Mario Vegetti: 1937-2018
È scomparso l’11 marzo nella sua casa milanese all’età di
81 anni.
Raffinato studioso e commentatore di Platone, conosceva
come pochi altri anche il versante scientifico della cultura classica. E aveva
un carattere piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i
riflettori. Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese
all’età di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la
civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un
carattere didascalico — non a caso sono articolati in lezioni — o
d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università come un
luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che, dopo alcuni
tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a essere «protagoniste
attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno
del prestigioso collegio Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di
quella città con una tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore
ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al 2005.
Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo dell’ambiente
accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche ai giovani: «Un tempo
gli studenti — ricordava — ponevano domande di senso. Oggi non più».
Convinzione profondamente radicata di Vegetti era appunto che lo studio del
mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti. I grandi pensatori
greci, sottolineava, avevano sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente
privo di sacre scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre
dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più varie, a
volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà. Avevano così animato un
immenso laboratorio intellettuale non solo in campo filosofico, ma anche
scientifico. La medicina, per esempio, aveva compiuto passi enormi attraverso
la pratica quotidiana proprio perché non vincolata da regole previste nei libri
sacerdotali, come avveniva al contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico tra sperimentazione diretta
(condotta affondando la lama nella carne di animali e cadaveri) e accumulo del
sapere teorico Vegetti aveva dedicato il suo saggio significativamente intitolato
Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita
ricerca sul pensiero scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno
dei suoi maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita
poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il lavoro
altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si era
progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi studiosi di
Platone a livello internazionale. Aveva curato una monumentale edizione
commentata della Repubblica, opera più nota del filosofo greco, in sette volumi
usciti tra il 1998 e il 2007 presso l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato
anche saggi rivolti a un pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su
Platone (Einaudi, 2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone
(Laterza, 2007), Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era confrontato con un altro
accademico italiano di notevole prestigio, Giovanni Reale, scomparso nel 2014.
Quest’ultimo riteneva che la «dottrina non scritta» del grande filosofo greco,
di carattere metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento,
mentre i Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che
non convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa riconosciuto
il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In particolare il suo
interesse era attirato dal problema della politica così come era stato
affrontato dall’autore della Repubblica.
Da una parte Vegetti, affascinato dalle infinite
sfaccettature dell’eredità di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile
polivalenza e sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica,
attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire ridotto
a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava l’afflato ideale
che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la politica viene «pensata in
grande», assegnandole «una capacità di orientamento della vita sociale nella
sua complessità economica, militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al fianco della
moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e firma del «Corriere
della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia il nodo della legittimità
del potere, su cui si era soffermato con grande finezza di argomentazioni nel
libro Chi comanda nella città (Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la
politica avesse bisogno di uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori,
per non diventare miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di
Aristotele e della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane
storicamente determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una
pericolosa giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava
il pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con
Aristotele, firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro
che, ponendo al centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il
successivo periodo ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la
Greca ormai sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo
«fondamentale per l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E
guardava con estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le
nuove religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo. Nella vasta
Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni (Carocci,
2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. Per presentare
quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura» del «Corriere» (numero
228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni studenti, nel corso del quale
aveva riaffermato la sua fiducia nella funzione civile della filosofia. Lo allarmava
un dibattito pubblico ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di
marketing. Considerava più che mai urgente «mettere ordine nel modo di
pensare».
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