Venerdì 6 luglio 2018 alle ore 20 , nei
Giardini di Castel S. Angelo, Roma, la presentazione del libro
Venerdì 6 luglio 2018 alle ore 20 , nei
Giardini di Castel S. Angelo, Roma, nell’ambito di Letture d’estate si terrà, a
cura di Mariarita Pocino, l’Incontro con Franco Onorati, autore del volume Le
stagioni romane di Maria Callas (Edilazio) Letture di Laura Colombo.
Franco Onorati, giornalista pubblicista e
direttore responsabile della rivista «il 996», edita dal Centro Studi “Giuseppe
Gioachino Belli”, ha pubblicato, tra l’altro, Libiamo libiamo. Trasgressioni
conviviali nell’opera lirica e dintorni (1987); Le lingue della realtà (1993);
Strenna per Mario dell’Arco (1955); A teatro col Belli. Il sublime ridicolo del
melodramma nei sonetti romaneschi (1996). Ricorrendo il centenario della
nascita di Mario dell’Arco (1905-1996), ha promosso un convegno di studi a lui
dedicato, i cui atti ha poi curato per le Edizioni Gangemi (2006). Ha
presentato al Convegno Gli Scrittori stranieri raccontano Roma (Roma 13-15
maggio 2006) la relazione “Da Berlioz a Wagner. Roma nelle lettere e nelle
musiche dei compositori stranieri” .
Vicepresidente del “Gruppo dei Romanisti”, collabora alla redazione
della Strenna dei Romanisti. Alla Strenna destina saggi sui soggiorni romani di
musicisti italiani e stranieri. Franco Onorati è autore anche di Pagine
belliane. Elzeviri(Prefazione di Piero Gibellini, Edilazio, 2016 (vedi più
sotto).
Ci è gradito riportare qui di seguito,
ringraziando l’autore questa bella recensione al libro di Marco Onofrio.
Eccola.
Questo libro di Franco Onorati, che conclude
in bellezza il suo 2017 d’autore dopo I musicisti e Roma uscito ad aprile per
Elliot edizioni, è prezioso non solo perché consente una ricostruzione delle
stagioni romane di Maria Callas attraverso lo spoglio paziente dei giornali
dell’epoca, ma anche perché esplora l’universo estetico del grande soprano
mettendone in luce alcune caratteristiche fondamentali, soprattutto in chiave
di teatralità. Diciamo teatro e pensiamo subito alla Grecia. Simonetta Petruzzi
parla, nella bella prefazione al libro, di “grecità uterina”. Maria Callas
(anzi: Anna Maria Cecilia Sophia Kalogheròpoulos) nasce a New York il 2
dicembre 1923, ma viene concepita in Grecia prima della partenza dei suoi
genitori per gli Stati Uniti. Per avvicinare l’essenza magnetica del suo “mito”
Onorati evoca opportunamente le 5 fonti del Sublime dello pseudo Longino,
ovvero: veemenza ed entusiasmo della passione; grandezza d’animo;
atteggiamenti; ricchezza espressiva; esplicitazione delle parole. Se andiamo a
riaprire il testo antico, leggiamo che il sublime rappresenta l’apice
dell’espressione artistica e produce esaltazione, passione, ebbrezza: “la
nostra anima viene come esaltata dal vero sublime, e nel toccare
un’entusiasmante altezza si riempie di gioia e di orgoglio, come se lei stessa
avesse generato ciò che ha udito”. Il sublime è “grandioso, numerose sono le
riflessioni che provoca, è difficile – anzi impossibile – opporgli resistenza,
e il suo ricordo è saldo e incancellabile”. Mi paiono definizioni che calzano a
pennello per l’arte di Maria Callas e gli effetti che tuttora provoca nel
fruitore, purtroppo non più dal vivo.
Il sublime, insomma, evoca cose immense, che
travalicano il momento estetico da cui sono originate. E irradia l’infinita
suggestione di ciò che supera la condizione umana. Ecco perché Maria Callas è
passata alla storia come “divina”! Il sublime, inoltre, è l’arte che ritorna
alla natura. E “l’alleanza reciproca delle due, potrebbe forse essere la
perfezione”. E allora vien fatto di chiedersi: dove l’arte e dove la natura nel
prodigio che suscitava ovunque, non solo con la voce? La teatralità di Maria
Callas si esplicitava nel coinvolgimento segnico e tendenzialmente iconico
dell’intero corpo, dei costumi di scena, delle espressioni del volto ma
soprattutto del gesto, sempre dotato di essenzialità e ponderata funzionalità.
