Cesare diventa dittatore a vita
Il 14
febbraio il senato decretava che la dittatura di Cesare venisse prolungata, e
diventasse a vita (dictator perpetuus), rendendolo dunque l’uomo più potente
della storia di Roma. Tra i suoi oppositori serpeggiava il malcontento e molti
credevano che la repubblica fosse in pericolo: si temeva infatti che Cesare si
proclamasse rex, cinque secoli dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo.
L’episodio dei Lupercali
Il giorno
seguente, il 15 febbraio, si teneva la festa dei lupercali e Cesare la seguiva
dai rostri, seduto su un seggio. Dopo il rituale dei luperci seguiva una
processione e quando questa passa davanti Cesare accade l’impensabile:
inizialmente un tale di nome Licinio si avvicina, viene issato sui rostri e
porge la corona ai piedi di Cesare (il quale si trovava molto più in alto), che
la ignora. Allora Cassio, il futuro cesaricida, si avvicina e gliela pone sulle
ginocchia, forse in segno di sfida. Cesare la ignora nuovamente, e lo fa
nuovamente quando ci riprova Casca (che darà la prima pugnalata un mese dopo),
ma è proprio in quel momento che passa Marco Antonio, il quale guidava la
processione della festa, e gli pone la corona in testa.
Alcuni lo
invocavano come rex, soprattutto coloro i quali si trovano più vicini, mentre i
più lontani rumoreggiavano. Per i romani però, nonostante fossero passati quasi
cinque secoli dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, la regalità era ancora un
tabù. Quest’ultima volta Cesare prense la corona, che non aveva ancora toccato,
gettandola tra la folla (la quale non aveva reagito bene all’accaduto) e
esclamando che l’unico re di Roma era Giove Ottimo Massimo. Diede inoltre
l’ordine di portarla nel suo tempio sul Campidoglio, poiché la corona
apparteneva solo a lui. L’avvenimento è raccontato da Nicola Damasceno (Vita
Caes., 21, 71-75):
“71. […]
Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la
quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e
cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di
capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava
il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto
sui cosidetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora.
Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da
cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi,
depose il diadema ai piedi di Cesare.
72. Il
popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo,
ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se
fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie
intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia.
Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida
del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la
processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo
alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che
erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del
popolo.
73. Su
questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché,
secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti
richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa
gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il
suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci
di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul
capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli
non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove
Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi
che prima avevano applaudito.
74. C’è
anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo
ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui.
75. Alla
fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la
ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale
clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a
stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una
prova più concreta di quanto sospettavano”.
Non sappiamo
perchè Marco Antonio si sia comportato in questo modo, forse sapeva del
testamento di Cesare che designava il pronipote Ottavio come primo erede e
metteva Antonio solo come terzo in linea ereditaria, forse aveva colto
l’occasione al volo per ingraziarsi il dittatore. Quel che sembra certo è che i
cesaricidi, in modo organizzato o meno, avevano tentato di forzare la mano a
Cesare e cercare un pretesto per ucciderlo, senza riuscirci.
Verso le idi
di marzo
Cesare aveva
ormai congedato la sua guardia ispanica e andava per Roma senza scorta, mentre
preparava la sua imminente campagna partica, radunando le sue forze nei pressi
di Apollonia, sull’altra sponda dell’Adriatico. Il giorno prima del suo
assassinio vengono enumerati diversi prodigi, sia da Svetonio che da Plutarco,
a corroborare l’unicità dell’evento, come era solito nella letteratura antica.
Forse non sapremo mai se qualcuno di questi sia stato vero. Tra questi l’aruspice
Spurinna che avrebbe messo in guardia Cesare dalle idi di marzo:
« Ma la
morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i
coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche
tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che
scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e
in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi
era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua
e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di
Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà
vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché
qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza
Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a
sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il
Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si
rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva
un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo
che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi
un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia
di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo
raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il
giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di
stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la
sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un
tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi
presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo
indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di
trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non
privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano
aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di
uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo
mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto
quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia,
passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo
di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna,
però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate. »
Svetonio,
Vita di Cesare, 82
Quel che
sembra probabile è che la voce dell’imminente omicidio fosse in qualche modo
circolata e che alcuni abbiano tentato di avvisare il dittatore, che
probabilmente sottovalutò le voci. La sera prima, il 14 marzo, Cesare avrebbe
risposto mentre era a cena a casa di Lepido, cui era presente anche Decimo
Bruto, su una domanda filosofica posta sulla morte, asserendo di preferirne una
improvvisa. E sarebbe stato accontentato.
L’assassinio
Erano
arrivate le idi di marzo e il senato si riuniva, provvisoriamente, nei pressi
teatro di Pompeo, poiché la curia era chiusa per lavori di ristrutturazione.
