LL’hotspot di Moria, in Grecia, giugno 2017 (Annalisa
Camilli)
“Moria è
la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia
Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del
Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti
al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di
Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo
l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia nel marzo del
2016.
Annalisa
Camilli, giornalista di Internazionale
Sophia è
arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei
corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un
labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo
settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i
maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel
centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”,
spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.
Dopo
alcuni incidenti avvenuti lo scorso inverno, la recinzione esterna è stata
rafforzata: un muro bianco circonda il campo, sovrastato da una rete e da una
corona di filo spinato. Dopo la recinzione, c’è qualche metro di vuoto, la
casupola di ferro di un secondino che svetta nell’azzurro del cielo, poi una
nuova recinzione al cui interno ci sono dei container bianchi e grigi:
parallelepipedi regolari montati uno a fianco all’altro. In ogni container
dormono dieci o quindici persone, su letti a castello. Non hanno armadietti,
non hanno nessuno spazio privato, usano qualche vecchia coperta di lana grigia
come una tenda intorno al letto, per riprodurre un’idea d’intimità.
Da tutto
il mondo
La
maggior parte delle persone che arriva a Lesbo dalle coste turche si sente di
passaggio, spiega Sophia Koufopoulou. “Arrivano in Grecia pensando che
prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche
altro paese europeo”. Ma in realtà, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura
della rotta balcanica nel marzo del 2016, rimangono bloccati in Grecia per
mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento
(relocation) o di ricongiungimento familiare sia valutata dalle autorità
europee.
Sull’isola,
secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ci sono 4.521
profughi, in gran parte nell’hotspot di Moria. Tra loro 45 minori non
accompagnati. Le famiglie invece vengono sistemate perlopiù nel campo
attrezzato di Kara Tepe, qualche chilometro a nord di Mitilene. “Mentre un anno
fa arrivavano a Lesbo via mare soprattutto siriani ora sbarcano gruppi di
persone da tutto il mondo: dalla Repubblica Democratica del Congo alla Nigeria,
dal Mali al Kuwait. Quelli che vengono da paesi considerati sicuri come
l’Algeria e il Pakistan sono sottoposti a una procedura accelerata per la
richiesta di asilo e nella maggior parte dei casi la domanda viene respinta. A
quel punto sono riportati indietro in Turchia”, spiega.
Una
volontaria (con la pettorina arancione) sorveglia l’ingresso della sezione
minorile dell’hotspot di Moria, in Grecia, giugno 2017. - Annalisa Camilli
Il campo
è diventato un hotspot, cioè un centro d’identificazione e registrazione per i
migranti irregolari nel gennaio del 2016. Si sviluppa verticalmente sulla
collina, come un fortino. Ci si arriva attraverso una strada che dalla
litoranea svolta verso l’interno, tra uliveti, campi di grano e vecchie edicole
religiose che riproducono in miniatura i monasteri ortodossi dell’isola. Gruppi
di persone camminano avanti e indietro sulla strada, chiacchierano tra loro e
al telefono, non troppo preoccupati delle poche macchine che percorrono la via.
Sono migranti che risiedono nel centro e a cui da qualche mese è stato concesso
di uscire. Alcuni hanno dei braccialetti colorati che indicano che possono
rimanere fuori dal centro solo qualche ora al giorno per poi rientrare nella
sezione a cui sono stati assegnati, divisi per nazionalità.
Piccoli
tagli
L’ingresso
di Moria è un cancello, controllato da un poliziotto che lascia entrare solo
chi riconosce. Dopo il primo blocco, si arriva davanti a un container che funge
da reception: dietro una finestra una donna bionda chiede con gentilezza il
nome di chi entra e di chi esce, si fa scrivere i nomi su dei post-it blu, li
spunta da una lista, quindi lascia passare.
Un gruppo
di poliziotti e militari greci staziona sul secondo ingresso: chiacchierano del
più e del meno, mentre si riparano dal sole che già a metà mattina si riflette
sui container spargendo una luce e un’afa insopportabili. Passato il secondo
posto di blocco, si comincia a salire percorrendo una stradina che costeggia il
campo. Così si arriva a un terzo cancello, dove alcune volontarie con delle
pettorine arancioni sorvegliano l’ingresso. Entrano nel cuore del campo solo le
persone che indossano un braccialetto diriconoscimento: minori, donne, gruppi
familiari, ma anche chi deve andare dal medico o chi ha appuntamento con i
funzionari dell’European asylum support office (Easo) o con quelli greci
dell’Asylum service.
