‘Oν οí θεοí φíλοϋσιν άποθνήσχει νέος[2]
LA RISCOPERTA
DELLE GRECIA
La caduta di
Costantinopoli sotto i colpi dei cannoni di Maometto II il 24 agosto 1453,
richiamò l’attenzione dell’Europa cristiana sul tragico destino degli ultimi
discendenti di Giustiniano e di Leone Isaurico.
Alcuni studiosi non accettarono di sottomettersi alla Sublime Porta e presero la strada per Roma. Rinacque così l’interesse per lo studio del greco e dei grandi maestri classici, noti lungo tutto il Medioevo nelle versioni latine che ne avevano fatto i Romani e successivamente gli scriptoriaabbaziali. Aristotele era stato tradotto dall’arabo Averroè di Cordova, «Averrois, che il gran commento feo»[3], di cui parla Dante. Nelle principali università lo studio del greco si diffuse rapidamente. Umanisti come Basilios Bessarion (1403-1472) e Konstantinos Laskaris (1434-1501) furono punti di riferimento importanti. La stampa con caratteri mobili aumentò la possibilità di conoscenza e diffusione della lingua greca e degli autori più importanti. Aldo Manunzio (1449-1515) si distinse a Venezia con la sua bottega per la pubblicazione di moltissime opere in greco.
Le opere
filosofiche furono quasi tutte stampate e diffuse in ogni angolo dell’Europa.
Gli studi universitari ripresero con rinnovato vigore, essendo disponibili i
testi originali commentati da dotti glossatori. Anche la rinascita della
filosofia platonica per merito di importanti studiosi e umanisti europei
contribuì ad accrescere l’interesse per la Grecia, la sua straordinaria storia
e l’immensa cultura. Tutto ciò rappresentava una eredità irrinunciabile per
l’umanità e per il futuro dell’uomo. Se ne fece interprete anche Giovan
Battista Vico (1668-1744), consapevole del continuo ritorno nell’evoluzione del
pensiero delle radici antiche.
L’architettura
rinascimentale assunse l’esperienza greca come fonte irrinunciabile
d’ispirazione. Così, Andrea Palladio (1508-1580) tracciò i nuovi canoni del
classicismo che si riflessero nelle forme del neoclassicismo e si diffusero per
tutta Europa. Visitare Parigi, Londra, Berlino, Monaco di Baviera, Pietroburgo,
tante città italiane e le ville lungo il fiume Brenta è un ritorno
costante e impareggiabile alla scuola greca. Così come osservare una scultura
di Antonio Canova (1770-1844), Bertel Thorvaldsen (1770-1844) e Etienne Maurice
Falconet (1716-1791) è ritornare con la mente alla grande arte ellenica.
Poesia, narrativa,
teatro e opera musicale non potevano prescindere dal mondo antico, ma a partire
dal Settecento non era soltanto la Grecia arcadica di derivazione mitologica,
popolata di dei, ninfe, pastori, ma soprattutto quella storica, eroica, civile.
Non erano soltanto i trecento caduti delle Termopili ad accendere la fantasia o
la figura di Odisseo (si pensi all’Ulisse dantesco!), ma personaggi come
Agamennone, Ettore, Oreste, accanto a figure femminili come Antigone, Medea,
Fedra, Elettra, Clitennestra, Cassandra.
I grandi poeti
post-rinascimentali hanno guardato al mondo greco come fonte inesauribile
d‘ispirazione. William Shakespeare (1564-1616), Jean Racine (1639-1699), Pierre
Corneille (1606-1684), Vittorio Alfieri (1749-1803), Kleist, Hölderlin hanno
dedicato opere fondamentali ai protagonisti della storia greca antica. Non era
mancato Goethe che aveva canato la figura di Ifigenia e poi Percy Bissye
Shelley (1792-1822) che aveva esaltato il titanismo di Prometeo.
