Benedetto Croce - Lavoro
manuale e lavoro spirituale
«Quaderni
della critica», diretti da Benedetto Croce, Bari, Gius. Laterza e Figli, Agosto
1945. pg. 10-16.
Non pare che
si possa disconoscere da chi osserva non certo lieto le condizioni odierne
della società umana la schemata dignità, quando non addiritura la noncuranza e
il dispregio, e con ciò la schemata
indipendenza ed energia dell’ opera spirituale (religiosa, intelletuale,
artistica) nel confronto del lavoro che si chiama manuale e della correlativa
scienza positiva e della tecnica che lo dirige. Che i due siano inscindibili e
tra loro connessi nella inscindibile unità o relazione di unità dello spiritο,
è assimatico: ma l’ unità, che è vivente e dialettica, ha in sè
il momento del contrasto e della disarmonia che storicamente si accentua or
meno or più, e oggi par che siamo nel più e non nel meno.
La possibilità del contrasto e della disarmonia nasce dalla fondata disntinzione tra il lavoro rivolto al mantenimento e accrescimento della vita fisiologica, economica o materiale che si diga, e quello rivolto allo stesso fine nella vita che si considera per eminenza spirituale, tra le arti che l’ antichità disse “banausiche” e quelle che tenne superiori e ammirò, con riferenza a un gruppo di esse, “belle” e che nei fatto sinonimo di bellezza. E poichè le distinzioni e la dialettica delle categorie del reale inducono la diversità delle disposizioni e attidudini, l’ educazione, e quella che si chiama la natura ed è anch’ essa educazione e svolgimento e formazione storica, producono uomini disposti e addetti particolarmente all’ una o all’ altra di queste due forme di lavoro, il manuale e lo spirituale, grandemente più estensivo il primo a paragone della minoranza che intende all’ altro. Minoranza diversamente intonata, ma per la già ricordata inscindibile unità spirituale, necessaria a quella maggioranza e a lei amica e non già sua concorrente e avversaria, che la opprima e la sfrutti, come solo per infermità di mente o per storditezza di retoriche parole si e’potuto talvolta immaginare e darsi a credere e dire. Oppressioni, approfittamenti, sfruttamenti sono stati e sono nella storia e secondo tempi e luoghi non sentiti così ma rassegnatamente accettati come necessarii e legittimi, che periciò relamente non erano i medesimi che in altri tempi e luoghi, quando per mutate condizioni, furono sentiti tirannici e insopportabili, e meritarono nomi odiosi, diventando nella nova situazione morale nemici e rivoltanti. É cotesta la «grande tragedia del lavoro», della quale un giorno Antonio Labriola eloquentemente mi tratteggiò una sorta di storia-poema che vagheggiava di comporre, in cui si levavano e susseguivano le figure diverse, e pur le medesime nel destino e nel dolore, delle generazioni di lavoratori, da quelle dell’ antico Egito o di Babilonia a quelle moderne d’ Inghilterra, d’ Italia e di Germania: tragedia che tale era solo nel senso che la storia umana è sempre tragedia. Ma la configurazione che prese la storia dei lavoratori nei tre stadii in cui si usa dividerla della schavitù, della servitù e del salariato, non fu opera della minoranza spirituale, sibbene di un’ altra che sorge nell’ interno della maggioranza, tra gli stessi e dagli stessi lavoratori manuali, e che ha le loro stesse attitudini, e con loro omogenità di intenti, di pensieri e di metodi sebbene diversamente indirizzati.
Compοnenti
di questa diversa minoranza sono anzitutto coloro che vennero denominati e
celebrati eroi e patres, e aristocrati e barini feudali, i quali fondarono e
ancora fondano e governano le repubbliche o gli stati; e sono, accanto o sotto
di essi, i conduttori d’ industrie e di commerci, gli uomini d’ affari in una parola,
a cui si devono i progressi della società
umana nei mezzi e nella comunicazione della ricchezza, e che talora
vengolo considerti come l’ aristocrazia o la feudalità moderna, che ha preso il luogo del’ antica.