Cesare sarebbe stato restio a partecipare alla seduta, viste anche le
rimostranze della moglie Calpurnia che lo spingeva a rimanere a casa, ma Decimo
Giunio Bruto lo convinse ad andare, dicendo che il senato era già riunito e lo stava
attendendo. All’entrata Gaio Trebonio prese da parte Marco Antonio, console
insieme a Cesare nel 44 a.C., sia poiché si temeva sventasse l’omicidio, sia
perché, nonostante le lamentele di Cicerone (che comunque si era tenuto fuori
dalla congiura) non rientrava nei piani dei congiurati:
«Mentre
prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di
rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare
il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però
si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a
un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare
gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo
poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo
stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita.
Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle
mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare
l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte
inferiore del corpo coperta.
Così fu
trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il
primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava
contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di
vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio
che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo
quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad
eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati
avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni
e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del
console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido. »
Svetonio,
Vita di Cesare, 82
La versione
di Plutarco conferma sostanzialmente quella di Svetonio:
“Essendo
dunque il senato entrato […] gli altri congiurati circondarono […] Cesare […] E
si dice che Cassio, rivolto all’immagine di Pompeo, la pregò come se avesse
sentimento. E Trebonio alla porta, tirato in disparte Antonio, fuor lo ritenne
ragionando. Il senato si alzò in piedi all’entrar di Cesare, e posto che a
sedere, i congiurati lo circondarono da ogni parte, presentandogli Tullio
Cimbro, uno d’essi, a supplicarlo per il fratello bandito, e tutti per lui
intercedevano, toccandogli la mano, baciandogli il petto e la testa. […] Tullio
con ambe le mani gli tirò giù dalle spalle il manto, e Casca il primo ad
essersi posto dietro, sguainata la spada, lo colpì lievemente alla schiena […]
Cesare allora gridò in latino: “scellerato Casca! Che fai?”. […] Già ferito da
molti, volgendo intorno lo sguardo […] quando vide Bruto vibrar la spada nuda
per dargli un colpo, lasciò la mano di Casca, che ancora teneva, e copertosi
con la toga la testa, si abbandonò ai colpi degli assalitori”.
Plutarco,
Vite Parallele, Bruto, 17
Cesare
sarebbe dunque caduto a terra, morente, proprio di fronte la statua di Pompeo,
ironia della sorte. Secondo l’autopsia che gli venne fatta successivamente dal
medico Antistione (la lex Aquilia del 286 a.C. prevedeva si dovesse provare che
la morte fosse stata violenta e non per cause naturali) scoprì che le pugnalate
ricevute erano state ventitré e di queste solo la seconda risultava mortale.
Dopo
l’assassinio
« Si decise
di murare la Curia in cui fu ucciso, di chiamare Parricidio le Idi di marzo e
che mai in quel giorno il Senato tenesse seduta. »
Svetonio,
Vita di Cesare, 88
L’incertezza
dei congiurati e la mancanza di risoluzione nei confronti di Antonio (console
in carica) e Lepido (magister equitum) risultò tuttavia fatale per i congiurati.
Nel clima di incertezza che regnava Lepido cercava di arringare i soldati per
vendicare Cesare, mentre Aulo Irzio, fedelissimo del dittatore e console
designato per il 43 a.C., oltre ad aver scritto l’ottavo libro del De Bello
Gallico, proponeva la calma. Alla fine Cicerone propose un’amnistia, che venne
accettata anche da Antonio e Lepido il 17, mentre il senato era riunito nel
tempio della dea Tellus, scelto perché vicino alla casa di Antonio e lontano
dai cesaricidi, asserragliati nei pressi del Campidoglio difesi da gladiatori.
Tuttavia i cesaricidi non si presentarono alla seduta, che inoltre deliberò la
conservazione delle decisioni di Cesare, tra cui spiccavano alcuni cesaricidi
in posti chiave, come Decimo Giunio Bruto propretore in Gallia Cisalpina.
Il 18 Marco
Antonio aprì il testamento di Cesare nella sua dimora, alla presenza del
suocero del dittatore Lucio Calpurnio Pisone. Il diciannovenne pronipote Gaio
Ottavio risultava l’erede principale, ma al momento si trovava ad Apollonia per
conto di Cesare a preparare la campagna partica. Subito dopo c’erano i cugini
di Ottavio Lucio Pinario e Quinto Pedio; perfino Decimo Giunio Bruto veniva
prima di Marco Antonio. Il quale, tuttavia, il 20 pronunciò un celebre discorso
funebre, quando con un celebre colpo di scena, mentre tesseva le lodi dei
cesaricidi come “uomini buoni”, tirò fuori le vesti insanguinate del dittatore,
scatenando l’ira della folla e costringendo i congiurati ad abbandonare Roma:
nei giorni seguenti moltissimi senatori avrebbero abbandonato l’Urbe, mentre
Ottaviano, adottato da Cesare per testamento, si precipitava a Roma.
