John Craxton, "Hotel by the Sea", 1946, Londra, Tate Modern
A Londra, British Museum, "Charmed lives in
Greece". Il sodalizio dello scrittore di viaggio Patrick Leigh Fermor e
degli artisti Niko Ghika e John Craxton, con il suo particolare rapporto fra
esperienza e cultura, è «figura» di una Grecia moderna dove condurre
"charmed lives"
Massimo Natale, 15.07.2018
Da qualche parte Patrick Leigh Fermor ha ricordato che
amicizia e scrittura sono intimamente legate. Che anzi, quando si scrive, lo si
fa come pensando a un very close friend, a un amico molto stretto. Non è un
caso, dunque, che il British Museum – fino a oggi, 15 luglio – ospiti una
mostra come Charmed lives in Greece, imperniata su una triplice, straordinaria
amicizia (i curatori Evita Arapoglou, Ian Collins, Michael Llewellyn-Smith e
Ioanna Moraiti sono anche gli autori dei testi che compongono il bel catalogo,
ed. Leventis Gallery, £ 30,00). Visitarla vuol dire, in effetti, ascoltare un
racconto: la storia di come la vita di uno dei maggiori scrittori di viaggio
del Novecento – Fermor (1915-2011) – si intrecci con quella di due pittori e
suoi grandi amici: il greco Niko Ghika (1906-1994) e il britannico John Craxton
(1922-2009). Sullo sfondo, naturalmente, la Grecia. Senza concessioni, però, al
ricordo – magari un po’ naif – di un’Ellade antica, quella inseguita da tanta
cultura di inizio secolo. Basterebbe rileggere, da noi, i viaggi in Grecia di
Mario Praz o di Emilio Cecchi, nei primissimi anni trenta. Gli stessi anni in
cui proprio Fermor, intanto, attraversava a piedi l’Europa, partendo dai Paesi
Bassi fino a raggiungere Costantinopoli e poi il Monte Athos, e mostrando una
qualità diversissima nel rapporto fra esperienza e cultura, con uno sguardo per
così dire privo di nostalgia (il lettore provi, per credere, un libro come
Roumeli, non ancora tradotto in italiano, e dedicato a una Grecia tutt’altro che
classica e marmorea).
La Grecia di Fermor e compagni è quella del dopoguerra,
poi della dittatura, della difficile ripresa e infine dei primi presentimenti
di un turismo di massa. Il percorso, più ancora che dalla cronologia, è
scandito geograficamente. Mentre attraversa le varie sale, il visitatore risale
sì l’onda degli anni, ma vede soprattutto sfilare i luoghi: si potrebbe anzi
dire che ciascuna di queste tre vite è legata in particolare a un diverso
luogo, destinato a dare forma a una specie di mitologia personale. I tre si
incontrano per la prima volta a Londra, proprio sul finire della guerra, quando
Ghika conosce un giovanissimo Craxton (che da lui imparerà non poco, e la cui
exhibition al British Council, nel ’46, si gioverà di un’introduzione dello
stesso Ghika); e poi Fermor, che in quel giro di tempo è una sorta di motore
fondamentale degli intensi scambi culturali fra Grecia e Inghilterra.
Ma è l’isola di Hydra – nel golfo di Saronico, di fronte
all’ala orientale del Peloponneso – a rinsaldare il legame fra i tre. La casa
di famiglia di Ghika diventerà spesso un rifugio per gli amici: qui arrivano
fra gli altri Giòrgos Seferis, Isaiah Berlin e Mawrice Bowra; nonché Henry
Miller e George Katsimbalis (una foto del 1939 li ritrae a Hydra, e di lì a
poco, nel ’41, Miller farà di Katsimbalis il personaggio del suo Colosso di
Maroussi). Qui, nel ’52, arriva anche Fermor, e vi trascorre ben due anni,
ospite in compagnia della moglie Joan. A Hydra soggiornerà, a più riprese,
anche Craxton. La stanza dedicata a Hydra è intanto un’ottima metonimia
dell’intera ricostruzione. A farla da padrona e a guidare il visitatore è la
figurazione: il paesaggio isolano è infatti trasfigurato nelle varie tele
dedicategli da Ghika, fra le quali spicca forse, oltre a un dipinto di larghe
dimensioni intitolato semplicemente Hydra, una Wandering moon over a dead city,
dove la lezione cubista – Picasso aveva peraltro visto le opere di Ghika, nel
’27, a Parigi – riduce le forme dell’isola a uno spazio labirintico, su cui troneggia
misteriosa la luna, e da cui – tratto tipico di tutta la pittura di Ghika – la
figura umana è completamente assente o solo allusa (altrove trionfano alberi,
rocce e aquiloni).
