Τετάρτη 27 Σεπτεμβρίου 2017

Benedetto Croce - Lavoro manuale e lavoro spirituale

Χειρωνακτική και πνευματική δραστηριότητα

Benedetto Croce - Lavoro manuale e lavoro spirituale

«Quaderni della critica», diretti da Benedetto Croce, Bari, Gius. Laterza e Figli, Agosto 1945. pg. 10-16.

Non pare che si possa disconoscere da chi osserva non certo lieto le condizioni odierne della società umana la schemata dignità, quando non addiritura la noncuranza e il dispregio, e con ciò    la schemata indipendenza ed energia dell’ opera spirituale (religiosa, intelletuale, artistica) nel confronto del lavoro che si chiama manuale e della correlativa scienza positiva e della tecnica che lo dirige. Che i due siano inscindibili e tra loro connessi nella inscindibile unità o relazione di unità dello spiritο, è  assimatico: ma l’  unità, che è vivente e dialettica, ha in sè il momento del contrasto e della disarmonia che storicamente si accentua or meno or più, e oggi par che siamo nel più e non nel meno.

La possibilità del contrasto e della disarmonia nasce dalla fondata disntinzione tra il lavoro rivolto al mantenimento e accrescimento della vita fisiologica, economica o materiale che si diga, e quello rivolto allo stesso fine nella vita che si considera per eminenza spirituale, tra le arti che l’ antichità disse “banausiche” e quelle che tenne superiori e ammirò, con riferenza a un gruppo di esse, “belle” e che nei fatto sinonimo di bellezza. E poichè le distinzioni e la dialettica delle categorie del reale inducono la diversità  delle disposizioni e attidudini, l’ educazione, e quella che si chiama la natura ed è  anch’ essa educazione e svolgimento e formazione storica, producono uomini disposti e addetti particolarmente all’ una o all’ altra di  queste due forme di lavoro, il manuale e lo spirituale, grandemente più estensivo il primo a paragone della minoranza che intende all’ altro. Minoranza diversamente intonata, ma per la già    ricordata inscindibile unità spirituale, necessaria a quella maggioranza e a lei amica e non già sua concorrente e avversaria, che la opprima e la sfrutti, come solo per infermità di mente o per storditezza di retoriche parole si e’potuto talvolta immaginare e darsi a credere e dire. Oppressioni, approfittamenti, sfruttamenti sono stati e sono nella storia e secondo tempi e luoghi non sentiti così ma rassegnatamente accettati come necessarii e legittimi, che periciò  relamente non erano i medesimi che in altri tempi e luoghi, quando per mutate condizioni, furono sentiti tirannici e insopportabili, e meritarono nomi odiosi, diventando nella nova situazione morale nemici e rivoltanti. É cotesta la «grande tragedia del lavoro», della quale un giorno Antonio Labriola eloquentemente mi tratteggiò  una sorta di storia-poema che vagheggiava di comporre, in cui si levavano e susseguivano le figure diverse, e pur le medesime nel destino e nel dolore, delle generazioni di lavoratori, da quelle dell’ antico Egito o di Babilonia a quelle moderne d’ Inghilterra, d’ Italia e di Germania: tragedia che tale era solo nel senso che la storia umana è sempre tragedia. Ma la configurazione che prese la storia dei lavoratori nei tre stadii in cui si usa dividerla della schavitù, della servitù e del salariato, non fu opera della minoranza  spirituale, sibbene di un’ altra che sorge nell’ interno della maggioranza, tra gli stessi e dagli stessi lavoratori manuali, e che ha le loro stesse attitudini, e con loro omogenità di intenti, di pensieri e di metodi sebbene diversamente indirizzati.

