Andrea Bonetti
Lydia Koniordou ha lasciato il teatro per diventare
ministro della Cultura. E ha avviato il motore di una rinascita che sta facendo
di Atene la capitale culturale europea. “La cultura ci ha dato coraggio negli
anni della crisi. Per questo ho riattivato i finanziamenti ai giovani artisti”.
Andrea Porcheddu, 22 Luglio 2018
Delfi - Pare proprio, a detta di molti, che Atene stia
diventando la nuova capitale culturale europea: interi palazzi disabitati da
occupare, prezzi ancora bassi, il carattere scontroso e accogliente della
città, favoriscono l’arrivo di artisti di tutto il mondo. Ma, alle spalle della
rinascita culturale greca, c’è il sincero entusiasmo per il teatro, la danza,
la musica, l’arte cui i greci non hanno rinunciato mai, nemmeno nei momenti più
aspri di crisi.
E c’è l’azione sistematica del ministero della Cultura,
guidato con sicurezza e sincera passione da Lydia Koniordou, prima donna ad
assumere l’incarico dopo la mitica Melina Merkouri. È una delle grandi attrici
tragiche (il geniale regista texano Bob Wilson l’ha definita “tesoro nazionale
greco”), eppure Lydia Koniordou non ha esitato ad abbandonare le scene per
accettare l’invito del primo ministro Tsipras.
Ora sta interpretando un ruolo particolarmente complesso,
quello di ministro: forse interpretare Medea è più facile, vero?
«Ho fatto un lungo viaggio nel teatro, come attrice ma
anche come regista e pedagoga. Dopo quaranta anni in scena, ho capito che
dovevo fare un passo indietro. Viviamo un punto di svolta importante: stiamo
dicendo addio a un mondo passato, bellissimo, ricco di grandi momenti ma anche
di dolore e distruzione. E stiamo aspettando qualcosa di nuovo, una nuova era
di cui però non sappiamo nulla. Viviamo l’esplosione della tecnologia, la
globalizzazione selvaggia, le nuove sfide dell’immigrazione, della
disinformazione, le sfide climatiche che pure sono causa di emigrazioni.
Questioni importanti, cui non trovavo risposta nel teatro. Allora, quando il
primo ministro mi ha chiamato, non ho esitato ad accettare questo incarico. Ero
pronta, sentivo la necessità di agire, di fare qualcosa. Così, ho dato un
simbolico saluto interpretando Ham in Finale di partita di Beckett. Ed è stato
un bellissimo saluto».
Cosa possono fare l’arte e la cultura in tempi di crisi?
«In ogni momento di difficoltà o di conflitto, la cultura
diventa una necessità. Non più qualcosa che possa semplicemente rendere la vita
più bella o raffinata, ma davvero una necessità. Ne abbiamo bisogno, per
comunicare, per dialogare, per ritrovare confronto e conforto tra noi, pur
nelle diversità. Il futuro non attiene solo all’economia: l’economia diventa
una giungla se lasciata senza cultura».
La Grecia ha conosciuto questa giungla…
«Certo, come altri Paesi. Quel che è importante e
sorprendente è che, in simili condizioni, la cultura ci ha dato coraggio.
Abbiamo capito la crisi grazie alla cultura. Ci si sarebbe aspettato un
generale collasso culturale, ovvero che la cultura passasse in secondo, terzo,
ultimo piano rispetto ad altre necessità ritenute prioritarie. Invece non è
stato così. I teatri sono pieni, ovunque non solo ad Atene, come i siti
archeologici o i musei».
Il suo ministero sostiene molto i giovani artisti: come
favorite la creatività?
«È una priorità politica. Nell’epoca in cui c’erano
fondi, ho sperimentato io stessa, come attrice, l’opportunità di avere sostegni
economici. Ma in passato non c’erano politiche culturali, né cornici
programmatiche organizzate in cui inserire i propri progetti. Così, una delle
prime cose che ho voluto fare, è ridare motivazioni ai nostri artisti, specie
ai giovani: incoraggiarli a sognare di nuovo, a viaggiare, a far conoscere il
proprio lavoro all’estero. Abbiamo attivato dei finanziamenti straordinari a
questo scopo. Nel 2010, in modo traumatico, i fondi furono tagliati. Li abbiamo
riattivati, pensando in particolare alla creazione indipendente. È stato il mio
primo atto politico e ho fatto in modo che questi finanziamenti resteranno
confermati anche in caso di cambi di governo, sottraendoli alle politiche del
momento. Fosse anche solo per questo, sono soddisfatta e penso di aver assolto
al mio compito».