Aveva imparato a “non muovere mai la mano senza seguirla col cervello e con
l’anima”. Era una incontentabile perfezionista, studiava e preparava ogni
minimo dettaglio dello spettacolo, anche i ruoli degli altri cantanti. Il canto
era subordinato all’espressività e ricadeva in un contesto di immedesimazione
totale nel personaggio. Maria Callas segna così uno spartiacque tra “prima” e
“dopo” di lei. Riporta il melodramma alla totalità delle origini. La vocalità,
cioè, non può prescindere dall’interpretazione scenica. Il cantante lirico è
anche e anzitutto un attore che vive il dramma sulla scena.
L’esordio romano segue a ruota quello
veronese del ’47: lì “La Gioconda” di Ponchielli, qui la “Turandot” di Puccini,
tre repliche a Caracalla nel luglio del 1948. Poi Wagner, con il “Parsifal” e
“Tristano e Isotta”, dove già si fa notare per la duttilità e la grande gamma
espressiva della voce, e quindi l’arte delle sfumature, i passaggi, le
progressioni. Aveva quattro voci in gola, dissero quando interpretò la
“Traviata”: la mantenuta, l’innamorata, la generosa rinunciataria, la
moribonda. Con la “Norma” di Bellini ottiene il primo trionfo romano: è il 23
febbraio del ’50. Nel maggio del ’52 è Elvira nei “Puritani”, sempre di
Bellini, al Teatro dell’Opera, con E. Montale presente in teatro e recensore della
prima (parlò di “splendore vocale” e di “regale prestanza scenica”). Nel
gennaio 1953 è Violetta per il primo centenario della “Traviata” di Verdi. Un
coro di recensioni entusiastiche; tranne il musicologo napoletano Guido
Pannain, il quale non lesina riserve e perplessità. Ammette che la Callas è
brava, ma “lasci stare la Traviata. La sua voce, nello sforzo di farsi, contro
natura, espressiva, diventa ruvida e aspra, torbida, non drammatica; disumana,
non affettuosa”. Pannain, a dire il vero, mostra nelle sue recensioni una
“persistente e talora acrimoniosa” tendenza a evidenziare i limiti, reali o
presunti, dell’arte callassiana. Onorati si chiede il perché di tale
idiosincrasia. E la spiega con l’impostazione classicistica di Pannain: Maria
Callas si discosta anche intenzionalmente dal modello “voce d’angelo” incarnato
da Renata Tebaldi, sacrificando la purezza del canto alla sua funzione
espressiva e – potremmo aggiungere – espressionistica (come ebbe modo di notare
Montale). Giorgio Vigolo recensisce su “Il Mondo” la “Traviata” parlando della
voce di Maria Callas come di uno “stelo splendente”.
Poi scoppia il “caso Medea”. Roma, 22 gennaio
1955: interpretando la “Medea”di Luigi Cherubini, Maria Callas diventa una
“forza del male” che affonda le sue radici nel mito. Appare ieratica, nobile,
misteriosa, ambigua, sensuale, terribile, feroce: in una parola, sublime. Ma il
“solito” Pannain scrive su “Il Tempo” (23 gennaio 1955): “Anzitutto la
protagonista Maria Meneghini Callas s’agita troppo. Quella non è Medea, la
Medea classica. Tutta chiusa nel suo dolore, inesorabile come il suo destino
che trascende nel mito”. Poi prende le distanze anche dalle “asprezze
metalliche” della voce, che “distolgono dalla commozione”. E nasce una
querellememorabile, indicativa peraltro della vivacità intellettuale
dell’epoca. Pannain, recidivo di lesa maestà, diventa oggetto di
“contrattacchi” non dico degli ammiratori – che sarebbe riduttivo per la Callas
medesima – bensì dei critici privi di malanimo pregiudiziale. Interviene
l’anglista Mario Praz: la lugubre figura della Medea callassiana, scrive, “mi
riporta nella Grecia selvaggia e sconvolta, arata da miti feroci per piantarvi
i fiori di un’arte estatica. Maria Callas leva le braccia (…) è una di quelle
donne di Creta che brandivano le serpi, livide esse stesse come serpi e
micidiali”. Insomma, una specie di Baccante: come chiederle statuaria
compostezza? “Ma le Baccanti”, continua Praz, “si esprimono in modo melodioso?”