Anch’ essi non vennero al mondo per compiervi un opera negativa, che sarebbe
contradizione in termini, quantunque piacesse ai tempi del Rousseau e degli
illuministi trasferirli al posto già
tenuto dai due mitici progenitori che, mangiando il frutto proibito,
persero il paradiso terreste e inaguarono sulla terra il lavoro bagnato dal
sudore. Anch’ essi compierono e compiono un’ opera necessaria e positiva; e
compierla non poterono se non sottomettendo gli altri a sè , astringendoli e
costingendoli a lavorare, dirigendoli e
disciplinandoli nel lavoro, e per tal via, fatti loro dominatori, con le
fatiche e i rischi del dominio congiunsero (poichè uomini carnali erano e non
santi e non asceti) il godimento di agi e di
ricchezze, il che rappresentava, in quelle date condizioni, il prezzo
del loro ardimento e coraggio e dei servigi socilali da loro prestati, il quale
cominciò a sentirsi prezzo indebito solo quando non più essi resero servigi o
non ci fui piùbisogno di essi che li rendessero. Ogni altro modo d’
interpretare la realtà di questi fatti è
fantastico e non logico; e fantastica (come ora è risaputo) è la pseudodottrina economica
del Marx che fa del profitto un lavoro
non pagato, la quale, tutt’ al più, vale da drastico simbolo di un’ età in cui
quell rapporto sociale si venne dimostrando antiquato e da mutare o riformare.
Da questo
moto storico è venuta la richiesta che si esprime nella formula della
“emancipazione dei lavoratori”, circa la quale anche bisogna intendersi con
chiarezza. Perchè l’ emancipazione vera e propria l’ uomo non la ottiene,
quando l’ ottiene, se non da sè stesso e in se stesso, nella sua indomabile
libertà e valore morale, e il cristianesimo, che con efficacia assai maggiore
delle antiche filosofie l’ annunziò e la promosse, riconoscendola a ogni
creatura umana, tutte redente dal santue di Cristo, in questo senso, e non già
negli effettuali rapporti economici che richiesero ben diversi e più lenti processi di corrosione e di
dissoluzione, abolì la schiavitù, abolendone l’ idea, e tolse dal disprezzo, in
cui greci e romani lo tenevano, il lavoro manuale e l’ artigianato. Daltro
canto, l’ emancipazione dagli ostacoli frapposti al nostro fare è solo relativa
e particolare, e in assoluto non solo è
inattuabile, ma indesiderabile come contaria alla vita, perchè il nostro
fare e il nostro progredire ha il suo stimolo e la sua materia negli ostacoli:
tanto vero che i soli che di quella assoluta abolizione degli ostacoli facciano
il loro fanatico programma sono gli anarchici o egoarchici. Perciò la cosidetta
emancipazione dei lavoratori (e bisogherebbe dire degli uomini in genere) ha
importanza e significato solo nella particolarità della storia, secondo luoghi
e tempi, ed ha luogo come storico progresso e come tale è segnata nei tre
stadii anzidetti del suo corso, nel terzo dei quali i lavoratori manuali si
vedono governati, al pari degli altri uomini, dalle stesse leggi, e taffi tutti
giuridicamente liberi e partecipi della cosa pubblica e con ciò fabbri delle
loro fortune. Non merita confutazione, tanto è falso e insieme basso, il
diverso guidizio, che gli schiavi antichi stessero meglio dei salariati o
proletarii moderni, perche’ i padroni li preservavano dall’ afannosa incertezza
dell’ oggi e del domani, provvedendo a nutrirli e a vestirli e a dar loro un
tetto, ossia perchè li trattavano come res o come animali domstici. Ma questa
emancipazione, questa sempre progrediente liberazione da ostacoli offensivi
della personalità morale dei
lavoratori, dove mai ha trovato il suo sentimento, il suo pensiero, la sua
parola, se non proprio nell’ altra minoranza, che qui prende il primato, dei
lavoratori spirituali, degli uomini delle religioni, dei folosofi, dei poeti?
Negli uominidi religione che dissero gravi parole sfidando i potenti e
direttamente operarono nelle loro coscienze; Nei filosofi che richiamando alla
comune facoltà di pensare, sono di natura loro demorcartici e “ab optimatibus
non iniuria sibi existimati periculosi”; Nei poeti che nell’ amore e nel
dolore, nella virtù e nell’ errore, nell’ ammirazione e nel compianto
abbracciarono gli uomini tutti, i più
superbi e in più umili, e l’ uomo
degno di pietà scopersero perfino nel
violento Achille e nel delittuoso Macbeth e il cuore generoso nel folle don
Chisciotte? Cio essi hanno fatto e fanno, non già con lo sforzare o con l’ illudere e
ingannare, ma mercè del sentimento della giustizia, della verita, della
bellezza, essi pienamente disinteressati appunto perchè universalmente
interessati; nè già attaccandosi alle utopie, alle sterili utopie foggiate
fuori e contro della realtà, ma attendendo che dagli eventi stessi so producano
le condizionei che rendano via via praticametne attuabili le perpetue
aspirazioni dell’ animo umano che essi tengono vive ed efficienti.