Atene come la nuova Berlino? La nuova capitale culturale
di questi anni?
«Lo dicono in molti. Mi fa naturalmente piacere. In
particolare per quel che riguarda le arti visive c’è una grandissima vivacità.
Molti artisti stranieri hanno preso casa a Atene o in Grecia. Un grande stimolo
è arrivato da Documenta di Kassel che sta investendo molto sull’arte greca e
sui giovani artisti. E ci sono piattaforme, iniziative anche in spazi occupati
o di autogestioni che danno grande vivacità alla città e non solo. Cerchiamo di
sostenere i giovani artisti: dopo essere intervenuti nella danza e nel teatro,
ora pensiamo alle arti visive. Ricordo di aver incontrato un giovanissimo
pittore afgano, a Kassel, che mi si avvicinò per salutarmi e ringraziarmi: «Voi
non mi avete cacciato e grazie a voi ora sono qui alla mostra». Era uno di
quelli sbarcati illegalmente a Patrasso, che cercava rifugio in Europa. Ora
vive e lavora ad Atene:sarà famoso».
Quale ruolo dunque per la cultura greca in Europa?
«È interessante come la storia faccia spirali, eterni
ritorni. Duemila e cinquecento anni fa abbiamo avuto un’incredibile esplosione,
un big bang di idee: la politica, la filosofia, il teatro. La percezione, lo
spirito che univa tutto, allora, erano le famose “D”: dialettica, dialogo,
diversità e democrazia. Non c’era una sola verità, ma si scopriva la relatività
della verità: Eraclito, i Sofisti, hanno aperto il terreno a tante riflessioni.
Così come, in quell’epoca, si passò dalla cultura della famiglia, dal clan,
alla scoperta dell’individuo, dell’unicità della persona e dei suoi diritti.
Oggi stiamo facendo un passo al contrario. Dobbiamo superare l’eccesso di
cultura individualista, per riabbracciare la cultura del noi. Ecco la
straordinaria esperienza che possiamo fare: tornare dal privato al pubblico.
Capire finalmente che siamo in una globalizzazione, per cui non possiamo fare a
meno dell’altro. Siamo cittadini dello stesso mondo e dobbiamo sostenerci l’uno
con l’altro per far fronte alle questioni sociali, politiche, climatiche. La
cultura greca, attraverso lo strumento del dialogo di cui è maestra, può
ritrovare la dialettica laddove c’è il conflitto, l’ascolto dove c’è lo
scontro, il confronto dove c’è la violenza. Con gli strumenti della cultura
possiamo togliere la polvere da tante realtà date troppo per scontate,
restituire linfa vitale alle democrazie. Ecco cosa può portare in dono la
Grecia».
Ma l’Europa sta svoltando a destra…
«Credo che un fiume, per quanto maestoso, incontri sempre
ostacoli nel suo scorrere verso il mare. La paura, però, fa temere questi
ostacoli, dà loro troppa importanza. Lo sappiamo. Eppure il corso del fiume non
si arresta. Per questo, dobbiamo essere aperti, consapevoli, pronti a
combattere contro ciò che è falso. Questo è il grande rischio: le fakenews, la
manipolazione dell’informazione e dell’opinione pubblica, l’estorsione del
consenso. Dobbiamo lavorare per tenere alta la consapevolezza della gente».
Invece assistiamo all’eterno ritorno della “hybris”,
tanto condannata nelle tragedie classiche…
«È l’arroganza, il proteggersi, tenersi lontani dai
problemi. Non possiamo far finta di niente di fronte alle tragedie. Serve
solidarietà per ricominciare, come fu dopo la seconda guerra mondiale. Oggi,
forse, siamo nelle stesse situazioni. Ci sono grandi poteri economici che
investono sulla paura per distruggere le reti sociali che le persone avevano
creato: ciascuno è lasciato solo a se stesso. Ecco una ragione per cui dovremmo
ritrovare solidarietà tra noi».