La polemica, come si vede, va oltre i confini da cui è originata, assumendo i
contorni del rapporto dialettico che oppone “classico” a “classicistico”, cioè
la visione reale del mondo antico alla sua successiva ed epigonica
codificazione. A questo punto interviene il latinista Ettore Paratore, il quale
rivendica i “veri caratteri della civiltà classica” nella sua autentica
“ricchezza di contenuto”, riscattata cioè da “tutti i secolari equivoci” che le
nuocciono presso il vasto pubblico. Il classicista estrae una rappresentazione
purificata e idealizzata del classico: vorrebbe un “apollineo” emendato dai
semi dionisiaci. Il classico va invece scongelato dagli schemi geometrici e
statuari. Il mondo antico era molto più complesso e irrazionale di come si è
scelto di dipingerlo in chiave ideologica: per capirlo davvero occorre
liberarlo dalle impalcature della retorica. Oltretutto la Callas ha fatto bene,
dal punto di vista filologico, perché la musica di Cherubini si ispira alla
Medea barocca e ardente di Corneille, che a sua volta si rifaceva a Seneca. A
difesa di Paratore rincara la dose, poi, il francesista Pietro Paolo Trompeo,
il quale avalla le ragioni della “convulsa Grecia primitiva dagli atroci miti”
contrapposta alla Grecia dei neoclassici, “rigidamente statuaria”. La replica
di Pannain non si lascia attendere, attraverso una “lettera aperta” su “Il
Tempo” del 4 febbraio 1955 in cui stigmatizza ancora la vistosità coreografica
della Medea callassiana, esagitata, smaniosa, eccessiva, che perde il controllo
del gesto e “dimena le braccia e si batte le mani sul ventre e trema sulle
gambe, come in preda al ballo di San Vito, sì da far perdere il senso della
musica”, giacché – rispondendo per le rime a Praz – “Medea è donna e maga, non
una mènade”. Con il che Pannain consegna la “vittoria” agli avversari: tacciare
Maria Callas “in preda al ballo di San Vito” è un’esagerazione che si
squalifica da sé.
La vera risposta a Pannain la darà Pier Paolo
Pasolini 15 anni dopo, scegliendo la Callas per il suo film “Medea”, girato fra
la Turchia, Grado e Pisa. Nacque un’amicizia tenera, ai limiti di un amore che
non poteva avere corso e neppure inizio, data l’omosessualità di Pasolini. Ma
sorse la leggenda di un bacio: probabilmente la Callas si innamorò di Pasolini.
E andarono in vacanza insieme, nelle isole greche. Lui la seguì poi a Parigi,
lei venne a trovarlo a Roma. Il film (dove la fonte moderna a cui Pasolini
attinge è il dramma “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro, del 1949)
dimostra una volta per tutte la grandezza di Maria Callas come attrice tragica,
il suo “strepitoso istinto della scena e della liturgia gestuale” (E.
Siciliano) educato dagli anni passati sulle scene e soprattutto dai preziosi
insegnamenti di Luchino Visconti. È una presenza magnetica e carismatica.
Recita anzitutto con lo sguardo, di un’intensità impressionante: uno sguardo
“mitico” che trafigge l’anima e fruga dentro di chi lo incrocia. Uno sguardo a
cui fa assumere tutte le gamme espressive: dolcezza, dolore, sensualità,
contrizione, passione, ira, lugubre terribilità (come dopo l’infanticidio dei
figli). Pasolini la chiamava “Uccellino con potente voce d’aquila / e aquila
tremante”. Le ali di quest’aquila non hanno mai smesso di volare, e il suo mito
– a quarant’anni dalla morte fisica, avvenuta a Parigi il 16 settembre 1977 –
ha ormai consegnato alla storia la realtà indubitabile di un’artista tra le
maggiori del ‘900.
Marco Onofrio
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