Dopo il
posto di blocco si apre una sorta di corridoio di cemento: sulla sinistra c’è
una piazza circondata dai container, alcune persone aspettano sedute su una
panca altre sono in fila davanti all’ambulatorio. Sulla destra invece ci sono
tre corridoi circondati da recinzioni, tre settori, ognuno chiuso da un
cancello: il settore dei minori non accompagnati, quello delle donne e quello
delle famiglie. Nel primo compound i container sono stati dipinti di fresco con
vernici colorate dagli studenti americani venuti insieme alla professoressa
Koufopoulou. Sembrano casette estive – gialle, rosse e blu – ma sono circondate
da filo spinato.
In questa
parte del campo sono rinchiusi i minorenni arrivati da soli sull’isola, a cui
non viene mai concesso di uscire, se non per gite organizzate dagli operatori.
Al cancello una volontaria statunitense che indossa un vestito tradizionale
della comunità mormona – abito lungo grigio e cuffietta bianca – deve
sorvegliare l’ingresso: possono uscire ed entrare solo gli operatori. Ibu, un
ragazzino siriano, sta finendo di dipingere con una vernice celeste la parete
di un container, ha lo sguardo vivace, velato in certi momenti da una patina di
sconforto.
“Vengono
dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dal Pakistan”, spiega Niovi Sakellaridi,
un’operatrice dell’associazione greca Praksis che lavora all’interno di Moria
da un anno e mezzo. “Non capiscono perché siano stati rinchiusi nell’hotspot e
per questo cerchiamo di rassicurarli e di spiegare loro che presto saranno
trasferiti in un centro per minorenni, appena sarà accertata la loro età”, dice
Sakellaridi. Secondo le norme europee, detenere minorenni è illegale. La legge
greca sull’asilo invece prevede che i minori possano essere detenuti in un
regime amministrativo (senza l’autorizzazione di un giudice) per al massimo 25
giorni per “proteggerli”, in attesa che siano trasferiti in un centro di
accoglienza adeguato.
“Tuttavia
abbiamo conosciuto ragazzi detenuti anche per sei mesi”, afferma Sakellaridi.
Il fatto di dover vivere all’interno di un carcere, senza aver commesso nessun
tipo di crimine, provoca una sofferenza profonda nei ragazzi: “Gli attacchi di
panico sono all’ordine del giorno: vediamo sempre più spesso ragazzini che si
fanno piccoli tagli sulle braccia”, racconta l’operatrice umanitaria. “Un
ragazzino che abbiamo soccorso dopo che si era tagliato mi ha detto: ‘Volevo
farmi del male sul corpo, perché così almeno posso vedere il male che sento
dentro”. Nel cortile tra i container ci sono delle cabine telefoniche, i
volontari hanno dipinto anche quelle con vernici colorate. “I ragazzi chiamano
spesso le loro famiglie, ma non dicono dove si trovano, si vergognano di dire
ai genitori che sono in difficoltà”, spiega Sakellaridi.
Carcerieri
e foreste
Un
ragazzo afgano ha disegnato sulla parete del container dove vive il suo viaggio
dall’Afganistan all’hotspot di Moria. Nella mappa ha tratteggiato con un
pennarello nero la forma del suo paese: carri armati e cecchini ovunque. Nel
suo percorso ci sono piccoli uomini, soldati, prigioni, carcerieri e foreste.
“I ragazzi ci raccontano spesso degli abusi sessuali e delle violenze che
subiscono da parte dei trafficanti che li conducono attraverso il percorso”,
racconta Niovi Sakellaridi.
“L’incubo
ricorrente è un bosco che si trova al confine tra Iran e Turchia: nella foresta
i ragazzi hanno dovuto nascondersi dai militari di frontiera che sparavano a
vista a chiunque cercava di attraversare il confine”. L’operatrice ha un
sorriso aperto e luminoso, ma confessa di aver provato spesso sconforto:
“Lavorare otto ore nel campo, reclusi, non è facile. All’inizio soffrivo
d’insonnia, poi mi sono uscite delle bolle sulle braccia e poi su tutto il
corpo. Credo che sia il mio modo di sfogare lo stress”, racconta mentre mostra
delle piccole bolle biancastre sulle braccia.
Il
disegno di un ragazzo afgano sulla parete di un container nell’hotspot di
Moria, giugno 2017.
Praksis,
l’organizzazione per cui lavora, ha deciso di lasciare il campo di Moria:
“Crediamo che non sia giusto trattare le persone come pacchi, come cose, e per
questo dopo aver cercato di dare assistenza a chi vive all’interno di Moria per
molti mesi, l’ong Praksis ha deciso di andarsene”. Niovi Sakellaridi è
combattuta perché crede che i ragazzi abbiano bisogno di essere aiutati, ma si
rende conto che la detenzione acuisce i traumi e le difficoltà dei bambini.