Shakespeare, Giulio Cesare, Atto III, scena 2:
[Marco Antonio:]
Ascoltatemi amici, romani, concittadini…
Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.
Il male che l’uomo fa vive oltre di lui.
Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa… e sia così di Cesare.
Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Grave colpa se ciò
fosse vero e Cesare con grave pena l’avrebbe scontata.
Ora io con il consenso di Bruto e degli altri, poiché Bruto è uomo d’onore,
e anche gli altri, tutti, tutti uomini d’onore…
Io vengo a parlarvi di Cesare morto.
Era mio amico. Fedele giusto con me… anche se Bruto afferma che era
ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
Si è vero. Sul pianto dei miseri Cesare lacrimava.
Un ambizioso dovrebbe avere scorza più dura di questa.
E tuttavia sostiene Bruto che egli era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
Si è anche vero che tutti voi mi avete visto alle feste dei Lupercali tre
volte offrire a Cesare la corona di Re e Cesare tre volte rifiutarla. Era
ambizione la sua?
E tuttavia è Bruto ad affermare che egli era ambizioso e Bruto, voi lo
sapete, è uomo d’onore.
Io non vengo qui a smentire Bruto ma soltanto a riferirvi quello che io so.
Tutti voi amaste Cesare un tempo, non senza causa. Quale causa vi vieta
oggi di piangerlo? Perché o Senno fuggi dagli uomini per rifugiarti tra le
belve brute.
Perdonatemi amici, il mio cuore giace con Cesare in questa bara. Devo
aspettare che esso torni a me.
Soltanto fino a ieri la parola di Cesare scuoteva il mondo e ora giace qui
in questa bara e non c’è un solo uomo che sia così miserabile da dovergli il
rispetto, signori.
Signori, se io venissi qui per scuotere il vostro cuore, la vostra mente,
per muovervi all’ira alla sedizione farei torto a Bruto, torto a Cassio, uomini
d’onore, come sapete.
No, no. Non farò loro un tal torto. Oh… preferirei farlo a me stesso, a
questo morto, a voi, piuttosto che a uomini d’onore quali essi sono.
E tuttavia io ho con me trovata nei suoi scaffali una pergamena con il
sigillo di Cesare, il suo testamento.
Ebbene se il popolo conoscesse questo testamento, che io non posso farvi
leggere perdonatemi, il popolo si getterebbe sulle ferite di Cesare per
baciarle, per intingere i drappi nel suo sacro sangue, no…
No, amici no, voi non siete pietra né legno, ma uomini.
Meglio per voi ignorare, ignorare… che Cesare vi aveva fatto suoi eredi.
Perché che cosa accadrebbe se voi lo sapeste? Dovrei… dovrei dunque tradire
gli uomini d’onore che hanno pugnalato Cesare?
E allora qui tutti intorno a questo morto e se avete lacrime preparatevi a
versarle.
Tutti voi conoscete questo mantello. Io ricordo la prima sera che Cesare lo
indossò. Era una sera d’estate, nella sua tenda, dopo la vittoria sui Nervii.
Ebbene qui, ecco.. Qui si è aperta la strada il pugnale di Cassio.
Qui la rabbia di Casca.
Qui pugnalò Bruto, il beneamato.
E quando Bruto estrasse il suo coltello maledetto il sangue di Cesare lo
inseguì vedete, si affacciò fin sull’uscio come per sincerarsi che proprio lui,
Bruto avesse così brutalmente bussato alla sua porta.
Bruto, l’angelo di Cesare.
Fu allora che il potente cuore si spezzò e con il volto coperto dal
mantello, il grande Cesare cadde.
Quale caduta concittadini, tutti… io, voi, tutti cademmo in quel momento
mentre sangue e tradimento fiorivano su di noi.
Che… ah… adesso piangete?
Senza aver visto che le ferite del suo mantello…?
Guardate qui, Cesare stesso lacerato dai traditori…
No… no, amici no, dolci amici… Buoni amici… Nooo… non fate che sia io a
sollevarvi in questa tempesta di ribellione.
Uomini d’onore sono coloro che hanno lacerato Cesare e io non sono
l’oratore che è Bruto ma un uomo che amava il suo amico, e che vi parla
semplice e schietto di ciò che voi stessi vedete e che di per sé stesso parla.
Le ferite, le ferite… del dolce Cesare… Povere bocche mute…
Perché se io fossi Bruto e Bruto Antonio, qui ora ci sarebbe un Antonio che
squasserebbe i vostri spiriti e che ad ognuna delle ferite di Cesare donerebbe
una lingua così eloquente da spingere fin le pietre di Roma a sollevarsi, a
rivoltarsi.
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