Accanto al figurativo, si apre comunque lo spazio della
scrittura. Ovvio che questo sia anzitutto il dominio di Fermor: l’epistolografo
– ma molte sono anche le lettere di Ghika e Craxton custodite e esposte –
oppure il narratore di paesaggi, che ribattezza Hydra una sorta di «inviolate
island». E proprio nella casa dell’amico porterà a termine il suo libro forse
più noto in Italia, Mani (Adelphi), il racconto dei suoi viaggi nel
Peloponneso. Quando esce, nel ’58, Mani avrà peraltro una copertina disegnata
da Craxton, un occhio nel cielo che guarda un paesaggio turrito: e non si può
non pensare alla cover anche come a una citazione-omaggio di un dipinto di
Ghika, The black sun, dove un sole-occhio svetta su una vegetazione colorata.
Proprio il Peloponneso è il secondo, immancabile
luogo-chiave. Dopo che la casa va in fiamme, nel ’61 – Ghika e la moglie,
Barbara, non vorranno più tornare sui resti dell’edificio – il centro del
triangolo si sposta a Kardamyli. A metà degli anni sessanta Fermor farà
costruire appunto in questo angolo sperduto del Mani una casa in cui rimarrà
fino alla fine della sua vita, e in cui gli andirivieni dei sodali diventeranno
ancora una volta frequentissimi. A catturare l’attenzione, stavolta, è un
oggetto: una Lettera 32, la macchina da scrivere di Fermor. Ma è suggestivo
che, accanto a questa, faccia capolino una macchina fotografica, appartenuta a
Joan, la già citata moglie (della quale Patrick schizza un intenso disegno a
matita, riposto nella stessa teca): una sorta di duetto artistico-coniugale che
è segno di una presenza effettivamente fondamentale nella vita di Fermor, un
connubio amoroso che è stato anche, a sua volta, una forma di liberissima
amicizia (ora Simon Fenwich la racconta in una biografia, Joan, uscita per
Macmillan alla fine del 2017). E la fotografia, intanto, è una delle componenti
fondamentali di questa mostra: come per la bella foto – che finirà sulla
copertina adelphiana del postumo La strada interrotta – in cui Fermor è in
compagnia di una capra (!), ritratto appunto da Joan (in queste stesse
settimane, fra l’altro, è il Museo Benaki di Atene a dedicare una temporanea
proprio allo sguardo artistico di Joan, Photographs of Joan Leigh Fermor –
Artist and Lover).
A un’isola che pure è importantissima per Fermor – che lì
combatte e diventa un eroe della guerra al nazismo – cioè Creta, è invece
legato indissolubilmente il terzo protagonista, Craxton. John vi sbarca per la
prima volta nel 1947, per sistemarsi – dal ’60 – nella parte ovest, in una casa
direttamente affacciata sul porto della cittadina di Chania. Temi e figure
cretesi sono via via pervasivi dentro la sua arte, come nei paesaggi dai colori
vivi, intensamente espressionisti, popolati di capre, o altrove di gatti; o
negli splendidi ritratti, sia a matita che a olio, che inseguono figure di
semplicità, come i pastori, o gli amati marinai: uno Still life with three
sailors sembra quasi giocare, misteriosamente, il ruolo di silenziosa mise en
abime dell’intero percorso espositivo, con tre marinai, appunto, intorno a un
tavolo, intenti al convito.
La chiusura è dedicata agli ultimi anni – occupati in
realtà anche da un altro luogo, Corfù, dove Ghika si trasferisce dopo
l’incendio a Hydra – e infine dal congedo fra i tre. Il primo ad andarsene è
proprio Ghika, nel 1994. Craxton morirà solo quindici anni dopo. A sopravvivere a entrambi è Fermor. L’ultimo corridoio li
vede in tre scatti fotografici in cui la vecchiaia si è impadronita
malinconicamente dei loro volti. Consola, però, che una parola spesso
ritornante, fra le pagine di Fermor qui citate fra pareti e carte, sia
felicità: una happyness raggiunta grazie all’incontro gratuito con l’altro,
oltre che alle sue splendide, solitarie suole di vento.
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