Compοnenti di questa diversa minoranza sono anzitutto coloro che vennero denominati e celebrati eroi e patres, e aristocrati e barini feudali, i quali fondarono e ancora fondano e governano le repubbliche o gli stati; e sono, accanto o sotto di essi, i conduttori d’ industrie e di commerci, gli uomini d’ affari in una parola, a cui si devono i progressi della società  umana nei mezzi e nella comunicazione della ricchezza, e che talora vengolo considerti come l’ aristocrazia o la feudalità  moderna, che ha preso il luogo del’ antica. Anch’ essi non vennero al mondo per compiervi un opera negativa, che sarebbe contradizione in termini, quantunque piacesse ai tempi del Rousseau e degli illuministi trasferirli al posto già  tenuto dai due mitici progenitori che, mangiando il frutto proibito, persero il paradiso terreste e inaguarono sulla terra il lavoro bagnato dal sudore. Anch’ essi compierono e compiono un’ opera necessaria e positiva; e compierla non poterono se non sottomettendo gli altri a sè , astringendoli e costingendoli a lavorare, dirigendoli e  disciplinandoli nel lavoro, e per tal via, fatti loro dominatori, con le fatiche e i rischi del dominio congiunsero (poichè uomini carnali erano e non santi e non asceti) il godimento di agi e di  ricchezze, il che rappresentava, in quelle date condizioni, il prezzo del loro ardimento e coraggio e dei servigi socilali da loro prestati, il quale cominciò a sentirsi prezzo indebito solo quando non più essi resero servigi o non ci fui piùbisogno di essi che li rendessero. Ogni altro modo d’ interpretare la realtà di questi fatti è  fantastico e non logico; e fantastica (come ora è  risaputo) è la pseudodottrina economica del  Marx che fa del profitto un lavoro non pagato, la quale, tutt’ al più, vale da drastico simbolo di un’ età in cui quell rapporto sociale si venne dimostrando antiquato e da mutare o riformare.

Da questo moto storico è venuta la richiesta che si esprime nella formula della “emancipazione dei lavoratori”, circa la quale anche bisogna intendersi con chiarezza. Perchè l’ emancipazione vera e propria l’ uomo non la ottiene, quando l’ ottiene, se non da sè stesso e in se stesso, nella sua indomabile libertà e valore morale, e il cristianesimo, che con efficacia assai maggiore delle antiche filosofie l’ annunziò e la promosse, riconoscendola a ogni creatura umana, tutte redente dal santue di Cristo, in questo senso, e non già negli effettuali rapporti economici che richiesero ben diversi e più  lenti processi di corrosione e di dissoluzione, abolì la schiavitù, abolendone l’ idea, e tolse dal disprezzo, in cui greci e romani lo tenevano, il lavoro manuale e l’ artigianato. Daltro canto, l’ emancipazione dagli ostacoli frapposti al nostro fare è solo relativa e particolare, e in assoluto non solo è  inattuabile, ma indesiderabile come contaria alla vita, perchè il nostro fare e il nostro progredire ha il suo stimolo e la sua materia negli ostacoli: tanto vero che i soli che di quella assoluta abolizione degli ostacoli facciano il loro fanatico programma sono gli anarchici o egoarchici. Perciò la cosidetta emancipazione dei lavoratori (e bisogherebbe dire degli uomini in genere) ha importanza e significato solo nella particolarità della storia, secondo luoghi e tempi, ed ha luogo come storico progresso e come tale è segnata nei tre stadii anzidetti del suo corso, nel terzo dei quali i lavoratori manuali si vedono governati, al pari degli altri uomini, dalle stesse leggi, e taffi tutti giuridicamente liberi e partecipi della cosa pubblica e con ciò fabbri delle loro fortune. Non merita confutazione, tanto è falso e insieme basso, il diverso guidizio, che gli schiavi antichi stessero meglio dei salariati o proletarii moderni, perche’ i padroni li preservavano dall’ afannosa incertezza dell’ oggi e del domani, provvedendo a nutrirli e a vestirli e a dar loro un tetto, ossia perchè li trattavano come res o come animali domstici. Ma questa emancipazione, questa sempre progrediente liberazione da ostacoli offensivi della personalità    morale dei lavoratori, dove mai ha trovato il suo sentimento, il suo pensiero, la sua parola, se non proprio nell’ altra minoranza, che qui prende il primato, dei lavoratori spirituali, degli uomini delle religioni, dei folosofi, dei poeti? Negli uominidi religione che dissero gravi parole sfidando i potenti e direttamente operarono nelle loro coscienze; Nei filosofi che richiamando alla comune facoltà di pensare, sono di natura loro demorcartici e “ab optimatibus non iniuria sibi existimati periculosi”; Nei poeti che nell’ amore e nel dolore, nella virtù e nell’ errore, nell’ ammirazione e nel compianto abbracciarono gli uomini tutti, i più   superbi e in più  umili, e l’ uomo degno di pietà  scopersero perfino nel violento Achille e nel delittuoso Macbeth e il cuore generoso nel folle don Chisciotte? Cio essi hanno fatto e fanno, non già  con lo sforzare o con l’ illudere e ingannare, ma mercè del sentimento della giustizia, della verita, della bellezza, essi pienamente disinteressati appunto perchè universalmente interessati; nè già attaccandosi alle utopie, alle sterili utopie foggiate fuori e contro della realtà, ma attendendo che dagli eventi stessi so producano le condizionei che rendano via via praticametne attuabili le perpetue aspirazioni dell’ animo umano che essi tengono vive ed efficienti.