Spesso
nel campo scoppiano rivolte violente e lo scorso inverno sono morte tre persone
in diversi incidenti causati dalla precarietà delle condizioni di vita: molti
dormivano nelle tende nonostante il freddo e la neve e usavano stufe a gas per
scaldarsi. “Queste persone hanno più di un trauma: hanno subìto abusi e
violenze nei loro paesi d’origine, poi ne hanno subiti durante il viaggio, sono
riuscite ad attraversare il mare, ma quando pensavano di avercela fatta è
cominciata una condizione di attesa e di sospensione, ed è in quel momento che
affiorano i traumi”, spiega la ricercatrice greca Sophia Koufopoulou mentre
chiede a uno dei ragazzi di aiutarla a dipingere anche i container in cui
vivono le famiglie, dopo aver concluso il lavoro nel settore dei ragazzi.
Esperimento
Grecia
“Eid
Mubarak”, dice con timidezza Mohammad Qadeem, un ragazzo pachistano di 17 anni,
mentre cammina svelto sulla strada in salita che attraversa il campo per
raggiungere la sezione dove dormono gli uomini soli, il gruppo più nutrito del
campo. È l’ultimo giorno del Ramadan, la più importante festività islamica e
tutti i musulmani praticanti dell’hotspot stanno andando a pregare.
In cima
alla collina, in una delle estremità dell’insediamento, un imam algerino ha
allestito in una tenda una specie di sala di preghiera. Mohammad è arrivato
quattro mesi fa, è minorenne, ma sostiene che di questo non si è tenuto conto a
causa della sua nazionalità. “Ai pachistani si applica una procedura accelerata
perché sono considerati migranti economici”, spiega Mairaj, un altro
pachistano, in un ottimo inglese.
Entrambi
raccontano di aver conosciuto molte persone, a cui è stato negato l’asilo e che
sono state rimandate in Turchia, oppure che hanno accettato un programma
dell’Organizzazione mondiale dell’immigrazione (Oim) per il rimpatrio
volontario nel loro paese. “Meglio tornare a casa che finire in qualche carcere
in Turchia”, dice Mairaj mentre allestisce un piccolo fuoco dietro una
costruzione di cemento per preparare il cibo della festa. “Preferiamo cucinarci
da mangiare, invece di mangiare sempre il cibo che distribuiscono. Per questo
alcuni si sono organizzati con bombole a gas e fornelli anche se non potrebbero
farlo”, racconta. Nel campo la vita quotidiana è molto dura: l’elettricità va e
viene, manca spesso l’acqua e i bagni sono inservibili. Cumuli di bottiglie di
plastica giacciono abbandonate dentro i bagni del settore maschile e l’odore è
insopportabile.
X.2
Il dato di giugno 2017 è parziale. Fonte: Unhcr
Ahmed, un
ragazzo algerino di 25 anni, si affaccia da un container per guardare Mairaj
che cucina: “Algerini e pachistani non hanno nessuna possibilità che la loro
domanda di asilo sia accettata”, conferma. Per questo molti provano a rimanere
sull’isola in maniera illegale, dormono in fabbriche abbandonate vicino a
Mitilene e lavorano nei campi. “Ma non è facile, rischiano di essere rimandati
in Turchia e quello che li aspetta dall’altra parte è la prigione”, dice Ahmed.
Per sfuggire al rimpatrio Nazeed, un ragazzo afgano, racconta di essersi nascosto
in un camion che si stava imbarcando su un traghetto per Atene. “Sono arrivato
ad Atene, poi in Italia sempre con lo stesso metodo. Ma la polizia mi ha
fermato e dopo qualche mese mi ha rimandato in Grecia”, racconta.
La
tendenza delle autorità greche a valutare con procedure diverse le domande di
asilo, in particolare sulla base della nazionalità, è stata denunciata anche
dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nel rapporto
Esperimento Grecia: un’idea di Europa, pubblicato il 22 giugno. “Per bloccare i
flussi migratori verso l’Europa dalla Turchia, Atene ha sperimentato
nell’ultimo anno una serie di procedure in particolare nelle isole greche”,
spiega l’avvocata Lucia Gennari, una degli autori del rapporto dell’Asgi.
“Riformando
la legge sull’asilo nell’aprile del 2016, dopo un mese dall’entrata in vigore
dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sui migranti, la Grecia ha introdotto il
meccanismo dell’ammissibilità della domanda con cui si valuta se il richiedente
asilo provenga da un paese terzo considerato sicuro come la Turchia. Quindi le
autorità greche non valutano le domande nel merito, ma nel caso dei siriani
valutano solo se la Turchia sia un paese sicuro dove rimandarli”, continua.