Il teatro musicale
aveva attinto a piene mani dalla storia greca, cominciando da Jacopo Peri,
Giulio Caccini e Claudio Monteverdi (1567-1643) con la favola di Orfeo ed
Euridice, ripresa anche dal russo Evstignej Fomin (1761-1800) e Christoph
Willibald Gluck (1714-1787); quest’ultimo affrontò il tema di Ifigenia in due
opere che sono ancora oggi rappresentate. Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
portò in scena il mito di Idomeneo re di Creta. Ludwig van Beethoven
(1770-1827) esaltò la titanica ribellione di Prometeo, in un contesto
temporale che vedeva in quella figura il simbolo dell’uomo in lotta per la libertà
del sapere e il progresso nel fare, affrontato da poeti, scrittori e pittori.
Luigi Cherubini trattò a tinte fortemente drammatiche il tema di Medea,
facendone una eroina della passione amorosa e civile; quel personaggio troverà
nella seconda metà del Novecento una memorabile interprete greca, quella Maria
Kalagheropoulou, divenuta immortale con il nome di Maria Callas (1923-1977).
Quanti rimandi si
potrebbero fare per testimoniare l’immenso debito che l’Europa moderna e
contemporanea debbono alla cultura greca. Ma la sua origine ha motivazioni
culturali più remote, legate alla riscoperta della cultura classica, in
particolare di quella greca. Uno dei principali protagonisti di questa
riscoperta è lo storico dell’arte Johann Joachim Winkelmann (1717-1768) i cui
studi sul mondo antico influenzarono profondamente la cultura del Settecento e
aprirono le porta al neoclassicismo. Friedrich August Wolf (1759-1824) nel 1795
inaugurò i corsi di studi omerici con i “Prolegomena ad Homerum”. Jean-Jacques
Barthélemy con il romanzo Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia del 1788 aprì
la strada ai viaggi immaginari, unendo il gusto dell’avventura e dell’esotismo
con la rivisitazione di luoghi legati alla storia e alla cultura antica.
Su tutti si erge
la figura di Johann Wolfang Goethe 1749-1832). La sua sterminata opera
letteraria è una costante testimonianza della profonda conoscenza del mondo
greco antico. Tragedie come Ifigenia e poemi come Prometeo sono tra i vertici
della poesia romantica. La Grecia di Goethe non è fatta di rovine e di
nostalgia, ma è ricca di passioni e ribolle di contemporaneità. La seconda
parte del suo poema Faust contiene un ritratto di Elena di Troia ricca di
interpretazioni ancora oggi di grande fascino.
Bedecke deinen Himmel, Zeus,
Mit wolkendunst,
Und übe, dem Knaben gleich,
Der Disteln köpft
An Eichen dich und Bergeshön;
Must mir meine Erde
Doch lassen stehn
Und meine Hütte, die du nicht gebaut,
und meinen Herd,
um diessen Glut
du mich
beneidest.[4]
Lo stesso Johann
Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) ha trovato il suo mondo più
appropriato in figure mitiche, come Cassadra.
Mir erscheint der Lenz vergebens,
Der die Erde
festlich schmucht:
Wer erfrente sich
des Lebens,
Der in seine
Tiefen blickt![5]
E infine August
von Platen-Hallermünde (1796-1835), uno dei più amati poeti romantici tedeschi,
fa rivivere la morte di Filemone, la favola ripresa da Ovidio.
Und schlaft del Schlaf,
von dem der
Mensch niemals erwacht
Bald ward Athen
zur Beute Mazedoniern.[6]
In Italia la
tradizione degli studi sulla Grecia si rafforza con Vincenzo Monti e
soprattutto con Ugo Foscolo, Ippolito Pindemonte, Giacomo Leopardi. E’
soprattutto Ugo Foscolo che, essendo nato a Zante, la cui madre greca
Diamantina Spatis gli trasmette anche nell’esilio veneziano l’amore per la
terra d’origine, tesse lodi immortali a quel mondo che è consapevole di non
rivedere mai più. La nostalgia si trasforma in furore patriottico per il
destino della nuova Italia. I sepolcri e soprattutto Le Grazie ricamano rimandi
di elevata potenza lirica al lontano alla Grecia nella cui gloria passata e
nell’eroismo dei suoi figli migliori trova la forza per affrontare il presente
e il futuro.
