Luce e
miti hanno la stessa sostanza. Giorgio Ieranò in «Arcipelago»
(Einaudi)
percorre le rotte degli dei e della grande poesia e approda a noi
«L’Egeo —
scrive Giorgio Ieranò nel suo fascinoso libro intitolato Arcipelago (Einaudi) —
ha visto sorgere e tramontare grandi civiltà. È stato protagonista dei momenti
più tragici e più esaltanti della storia mediterranea.
Nelle sue acque hanno
navigato le triremi degli ateniesi e le galee del doge, le navi romane e le
flotte del sultano. Ma, oltre a questo, l’Egeo è, da sempre, anche il mare del
mito». E della luce, va aggiunto: unica, meravigliosa, irripetibile, nutrita
dall’aria, dalla terra, e dal mare. Mi disse un professore di letteratura
ateniese, che soltanto verso sera scendeva sugli scogli di Sifnos, con un
cappellino beige messo di tre quarti: «Voi oramai viaggiate con gli aerei o con
gli aliscafi veloci e non potete accorgervene; ma se una volta vi andasse di
prendere un vaporetto, di quelli che vanno piano, e capitasse che io fossi a
bordo, potrei mostrarvi un punto preciso, dopo un po’ di navigazione, proprio
preciso, nel quale di colpo la luce cambia. Quella non è più la luce , che so,
di Salamina, di Capo Sounion, è la luce dell’Egeo». La luce che si riflette nel
bianco dei muri, che sbalza sul rosso delle rocce, che rende l’azzurro più
azzurro, che è assorbita dal verde degli ulivi, si confonde nell’aria e, come
l’aria, è odorosa di erbe selvatiche, di capra, di iodio. «L’Egeo — scrive
ancora Ieranò, con bella intuizione — è lo spazio di una metafora incessante.
Le sue isole sono, in tutti i sensi, entità in perenne movimento. La stessa
parola greca nesos è forse connessa al verbo nechomai:nuotare. L’isola è dunque
una terra che nuota, che vaga nel mare. Quando si stagliano a distanza, nella
luce abbagliante dell’Egeo, specie all’alba e al tramonto, le isole sono
apparizioni fantasmatiche, epifanie dai contorni incerti, miraggi marini».
«Arcipelago.
Isole e miti del Mar Egeo» di Giorgio Ieranò è uscito per Einaudi (pagine 288,
€ 20)
Queste
visioni — lo sanno tutti coloro che non si stancano di percorrere quello spazio
blu guidati dai gabbiani, di inseguire nuovi approdi, di cullare la nostalgia
dei ritorni — provocano emozioni incontenibili. Però, oltre che dal mare, e
forse meglio, le isole vanno conosciute «da terra»; standoci. Non sbarcare, non
fermarsi, è un peccato mortale: come, nelle città, star fuori dalle chiese. Martin
Heidegger, il filosofo — racconta Ieranò, informatissimo su tutti i viaggiatori
che nei secoli hanno solcato quelle onde — quando fece la sua crociera di rito
nell’Egeo, quasi mai discese dalla nave. Anche a Patmos, nel Dodecanneso, si
rifiutò di scendere. Disse che aveva letto l’Apocalisse e gli bastava così. Io
ricordo una cena romana di tantissimi anni fa con un famoso biblista, monsignor
Rossano; incantevole persona. Lui — mi disse — a Patmos ci andava ogni anno in
autunno e prendeva in affitto per un mese una casetta minuscola che accanto
aveva un grande albero di fico. «Sa — mi sussurrò per non farsi sentire dagli
altri commensali biblisti — certe volte le raffiche di vento che scuotono i
rami e sbattono i frutti al suolo assomigliano, tali e quali, alle raffiche di
vento dell’Apocalisse».
Quasi ogni
isola ha una nascita miracolosa o contempla un mito. Anafi — una delle più
belle, con la sua dolomia alta trecento metri a picco sull’acqua e la sua
piccola chora a conchiglia — apparve all’improvviso per volere di Apollo.