Cosa possono fare i governi contro i poteri economici? E
i cittadini?
«Dobbiamo lavorare insieme. Servono cambiamenti che
partano dal basso e altrettanti che siano di governo. Le cose possono cambiare
grazie ai cittadini e ai politici che sanno cogliere le tendenze, le tensioni
che emergono dalla massa critica. È il momento in cui queste alleanze possono
mutare il corso delle cose. Ci sono grandi cambiamenti in atto: dobbiamo capire
in che direzione saranno. Se verso il benessere del popolo o a favore dell’1
per cento della popolazione che trae profitti dalla situazione. Per quel che mi
riguarda, non riesco a concepire come poche persone possano essere felici in
mezzo a tanta infelicità».
La politica può occuparsi della felicità?
«Può essere d’ispirazione. Non so se dirlo, dal momento
che faccio parte di questo governo, ma sicuramente il nostro primo ministro ha
dato una rinnovata ispirazione al Paese. Altri politici europei hanno saputo e
sanno fare altrettanto e spero che lavorino insieme per tracciare la strada,
per vivere un’altra vita, dove non prevalga la paura».
E l’Italia? Da poco è stato fatto un incontro tra governi
e strutture teatrali. Che prospettive?
«Diciamo “una faccia una razza”: si sa, ci amiamo. Quando
gli italiani hanno invaso la Grecia nessuno li ha presi troppo sul serio.
Eravamo amici: eravamo convinti che non ci avreste fatto del male. E davvero
molti italiani hanno protetto i greci dal nazismo. Ci sono poeti greci che
hanno scritto e scrivono in italiano e viceversa ogni classico greco è
fondamentale per gli italiani. Insomma, c’è un dna comune tra noi. Ma la cosa
sorprendente è che i nostri due Paesi abbiano solo recentemente firmato un
protocollo d’intesa, con il precedente ministro della cultura e il primo
ministro italiano, a Corfù. Forse, ci siamo sempre dati talmente per scontati,
da pensare che non ci sarebbe stato bisogno di passi ufficiali. Credo invece
che sia importante costruire cornici in cui inquadrare le nostre
collaborazioni, che spero più strette e regolari. Già esistono iniziative per
teatro, musica, danza. A partire dal Piccolo Teatro che ospita la rassegna
Milano incontra la Grecia, o dall’Istituto del Dramma Antico di Siracusa che
ospiteremo a Epidauro con una regia del greco Yannis Kokkos e attori italiani;
fino al Rossini Opera Festival con cui desideriamo collaborare in modo continuativo.
Ci piacerebbe far conoscere i nostri migliori autori favorendo la traduzione
dei testi e in questa prospettiva stiamo già dialogando con il Teatro Nazionale
di Genova. Intanto cerchiamo di allargare lo sguardo a tutto il Mediterraneo,
dall’Italia a Cipro a Malta al sud della Francia fino alla Spagna o al
Portogallo, che troppo a lungo abbiamo trascurato».
Qual è il rapporto con le grandi Fondazioni private, come
la Onassis Foundation o la Niarchos Foundation?
«Lo Stato ha un compito storico: crediamo che la cultura
sia come l’acqua, un bene pubblico, cui tutti possano accedere. Noi dunque
garantiamo le basi, in modo da favorire l’accesso alla cultura di tutti i
cittadini in tutta la Grecia, non solo nelle grandi città. Le Fondazioni
private, penso alla Fondazione Onassis, alla Fondazione Niarchos e ad altre, al
contrario, fanno benissimo lavori diversi: ad esempio proteggono e incoraggiano
un singolo artista, un singolo gruppo, scelgono, investono. Ciascuno ha la
propria missione: possiamo anzi completare il lavoro dell’altro, senza
competizioni inutili. Lo Stato non deve abdicare al proprio ruolo a favore del
mercato: gli artisti aprono la porta al futuro e per questo hanno bisogno del
sostegno pubblico».
Tornerà ancora in scena?
«Chissà, come insegna Beckett si può sempre
ricominciare!».
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