Ugo Foscolo
(1778-1827) aveva lasciato l’Italia quando scoppiò la rivolta greca e
dall’autunno del 1816 viveva in Inghilterra. Le sue condizioni economiche erano
molto precarie, dovendo vivere grazie a collaborazioni letterarie. Nel 1818
aveva iniziato a tradurre l’Iliade, quasi una sfida a
Vincenzo Monti che aveva definito spregiativamente «… cavaliero,/gran traduttor
de’ traduttor d’Omero». Nel 1822 era impegnato a spendere l’eredità della
figlia Floriana nella costruzione del Digamma cottage, ma nel 1824 va incontro
all’arresto per debiti, dopo essersi nascosto per un certo tempo. Come poteva
pensare alla Grecia? Infatti, non risulta che il poeta abbia fatto nulla tra
gli esuli italiani per sostenere la causa della rivolta. Eppure, a leggere i
suoi versi il cuore si accende.
Salve, Zacinto! All’antenoree prode,
De’ santi Lari Idei ultimo albergo
E de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa,
E a te il pensier: ché pienamente a queste
Dee non favella chi la patria oblia.
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
Era ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi
Sacri al tripudio di Diana e al coro,
Pria che Nettuno al reo Laomedonte
Munisse Ilio di
torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto. A
lei versan tesori
L’angliche navi; a
lei dall’alto manda
I più vitali rai
l’eterno sole;
Candide nubi a lei
Giove concede,
E selve ampie
d’ulivi, e liberali
I colli di Lieo:
rosea salute
Prometton l’aure,
da’ spontanei fiori
Alimentate, e da’
perpetui cedri.[7]
Quando iniziò la
composizione del poema Le Grazie, rimasto incompiuto, Foscolo si trovava a
Firenze e le vicende greche erano ancora lontane e neanche preannunciate.
Ma proprio nel 1822, a Londra, pubblicò alcuni brani del poema, facendoli
passare come traduzioni di poeti greci classici. Abitudine consolidata in lui,
avendo inserito molti anni prima nel carme La chioma di Berenice circa sessanta
versi dedicati alle Grazie, con l’espediente della traduzione dal greco. Ma su
tutta la poesia di Foscolo, il carme intitolato I sepolcri, supera ogni altra
prova.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti
drizzò l’antenna
Oltre l’isole
egee, d’antichi fatti
Certo udisti
suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea
mugghiar portando
Alle prode retèe
l’armi d’Achille
Sovra l’ossa
d’Aiace: a’ generosi
Giusta di glorie
dispensiera è morte;
Né senno astuto,
né favor di regi
All’Itaco le
spoglie ardue serbava,
Ché alla poppa
raminga le ritolse
L’onda incitata
dagl’inferni Dei.[8]
E prima ancora,
per esaltare il valore dei sepolcri eretti agli eroi di Maratona, aveva elevato
un canto che ha significato e valore immortali. Si tratta di un esempio
inimitabile di poesia civile che ha reso giustamente celebre il poeta in Italia,
i cui versi ancora oggi gli studenti imparano a memoria.
… Ah sì da quella
Religiosa pace un Nume parla:
E nutria contra a’ Persi in Maratona,
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel
mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia
oscurità scintille
Balenar d’elmi e
di cozzanti brandi,
Fumar le pire
igneo vapor, corrusche
D’armi ferree
vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e
all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea
lungo ne’ campi
Di falangi un
tumulto e un suon di tube,
E un incalzar di
cavalli accorrenti,
Scalpitanti su gli
elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni,
e delle Parche il canto.[9]
Tornano alla mente
i versi di Simonide, a cui tutti i poeti romantici si erano rifatti per
celebrare il valore delle sepolture, a cominciare dagli inglesi del XVIII
secolo.
Βωμός δ’ό ταφος.[10]
Il culto delle
tombe era stato riacceso dal decreto di Napoleone di vietare le sepolture
all’interno delle mura urbane. Da qui la reazione polemica di Ugo Foscolo con
la composizione dei Sepolcri, pubblicati a Brescia nel 1807 dall’editore
Bettola.