Patmos, se la dea Artemide non l’avesse fatta emergere, sarebbe rimasta per
sempre in fondo al mare. Santorini fu creata da una zolla di terra libica
gettata in mare dagli Argonauti. Rodi fu resa visibile grazie al dio Helios,
innamorato della sua bellezza. A Creta — l’isola che può deludere o
entusiasmare a seconda dei luoghi e delle stagioni: ai primi di maggio è
imbattibile una spiaggetta della costa sud, a luglio i campi gialli di stoppie
dell’interno raggiungono la rarefazione — in una caverna del monte Ida nacque
Zeus. Secondo la leggenda, sul monte Ghiouta, dal quale si scorgono le rovine
di Cnosso, c’è la sua tomba: stando a quanto afferma il filosofo neoplatonico
Porfirio, Pitagora la visitò. Ma c’è anche chi dice che a Creta è sepolto
Caifa, il sacerdote che mandò a morte Gesù.
Delo,
l’isola al centro di una corona di isole — come si vede nelle notti chiare,
quando tutto intorno brillano le luci dei porti e dei villaggi — errava nelle
acque. Scrive Pindaro(la bella traduzione è dello stesso Ieranò): «Errava
infatti un tempo/ sulle onde ai soffi di ogni vento: ma quando la figlia di
Ceo, nel delirio/ delle doglie prossima al parto, vi pose piede,/ allora, ecco,
quattro diritte colonne/ sorsero dal fondo del mare;/ e con i capitelli
sostennero/ su ferrei piedistalli la roccia,/ dove essa contemplò la prole/
divina che aveva generato». La figlia di Ceo era Latona; il connubio era
avvenuto con Zeus; la «prole» era il fratello di Artemide: Apollo. Nel suo Inno
a Delo, Callimaco, il raffinato poeta bibliotecario nell’Alessandria dei
Tolomei, racconta la nascita così: «Latona si sciolse la cintura e appoggiò le
spalle al tronco di una palma, afflitta da una oscura angoscia. Sulla pelle le
scorreva umido il sudore. Sfinita e inquieta disse: — Perché, bambino mio, fai
soffrire tua madre? Eccoti, mio amato, l’isola che naviga sul mare. Nasci,
nasci, bambino mio, e dolcemente esci dal mio ventre». Tornando ad Atene, dopo
aver ucciso il Minotauro, si fermò a Delo Teseo. Racconta Plutarco, nella Vita
di Teseo, che, per celebrare l’impresa, legò i quattordici ragazzi ateniesi
salvati dal mostro «nella catena di una danza rituale che da allora fu sempre
eseguita nell’isola»: la cosiddetta geranos o «danza delle gru», che nei suoi
movimenti replicava i meandri del labirinto.
Uno dei
massimi studiosi dell’antichità greca, Kàroly Kerèny, nei suoi Studi sul
labirinto, sostiene che questa danza primordiale si sia col tempo trasformata
nel syrtos, la danza popolare che tutti conosciamo come syrtaki per via della
famosa scena del meraviglioso film di Cacoyannis, Zorba il greco, nella quale a
ballarla, sulla spiaggia di Creta, sono Anthony Quinn e Alan Bates, ma che si
balla ancora spesso nelle feste, nelle cerimonie, oppure nei luoghi più
sperduti, all’improvviso. È una danza che «sorge», letteralmente, dal profondo
della terra, e ti fa battere il cuore.
Ricordo un
primo di giugno nell’isoletta di Kastellorizo, ancora priva di turisti. Eravamo
noi soli. Ma nella nostra stessa taverna cenava un gruppo di pensionate e di
pensionati greci di qualche associazione d’anziani, venuti in «gita aziendale»
per un paio di giorni da Rodi. Se serve, in tre parole si può descrivere il
posto: una pergola, l’acqua del porto, le montagne alte e nere della Turchia
alle spalle. I pensionati erano molto allegri, bevevano, mangiavano lentamente,
come si usa in Grecia, servendosi dal piatto comune. Da qualche parte veniva
della musica. A un tratto, nel buio della notte, si sciolsero le note del
syrtaki e tre o quattro signore, coi capelli argentei, rotonde, si ravviarono i
capelli e intrecciarono le braccia. Di lì a poco, gli uomini spensero le sigarette
e si unirono alla corona. Battevano il piede, facevano oscillare i fianchi,
sembrava che volassero.
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