di Storia. Il censore ha
offuscato la Storia.
Il censore mastofobico è un tale di
alte responsabilità nella tv di Stato dell’Iran. In quel paese offuscando,
oltre le tette lupesche, anche una lunga storia e un’antica cultura,
l’integralismo cupo opprime, ammutolisce, acceca ogni idea, ogni voce, ogni sguardo
che non siano contemplati nella rigida disciplina ideologica che
un’anacronistica teocrazia impone al popolo.
Del censore nulla si sa, a parte la
sforbiciata dello spray che ha rinsecchito le mammelle della lupa e ha tagliato
la testa a uno dei due gemelli. Non sono in grado di precisare se il decapitato
sia Romolo o Remo. E, allora, approfitto per una lezioncina bonaria per
ricapitolare agli asini che troneggiano cupi sulle scrivanie iraniane e a
qualche scemo epigono italiano, i fondamentali di una conoscenza del passato
sunteggiando un manuale di Storia.
Un semplice libro, uno di quei libri
che i censori volentieri brucerebbero come fu fatto da chi li ha preceduti
nelle gerarchie dell’integralismo musulmano che diedero fuoco a quanto restava
della Biblioteca di Alessandria. Un primo incendio fortuito appiccato per
errore dalle legioni romane aveva incenerito una parte di quel tesoro
dell’umanità. Un danno collaterale che aveva fatto piangere Cesare. Ebbene, nel
libro di Storia antica si narra la leggenda di Romolo e Remo e della fatidica
fondazione di una delle più grandi città di tutti i tempi e su quella favola
instancabilmente si tramano da sempre variazioni affascinanti: sui fondanti
solchi sacri, sulla faticosa vicenda umana di un popolo intelligente, valoroso,
instancabile che ha fondato la civiltà moderna. E il suo retaggio narra quella
a venire. E lo ha fatto inventando cultura, misurandosi con quella degli altri,
talora anche da questa lasciandosi conquistare. Ricordiamo la constatazione amaramente
felice di Orazio: «Grecia capta ferum victorem cepit». E il poeta continua,
arpeggiando, «Et artes intulit agresti Latio». «La Grecia, conquistata dai
Romani, conquistò il selvaggio vincitore e nel Lazio agreste portò le arti».
Per questo Virgilio aveva potuto cantare del suo Titiro musico bucolico. E Roma
conobbe l’Europa e il mondo mediterraneo e l’Asia e la Britannia. Anche la
Persia. Conobbe conquistando, ma a tutti impose un modello di civiltà che
attivò e ancora determina altissime culture e modi di vivere e di essere. Erano
tali anche nell’antico, innumerevoli nelle suggestive varianti di lingue,
tradizioni, religioni, culti, storie. Il Pantheon romano si amplia e armonizza
con quello greco, inneggiando ai fasti olimpici anche con la venerazione delle
divinità famigliari che non su un sacro monte si lasciavano implorare, ma nella
rustica poesia del focolare di famiglia che aveva attinto la sua scintilla al
fuoco di Vesta.
Agli Etruschi si volle attribuire il
dono della Lupa Capitolina cui, più tardi, uno scultore di alto pregio aggiunse
i neonati famelici, forse il Pollaiolo. Adesso gli studiosi avvertono che la
scultura dell’animale sarebbe medievale. Alleggeriti gli Etruschi del loro
meritorio tributo, resta la bellezza dell’opera da cui l’intera umanità sembra
essere affascinata e pacifico suggestivo si mantiene come simbolo di una
fratellanza nel segno di una civiltà rispettata da tutto il mondo e da tanta
parte dell’umanità condivisa. Salvo che dal censore iraniano. Il fatto più
fastidioso è che lui, l’integralista, non ha in antipatia la lupa e neanche
Romolo e Remo che non sa chi siano. No. Lui ha paura delle mammelle. Di
chiunque. Di qualsiasi femmina. Dalle parti del fondamentalismo islamico, hanno
orrore dell’eros: del nudo, quindi, che per loro ne è la condizione
provocatoria. Vogliono che le donne, svergognate per il solo fatto di essere
donne, siano occultate dalla vergogna, quella, sì, orribile, del nascondimento.
E l’arte cui vorrebbero proibire di rappresentare la
persona umana, quando è riuscita a farlo, andrebbe distrutta, nascosta,
soprattutto quando ha glorificato il Creatore con la bellezza raffigurata
nell’innocente e meraviglioso candore della nudità. Gli Italiani, ipocriti
censori per viltà, nascosero le sculture classiche dei Musei Capitolini negli
scatoloni per non «offendere» l’ospite, il presidente iraniano. Lui non sa
quello che si è perso e i vili e stupidi burocrati nostrani s’arruolarono,
venduti e traditori, tra coloro che considerano la bellezza del corpo, specie
del corpo femminile una spinta peccaminosa alla depravazione. Nella
gara degli imbecilli ci rimette le tette la lupa dei romanisti. A loro vada la
nostra solidarietà. La lupa dei Romani sta nel libro della Storia.
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