Qualche anno dopo
anche Giacomo Leopardi affrontò il tema dell’eroismo dei Greci alla Termopili,
con l’intento di esortare per gli Italiani a combattere per la propria patria.
Ma era un contesto differente, in quanto il poeta lamentava che gli Italiani
combattevano e morivano per lo straniero Napoleone: «Morian per le rutene /
squallide piagge, ahi d’altra morte degni, / gl’itali prodi; e lor fea l’aere e
il cielo / e gli uomini e le belve immensa guerra»[11], ovvero nella steppe
della Russia durante la campagna militare del 1812. Era l’anno 1818 e a
Recanati non giungeva nessuna avvisaglia delle futura tempesta greca. Tuttavia,
il giovane Giacomo aveva sentito l’esempio di Leonida come un incitamento per
gli Italiani addormentati, scarsamente dotati di amore patrio. E nell’ode
All’Italia aveva tessuto l’elogio per i caduti in Maratona, al pari di come
aveva fatto Simonide di Ceo (556 ca. – 468), praticamente 2.300 anni prima.
Oh venturose e care e benedette
l’antiche età, che a morte
per la patria correan le genti a squadre;
e voi sempre onorate e gloriose,
o tessaliche strette,
dove la Persia e
il fato assai men forte
fu di poch’alme
franche e generose!
Io credo che le
piante e i sassi e l’onda
e le montagne
vostre al passeggere
con indistinta
voce
narrin siccome
tutta quella sponda
coprìr le invitte
schiere
de’ corpi ch’alla
Grecia eran devoti.[12]
E proprio a
Simonide ricorre Leopardi per esaltare il valore dei caduti alle Termopili,
immaginando che il vate salga sulla collina per esaltare di fronte all’Ellade
la morte eroica nella lotta contro i Persiani comandati da Serse.
Beatissimi voi,
ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei
ch’al Sol vi diede;
voi che la Grecia
cole, e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’
perigli
Qual tanto amor le
giovanette menti,
qual nell’acerbo
fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o
figli,
l’ora estrema vi
parve, onde ridenti
correste al passo
lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e
non a morte andasse
ciascun de’
vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo
scuro
Tartaro, e l’onda
morta;
né le spose vi
foro o i figli accanto
quando su l’aspro
lito
senza baci moriste
e senza pianto.[13]
Ancora una volta
il ricorso a Simonide è d’obbligo, quando richiama il senso della morte che non
rende estinte le vite dei caduti nella memoria dei posteri.
Ούδέ τεθνάσι θανόντες.[14]
Si consideri che
anche Pietro Giordani aveva fatto ricorso a Simonide per esaltare l’eroismo dei
caduti alle Termopili, traducendo proprio le versione di Diodoro Siculo.
De’ morti alle
Termopile gloriosa è la fortuna, bello il fine, altare la tomba, lode la
sventura. La funeral vesta di que’ valorosi non sarà consumata né discolorata
mai dal tempo che vince ogni cosa. Le loro sepoltura contiene la gloria degli
abitanti di Grecia. N’è testimonio Leonida, re di Sparta, che lasciò gran bellezza
di virtù e fama perenne.
Nel 1821 Leopardi
compone un canto per le nozze della sorella Paolina. E’ ancora una volta
l’occasione per ricorrere alla storia greca, questa volta guardando alla
tradizione di Sparta, per tessere l’elogio delle donne, madri e spose di
valorosi lacedemoni.
Qual de’ vetusti eroi
tra le memorie e il grido
crescean di Sparta i figli il greco nome;
finché la sposa
giovinetta il fido
brando cingeva al
caro lato, e poi
spandea le negre
chiome
sul corpo esangue
e nudo
quando e’ reddia
nel conservato scudo.[15]
La Grecia ha
dunque un peso formidabile nella formazione della cultura romantica. Quando la
fiamma della rinascita si accende sulle rovine dell’Ellade e tra le chiese
ortodosse officiate dai sacerdoti vestiti di nero, i più intrepidi europei non
possono restare a guardare. Partono, come si è visto. E qualcuno non tornerà.