Per questa
intima corrispondenza e simpatia tra l’ opera degli uni e degli altri, della
maggioranza e di questa miniranza, non si avverte avversione o sospetto nei
lavoratori manuali, contadini, artigiani, operai -nel “popolo”, come si suole
designarlo, - contro gli apostoli religiosi, i pensatiro, i poeti. Gli umili,
gli oppressi li hanno accompagnati con le loro religioni popolari, cutluramente
inferiori a quelle da cui derivavano, e abbondanti di favole e di
superstizione, ma che pur serbano lo spirito di quelle. Έ da lasciare alla
superficiale polemica dei protestanti la qualificazione di “paganesimo” data
alla religiosità, poniamo, delle plebi spagnuole o di quelle napoletane, nelle
quali basta la gentilezza del culto della pietosa Madonna a comprovare quale e
quanto tesoro di cristianesimo si racchiuda. Li hanno accompagnati con una loro
letteratura popolare, non propriamente dai popolani stessi creata ma piuttosto
da loro scelta e adattata e imitata come più confacente ai loro affetti e al
loro grado mentale, nella quale essi non effondono solo i loro sentimenti di
amore e di doloroe, ma anche tando al pari dei loro signori, e con non
dissimile fervore ed entusiasmo, le gesta dell’ umano valore nei poemi epici e
cavallereschi. Anche i proverbi, la cosiddetta sapienza del popolo, si sono
formati con l’ esempio e col conftibuto del corcostante mondo di riflessione,
di pensiero e di sapere. Un senso di riverenza ha da parte dei popolani
circondato la persona del dotto, dell’ uomo che sa, che sa più di loro,
ancorchè rinunziino a intendere i suoi concetti, troppo difficili per
loro. E, per contrario, donde veramente
si originano l’ indifferenza, il fastidio, il sospetto, l’ avversione alla
minoranza dominatrice, fattasi usurpatrice, se non proprio dalla cerchia degli
interessi, alti o bassi, dei potenti, dei dominatori nel campo politico e
economico, di coloro dhe in particolari ricorsi dello svolgimento storico
prendono il volto di oppressori e sfruttatori degli altri lavoratori? C’ è
stata non solo una tragedia del lavoro, ma una “tragedia del pensiero”, che conta
innumeri martiri, come tutti sanno, una sempre rinnovantesi persecuzione degli
uomini spirituali, contro cui quei potenti della terra, non paghi dei loro
ordinarii strumenti di guerra e di polizia, aizzarono sovente plebi ignare e
traviate. Nè il favore che in altri casi presso di loro essi trovarono è da
intendere come un serio riconoscimento e come un profondo moto dell’ anima, giacchè, se nelle loro assodate
fortune, nei loro riposi e svaghi e trastuili, quelli chiamarono intorno a sè
poeti e artisti e letterti e dotti, il motivo ne era il lustro che conferivano
alle loro persone e alle loro corti. Una compenetrazione di anime quie non
accadeva e rari furono, anche nello splendore delle nostre corti del
Rinscimento, i principi che avessero sincero amore e intelligenza d’ arte; e,
del resto, gli artisti, gli Ariosti e i Tassi e innumeri altri, ci hanno detto
che cosa sia da pensare dei principi che li protessero e delle loro corti. Ne’
solo si mantenevano quelli interamente estranei all’ intima opera loro, ma
procuravano, per quel tanto che potevano di piegarla ai loro fini politici,
valendosene da banditori di lodi e di adulazioni. Siffatta condizione che il
favore dei principi imponeva agli uomini di lettere mosse lo sdegno generoso di
Vittorio Alfieri, e gli detò il trattato Del principe e delle lettere, neil
quale non perdono neppure a Virgilio di aver lasciato scorrere l’ aurea vena
dei suoi versi per celebrare Augosto e la famiglia di costui. Con l’ Alfieri, e
levando e tenendo fissi gli occhi alla grnde immagine di Dande, i letterati
italiani si vennero sciogliendo dal levame coi potenti, coi aovrani e con gli
uomini d’ affari, e adottarono costume e vitaconforme alla nobilità del loro
ufficio, gelisi della loro indipendenza verso ogni altra forza che non fosse
quella del pensiero e della bellezza. E poichè tra le forze nouve c’ era
insieme con quella della libertà alla quale essi si unirono, l’ altra affine e
diversa insieme della democrazia o della preferenza della quantità alla
qualità, anche a questa, quando fu necessario, resisterono, non prestando
ascolto neppure alla grande autorità morale di un Giuseppe Mazzini, che li
voleva guadagnare alla sue particolari concezioni politiche, per altramente
ispirate che fossero, e abbassarli dafini a strumenti. (La parola del Mazzini,
sia detto per incidente, che tacciava Shakespeare di essere il poeta dell’
individuo isolato e non della società, l’ ho rotrovata sulle labbra di un uomi
di stato sovietico che spregiò in mia presenza un geniale poeta russo contemporaneo
come puramente “psicologico” e non voce specifica del proletariato.)