Per questa intima corrispondenza e simpatia tra l’ opera degli uni e degli altri, della maggioranza e di questa miniranza, non si avverte avversione o sospetto nei lavoratori manuali, contadini, artigiani, operai -nel “popolo”, come si suole designarlo, - contro gli apostoli religiosi, i pensatiro, i poeti. Gli umili, gli oppressi li hanno accompagnati con le loro religioni popolari, cutluramente inferiori a quelle da cui derivavano, e abbondanti di favole e di superstizione, ma che pur serbano lo spirito di quelle. Έ da lasciare alla superficiale polemica dei protestanti la qualificazione di “paganesimo” data alla religiosità, poniamo, delle plebi spagnuole o di quelle napoletane, nelle quali basta la gentilezza del culto della pietosa Madonna a comprovare quale e quanto tesoro di cristianesimo si racchiuda. Li hanno accompagnati con una loro letteratura popolare, non propriamente dai popolani stessi creata ma piuttosto da loro scelta e adattata e imitata come più confacente ai loro affetti e al loro grado mentale, nella quale essi non effondono solo i loro sentimenti di amore e di doloroe, ma anche tando al pari dei loro signori, e con non dissimile fervore ed entusiasmo, le gesta dell’ umano valore nei poemi epici e cavallereschi. Anche i proverbi, la cosiddetta sapienza del popolo, si sono formati con l’ esempio e col conftibuto del corcostante mondo di riflessione, di pensiero e di sapere. Un senso di riverenza ha da parte dei popolani circondato la persona del dotto, dell’ uomo che sa, che sa più di loro, ancorchè rinunziino a intendere i suoi concetti, troppo difficili per loro.  E, per contrario, donde veramente si originano l’ indifferenza, il fastidio, il sospetto, l’ avversione alla minoranza dominatrice, fattasi usurpatrice, se non proprio dalla cerchia degli interessi, alti o bassi, dei potenti, dei dominatori nel campo politico e economico, di coloro dhe in particolari ricorsi dello svolgimento storico prendono il volto di oppressori e sfruttatori degli altri lavoratori? C’ è stata non solo una tragedia del lavoro, ma una “tragedia del pensiero”, che conta innumeri martiri, come tutti sanno, una sempre rinnovantesi persecuzione degli uomini spirituali, contro cui quei potenti della terra, non paghi dei loro ordinarii strumenti di guerra e di polizia, aizzarono sovente plebi ignare e traviate. Nè il favore che in altri casi presso di loro essi trovarono è da intendere come un serio riconoscimento e come un profondo moto dell’  anima, giacchè, se nelle loro assodate fortune, nei loro riposi e svaghi e trastuili, quelli chiamarono intorno a sè poeti e artisti e letterti e dotti, il motivo ne era il lustro che conferivano alle loro persone e alle loro corti. Una compenetrazione di anime quie non accadeva e rari furono, anche nello splendore delle nostre corti del Rinscimento, i principi che avessero sincero amore e intelligenza d’ arte; e, del resto, gli artisti, gli Ariosti e i Tassi e innumeri altri, ci hanno detto che cosa sia da pensare dei principi che li protessero e delle loro corti. Ne’ solo si mantenevano quelli interamente estranei all’ intima opera loro, ma procuravano, per quel tanto che potevano di piegarla ai loro fini politici, valendosene da banditori di lodi e di adulazioni. Siffatta condizione che il favore dei principi imponeva agli uomini di lettere mosse lo sdegno generoso di Vittorio Alfieri, e gli detò il trattato Del principe e delle lettere, neil quale non perdono neppure a Virgilio di aver lasciato scorrere l’ aurea vena dei suoi versi per celebrare Augosto e la famiglia di costui. Con l’ Alfieri, e levando e tenendo fissi gli occhi alla grnde immagine di Dande, i letterati italiani si vennero sciogliendo dal levame coi potenti, coi aovrani e con gli uomini d’ affari, e adottarono costume e vitaconforme alla nobilità del loro ufficio, gelisi della loro indipendenza verso ogni altra forza che non fosse quella del pensiero e della bellezza. E poichè tra le forze nouve c’ era insieme con quella della libertà alla quale essi si unirono, l’ altra affine e diversa insieme della democrazia o della preferenza della quantità alla qualità, anche a questa, quando fu necessario, resisterono, non prestando ascolto neppure alla grande autorità morale di un Giuseppe Mazzini, che li voleva guadagnare alla sue particolari concezioni politiche, per altramente ispirate che fossero, e abbassarli dafini a strumenti. (La parola del Mazzini, sia detto per incidente, che tacciava Shakespeare di essere il poeta dell’ individuo isolato e non della società, l’ ho rotrovata sulle labbra di un uomi di stato sovietico che spregiò in mia presenza un geniale poeta russo contemporaneo come puramente “psicologico” e non voce specifica del proletariato.)