Molti sono rimasti a casa o nell’esilio forzato, per i motivi più svariati. Ma
gli esempi che la storia ci ha tramandato sono sufficienti per dimostrare come
la Grecia ha scosso le coscienze e contribuito a rafforzare la coscienza
politica dell’Europa liberale e democratica.
Questo è il quadro
culturale, tracciato per grandi linee generali, in cui si accende la passione
tra gli intellettuali, gli uomini di cultura e gli artisti per la rinascita
della Grecia. Quando si sparge la notizia della rivolta contro gli Ottomani i
cuori dei più intrepidi s’infiammano. Il sentimento e lo spirito romantico, che
avevano pur sempre le loro radici nella cultura classica, fanno il resto.
I FILOELLENI
La solidarietà con
i Greci in lotta non si manifestò soltanto con la presenza tra gli insorti. In
Europa la campagna di sostegno alla causa greca si manifestò con modalità e
forme organizzative diverse. Non ci si limitò alla costituzione di comitati per
la raccolta di fondi tra la popolazione dei rispettivi paesi. Scrittori, poeti,
musicisti, pittori lanciarono appelli ai governi dei propri paesi perché si
schierassero a fianco del popolo ellenico. Nacquero ovunque i comitati di
solidarietà che furono noti con il nome di Filoelleni. Fu il primo movimento di
solidarietà nato in Europa, che aprirà la strada alla Giovine Europa di
Giuseppe Mazzini molti anni dopo.
Il poeta inglese
George Byron, accorso generosamente dall’Italia dove si trovava, aveva avviato
una vastissima campagna in Inghilterra a favore della causa greca. Era divenuto
il punto di riferimento degli insorti greci, a cominciare da Mavrokordatos, ma
anche delle autorità inglesi che guardavano con attenzione a quanto accadeva
nell’Egeo.
In Francia le
vicende greche erano seguite con molta simpatia dai circoli liberali, dagli
artisti e dagli uomini di cultura che avevano incontrato lo splendore della
Grecia antica nel corso dei loro studi e qualche volta dei loro viaggi.
François de Chateaubriand scrisse numerosi articoli a sostegno della causa
ellenica; Claude Fauriel (1772-1844) e soprattutto Benjamin Constant
(1767-1830) che pronunciò infiammati discorsi all’Assemblea Nazionale. Il
generale Charles Nicolas Fabvier (1782-1855) nel 1823 fu incaricato dal governo
francese di recarsi in Grecia con un gruppo di volontari e di rafforzare le
fortificazioni di Navarino.
In Inghilterra,
importanti uomini di governo come Cochrane e Church sposarono la causa greca,
anche se dovettero tenere conto della cautela con cui si muoveva la Gran
Bretagna nello scacchiere dell’Egeo e dello Ionio.
Dall’Italia
partirono i piemontese conte Santorre di Santarosa e Giacinto Provana di
Collegno che si unirono agli altri patrioti che si trovavano già in Grecia. La
rivista “Antologia”, pubblicata a Firenze, manifestò in numerose occasioni il
sentimento di solidarietà degli uomini di cultura di ispirazione liberale, a
fianco della rivolta greca.
Questo movimento
di opinione favorevole sul piano politico e di simpatia sul terreno culturale,
aveva anche motivazioni di carattere più generale, compreso quelle religiose in
alcuni casi. I Greci ortodossi guardavano più a Mosca, la terza Roma dopo la
caduta di Costantinopoli, che in Occidente, ma i rappresentanti della ricca borghesia
commerciale e delle professioni economico-industriali sentivano che il futuro
era il continente europeo, quelle terre che portavano il nome della figlia del
re di Tiro rapita dal callido Zeus. Liberarsi dai Turchi non voleva dire
sottomettersi alla potenza dello zar, nel nome della fratellanza ortodossa.
Per questo, la
rivolta greca fu vissuta con sentimenti differenti ne vari paesi europei, ma
sempre con spirito di solidarietà e di aperto sostegno.
Oggi è ancora
aperta la discussione su quali furono le cause che favorirono la rivolta greca.