Ma la
mancanza di riverenza al lavoro spirituale e lo svilimento suo al confronto di
quello materiale e il tentato asservimento alla politica, provengono ai nostri
giorni, non tanto da quelle che ancora si chamano democrazie, che hanno perduto
il loro spirito prepotente, quanto da un altro partito nel quale è passato e
che vuoi essere loro rivale e successore: a quello che ancora si chiama
“comunismo”, sebbene dell’ ideale comunistico non serbi nessun tratto
essenziale, ma sia una particolare formazione nazionalistica e classistica,
rappresentata bensì nella nuova età storica di una vasta parte dell’ Europa e
capace di grandi imprese, ma che
meriterebbe ormai un nome proprio ed univoco e non già l’ altro che
punto più non le spetta o che è equievoco. Ancora si ricorda la sentenza pronunziata da Lenin, all’ inizio della
rivoluzione russa, contro il lavoro intellettuale a vantaggio di quello
manuale, che solo egli stimava serio; e se questo atteggiamento originario
sembra che si sia ora modificato e al lavoro intellettuale si facia anche colà
una parte più o meno larga, il principio
che lo vogerna è sempre quello dell’ asservimento. Il Marx, nelle sue
improvvisazioni metafisiche giovanili, che in lui si solidificarono senza
ulteriore esercizio di autocritica, aveva
teorizzato filosofia, arte e religione nient’ altro che esponenti di
classi e di rapporti economici, e segnatamente del capitalismo, che era il più
attuale e quello contro cui egli combatteva; e gli odierni suoi ingenui
ripetitori dottrianarii, adottando come intangibile questa deduzione filisofica
e questa interpretzione storica, l’ hanvolta al contrario e imposto che
religione, poesia e filosofia siano esponenti del proletariato ossia di coloro
che fanno politica in suo nome, sicchè le violentano per disciplinarle in
questa forma. L’ incomprensione della poesia e dell’ arte, della filosofia, dei
problemi morali e religiosi, e la rozzezza nel trattarli o nell’ ignorarli,
hanno varcato ora i confini della Russia e penetrano anche nei nostri paesi d’
occidente, dove per fortuna trovano altre esperienze, altre tradizioni e più
avveduta critica; Ma con tutto ciò pur fanno sentire il loro soffio sciroccale
e inaridente. Perfino in Italia si è profilata (ma pare che poi non abbia avuto
l’ animo di comparire sulla scena) una setta di giurati o congiurati “scrittori
di sinistra”, democratici o comunisti che vogliano essere disposti a servire.
Ed è curioso
che questi tentativi, questi modi di pensare, questi sentimenti, usurpano l’
aspetto di “molti giovanili”; quando ciò che sono venuto esponendo sopra morsta
che son cose che hanno una storia de secoli, e che erano state dismesse come
difformi dallo spiritο modernο di libertà e di dignità degli scrittori. Ma i
vecchi , contro i quali s’ invoca e si concita ancor oggi la baldanzosa gioventù , questo per lo meno sanno, questo
il loro sguardo chiaramente scorge, quanto lunghe e quanto candide, se anche
poco venerande, siano sovente le barbe delle dosiddette idee dei giovani; E,
per quell che è di me in particolare , io soglio ripetere a me stesso,
allegrandomi, un motto dei padre Dumas, che mi suona non solo arguto, ma pieno
di schietta verità: che i giovani entrano sempre nella vita con una donna
vecchia al braccio e un’ idea vecchia lel cervello.
10 aprile
1945 - B. C.
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