Ma la mancanza di riverenza al lavoro spirituale e lo svilimento suo al confronto di quello materiale e il tentato asservimento alla politica, provengono ai nostri giorni, non tanto da quelle che ancora si chamano democrazie, che hanno perduto il loro spirito prepotente, quanto da un altro partito nel quale è passato e che vuoi essere loro rivale e successore: a quello che ancora si chiama “comunismo”, sebbene dell’ ideale comunistico non serbi nessun tratto essenziale, ma sia una particolare formazione nazionalistica e classistica, rappresentata bensì nella nuova età storica di una vasta parte dell’ Europa e capace di grandi imprese, ma che  meriterebbe ormai un nome proprio ed univoco e non già l’ altro che punto più non le spetta o che è equievoco. Ancora si ricorda la sentenza  pronunziata da Lenin, all’ inizio della rivoluzione russa, contro il lavoro intellettuale a vantaggio di quello manuale, che solo egli stimava serio; e se questo atteggiamento originario sembra che si sia ora modificato e al lavoro intellettuale si facia anche colà una parte  più o meno larga, il principio che lo vogerna è sempre quello dell’ asservimento. Il Marx, nelle sue improvvisazioni metafisiche giovanili, che in lui si solidificarono senza ulteriore esercizio di autocritica, aveva  teorizzato filosofia, arte e religione nient’ altro che esponenti di classi e di rapporti economici, e segnatamente del capitalismo, che era il più attuale e quello contro cui egli combatteva; e gli odierni suoi ingenui ripetitori dottrianarii, adottando come intangibile questa deduzione filisofica e questa interpretzione storica, l’ hanvolta al contrario e imposto che religione, poesia e filosofia siano esponenti del proletariato ossia di coloro che fanno politica in suo nome, sicchè le violentano per disciplinarle in questa forma. L’ incomprensione della poesia e dell’ arte, della filosofia, dei problemi morali e religiosi, e la rozzezza nel trattarli o nell’ ignorarli, hanno varcato ora i confini della Russia e penetrano anche nei nostri paesi d’ occidente, dove per fortuna trovano altre esperienze, altre tradizioni e più avveduta critica; Ma con tutto ciò pur fanno sentire il loro soffio sciroccale e inaridente. Perfino in Italia si è profilata (ma pare che poi non abbia avuto l’ animo di comparire sulla scena) una setta di giurati o congiurati “scrittori di sinistra”, democratici o comunisti che vogliano essere disposti a servire.

Ed è curioso che questi tentativi, questi modi di pensare, questi sentimenti, usurpano l’ aspetto di “molti giovanili”; quando ciò che sono venuto esponendo sopra morsta che son cose che hanno una storia de secoli, e che erano state dismesse come difformi dallo spiritο modernο di libertà e di dignità degli scrittori. Ma i vecchi , contro i quali s’ invoca e si concita ancor oggi la baldanzosa  gioventù , questo per lo meno sanno, questo il loro sguardo chiaramente scorge, quanto lunghe e quanto candide, se anche poco venerande, siano sovente le barbe delle dosiddette idee dei giovani; E, per quell che è di me in particolare , io soglio ripetere a me stesso, allegrandomi, un motto dei padre Dumas, che mi suona non solo arguto, ma pieno di schietta verità: che i giovani entrano sempre nella vita con una donna vecchia al braccio e un’ idea vecchia lel cervello.

10 aprile 1945 - B. C.


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