“Non c’è bisogno di andare troppo a fondo per sapere che la Turchia non è un
paese sicuro perché non garantisce la protezione internazionale praticamente a
nessuno e perché si è resa spesso responsabile di respingimenti alla frontiera
con la Siria”, continua Gennari.
“Il
meccanismo ellenico ci interessa anche perché ci sembra che la Grecia si possa
considerare un laboratorio delle politiche europee sull’immigrazione. Infatti
se esaminiamo le riforme che il parlamento e la Commissione europea stanno
valutando in questo momento – come la riforma del regolamento di Dublino e la
riforma della direttiva procedure – norme che riguardano i pilastri del diritto
d’asilo, ci rendiamo conto che Bruxelles vuole estendere a tutti i paesi
europei molti meccanismi che sono stati sperimentati in Grecia, in vista di una
restrizione generale dell’accesso all’asilo”, conclude Gennari.
Nuovi
arrivi
Ibhraim
Al Nasir è appena arrivato sull’isola con sua moglie Sherazade e le sue tre
figlie. La più piccola, Bayam, non ha nemmeno un anno. Ibhraim ha pagato
duecento euro per la traversata dell’Egeo da Ayvalık, in Turchia. La famiglia
siriana, originaria di Raqqa, è partita di notte dalla costa turca con un
gommone che è stato intercettato dalla guardia costiera appena entrato nelle
acque greche. Le famiglie siriane sono state fatte salire su un’imbarcazione
più grande che le ha portate nel porto commerciale di Mitilene, la città più
grande dell’isola, dove sono sbarcate e portate direttamente all’hotspot di
Moria su un autobus.
Il
settore minorile nell’hotspot di Moria, giugno 2017. - Annalisa Camilla
“Da
quando siamo arrivati ci hanno messo a dormire in un container con altre sette
famiglie, per terra, con delle coperte, perché la stanza non è un dormitorio,
ma una scuola. Non ci sono letti, non c’è acqua, la bambina ha una ferita sul
piede ma non è ancora stata visitata dal medico”, afferma Ibhraim che ha
vissuto a Urfa, in Turchia, prima di provare a raggiungere la famiglia della
moglie in Grecia. Sull’isola di Lesbo da qualche settimana è stato registrato
un leggero aumento degli arrivi. “Ogni giorno arrivano più di cento persone”,
conferma Chloe Haralambous dell’associazione Borderline-Europe che monitora gli
arrivi sull’isola greca.
“Un
incremento rispetto alle scorse settimane, ma niente di paragonabile agli
arrivi di massa del 2015, quando se ne registravano anche tremila al giorno”.
L’aumento degli sbarchi ha convinto le autorità a riaprire tre campi di
transito nel nord dell’isola, dove da tempo le barche non arrivavano più
direttamente sulla costa. “Credo che questa situazione sia dovuta più alle
condizioni del mare, in questi giorni particolarmente piatto, che a un
cambiamento della strategia da parte delle autorità turche che pattugliano le
coste e riportano indietro i migranti”.
Quello
che è certo è che si sono aperte nuove rotte: “Mentre nel 2015 il flusso era
composto quasi esclusivamente da siriani, afgani e iracheni, ora arrivano
migranti da tutto il mondo, anche se i siriani rimangono il gruppo più
numeroso. Recentemente si è aperta una rotta dalla Repubblica Democratica del
Congo: i congolesi arrivano all’aeroporto di Istanbul o a Smirne con un volo di
linea e lì trovano trafficanti ad aspettarli. Questa situazione è sicuramente
legata anche al deterioramento della rotta del Mediterraneo centrale, sempre
più pericolosa”.
Per
compiere la traversata dell’Egeo i migranti riferiscono di aver pagato anche 50
euro, un prezzo molto basso rispetto ai cinquecento euro che servivano nel
2015, prima dell’accordo tra Unione europea e Turchia. “È paradossale che i
viaggi costino di meno dopo l’approvazione dell’accordo, proprio quando cioè
dovrebbe essere più complicato arrivare in Grecia dalla Turchia, con il
dispiegamento di mezzi navali europei al largo delle coste turche, ma non
riusciamo a capire bene che cosa stia succedendo in Turchia per quanto riguardo
il traffico di esseri umani”, afferma Chloe Haralambous. Una cosa è certa: “Se
la rotta dalla Turchia alle isole greche dovesse riaprirsi, la Grecia non
sarebbe in grado di far fronte a una nuova emergenza”.
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