L’età
dell’oro dell’impegno civile, della partecipazione alla vita pubblica, dei
dibattiti costruttivi che consentono ad ognuno di prendere la parola, come
s’immagina accadesse nell’Atene dell’epoca classica, è riferimento familiare a
politologi, filosofi, storici o giuristi, all’interno di una tradizione
preoccupata di accertare le origini delle moderne democrazie, che ha guardato
il “modello” ateniese dell’epoca classica da un punto di stazione quasi
esclusivamente positivo, spesso trascurando schiavitù, esclusione delle donne e
degli stranieri, imperialismo a spese degli altri greci. Non v’è dubbio,
tuttavia, che anche a causa delle sue derive, delle sue défaillances e delle
sue crisi, la democrazia antica, tanto generosamente idealizzata, possa servire
da modello per comprendere meglio l’odierna politica.
Il
pensiero corre ad Aristofane, il commediografo, fattosi agitatore politico, la
cui grande abilità, come ci ha ricorda Luciano Canfora (Cleofonte deve morire,
Bari 2017), consiste nel presentarsi come difensore del popolo agendo, in
realtà, per conto di chi intende distruggere il potere popolare. Le sue
commedie mettono assai bene in evidenza le criticità della democrazia ateniese,
come ad esempio l’ignoranza dei governanti, la mancanza di scrupoli morali in
alcuni di essi, l’interesse dei giudici per il denaro o la libertà di parola
concessa ai meteci e agli schiavi. Si pensi, ad esempio, a Gli Acarnesi, a I
Cavalieri e a Le Vespe: le prime due aggrediscono rispettivamente la politica
estera e la politica interna della democrazia ateniese, ma anche l’assemblea e
l’esecutivo; la terza, invece, mette sotto accusa un altro dei cardini del
sistema: il potere giudiziario.
Tutto il
teatro di Aristofane è comunque, attraversato dall’attacco al sistema
giudiziario, che non si focalizza tanto sulla negatività etico-politica, data
per scontata, ma si scarica sulla proliferazione dei processi implicante
un’esclusività all’interno delle attività pubbliche degli Ateniesi, qualcosa,
insomma, di equivalente nella dimensione collettiva alla mania del singolo, che
occupa l’interezza del suo spazio emotivo. Così, se ne Gli Acarnesi (v. 375),
Diceopoli mette sotto accusa i vecchi Ateniesi che “Non badano a niente altro
che a mordere con il voto”; nel quadro panellenico di Pace, il rimprovero di
Ermes agli Ateniesi è “non fate altro che processi” (v. 505); ne Le Nuvole,
l’illetterato Strepsiade non riconosce Atene sulla carta geografica, perché,
spiega, “non vedo i giudici in seduta” (v. 208); Evelpide, ne Gli Uccelli,
motiva con l’ossessione giudiziaria il disgusto ormai irreversibilmente
maturato nei confronti i Atene: “le cicale cantano sui rami un mese o due; gli
Ateniesi cantano nei tribunali per tutta la vita” (vv. 39-41).
Il testo
de Le Vespe indaga con sottigliezza ed in profondità la relazione tra politici
e giudici, leggendola non nei termini anodini dell’alleanza, ma in quelli di
strumentalizzazione: “Vogliono che tu sia povero, e ti dirò il motivo: così ti
abitui a riconoscere il padrone, e quando fischia per aizzarti contro un suo
nemico, tu gli salti addosso furiosamente” (vv. 703-705). evidente come ci si
trovi nel bel mezzo della polemica politica, il cui presupposto è che la
giustizia viene gestita, cioè mistificata, non secondo principi etici, ma
secondo l’interesse della parte politica dominante: gli ateniesi erano
evidentemente assai litigiosi e ricorrevano spesso alla giustizia di Stato; a
causa della interminabile guerra del Peloponneso, le giurie popolari erano
ormai composte quasi esclusivamente da persone anziane, che si illudevano in
questo modo di svolgere ancora una funzione sociale importante, ossia di essere
ancora in grado di pungere, di qui la metafora dei giudici popolari come Vespe.
In realtà, almeno secondo Aristofane essi erano, invece, soltanto uno strumento
nelle mani del potere, in particolare di Cleone, frequente bersaglio dei suoi
strali: il demagogo aveva portato da due a tre oboli il compenso per i giudici
popolari, accrescendo così il desiderio e la mania degli ateniesi per i
processi.
Nella
folgorante intuizione che il fine delle malversazioni private risulta essere
non solo il personale profitto, ma l’impoverimento delle masse, si saldano il motivo
economico e quello politico: l’indigenza dei giudici è l’esito di uno scaltro
calcolo dei demagoghi inteso a convertire la loro frustrazione in rabbia da
indirizzare nei processi contro i propri avversari politici. Già ne I
Cavalieri, del resto, Demo ringiovanito veniva invitato a prendere posizione
contro le malversazioni giudiziarie (vv. 1358-1360).
La
persistente polemica di Aristofane verso il sistema giudiziario ateniese si
salda, peraltro, e insieme si determina nella demonizzazione ancora più
frequente del “sicofante”, personaggio-chiave dei tribunali, che, sebbene
teoricamente utile alla causa dello Stato, con il suo eccesso di zelo, se non
anche con i suoi abusi legali, incarna un tipo di comportamento decisamente
inviso, se non addirittura nocivo, alla società ateniese: “odiare il
sicofante”, che nell’immaginario della polis costituiva l’ipostasi delle più
diffuse e palesi espressioni distorsive dell’amministrazione della giustizia,
era, come ricordava Aristotele, un sentimento condiviso da “tutti” (cfr.
Retorica, 1382a.6-7).
Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato
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