Su tutte ci sono lo spirito e l’esempio della Rivoluzione americana e
soprattutto di quella francese. Ma è stato Napoleone Bonaparte che dimostrato
che si possono condizionare e anche abbattere regni e imperi secolari. Quanto
accaduto nel decennio 1802-1812 era significativo. Soltanto la Spagna e la
Russia erano riusciti a resistere all’impeto della Grande Armée, anche se i
costi in termini di vite umane erano stati altissimi. Ma era la cultura
romantica che spingeva molti europei a sostenere la causa greca. Non c’era in
discussione l’indipendenza del popolo della nazione ellenica soltanto.
Quei sentimenti non erano ancora diffusi nella coscienza degli europei. Tra i
patrioti di ascendenza liberale erano presenti gli aspetti delle libertà
individuali sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. A ciò si legava
la libertà di associazione e quindi della libera circolazione delle persone e
delle merci. Il tema della libertà di navigazione e di commerciare era molto
sentito e in greci, su questo piano, avevano una lunga esperienza alle spalle.
In definitiva, libertà di pensiero e di fede si univa con libertà di
intraprendere, produrre e commerciare. Era il positivismo che si univa
inconsapevolmente al romanticismo. L’idea del popolo nazione che caratterizzerà
i decenni successivi della storia d’Europa non erano ancora prevalenti.
Ma come si è visto
erano fortissimi gli aspetti dell’eredità rappresentata dalla Grecia classica.
Eredità ideale politica, culturale, artistica ed estetica: sicuramente il
mondo di Omero, Pericle, Sofocle, Aristotele, Epicuro, Plotino, Pitagora,
Erodoto e Platone non sarebbe potuto rinascere e tornare a speldere. Ma dalle
sue ceneri il cui era stato ridotto da latini, barbari e ottomani sarebbe
potuta rinascere la Grecia moderna, esempio forse ancora per le genti del
Mediterraneo e dell’Occidente.
Per questo
accorsero in tanti. E fu un moto che sorprese l’Europa.
GEORGE BYRON
Il poeta inglese
aveva dedicato il suo poema Childe Harold’s Pilgrimagealla Grecia. I tempi dell’insurrezione erano ancora lontani.
Oh, thou! In
Hellas deem’d of heav’nly birth,
Muse! form’d or
fabled at the minstrel’s will!
Since sham’d full
oft by later lyres on earth,
Mine dares not
call the from thy sacred hill:
Yet there I’ve
wander’d by thy vaunted rill;
Yes! Sigh’d o’er
Delphi’s long-deserted shrine,
Where, save that
feeble fountain, all is still;
Nor mote my shell
awake the weary Nine
To grace so plane
a tale – this lowly lay of mine.[16]
Egli sentiva il
rapporto con la Grecia come una missione, al pari di quello con l’Italia.
Dall’Italia, infatti, partì per prestare soccorso agli insorti, accompagnato da
fedeli compagni. Missolungi era la sua meta e nella città di fronte alle sponde
del Peloponneso trovò alloggio. Nel suo poema aveva elevato la protesta per la
spoliazione inglese del Partenone e di altri reperti classici.
Ciechi gli occhi
che non versano
Lacrime vedendo, o Grecia amata,
le tue sacre
membra razziate da profane
mani inglesi, che
hanno ferito
ancora una volta
il tuo petto dolente,
e rapito i tuoi
dei, dei che odiano
l’abominevole
nordico clima d’Inghilterra.
Così come
nell’altro poema dedicato alla figura di Don Juan aveva esaltato la bellezza
selvaggia della Grecia, i costumi degli abitanti e soprattutto delle giovani
donne.
But beef is rare within these oxless isles;
Goat’s flesh
there is, no doubt, and kid and mutton,
And when a
holiday upon them smiles,
A joint upon
their barbarous spits they put on.
But this occurs
but seldom, between whiles,
For some of these
are rocks with scarce a hut on;
Others are fair
and fertile, among which
This, though not
large, was one of the most rich.[17]
Il poema celebra
l’amore secondo natura, che acquista un alone ideale. La protagonista femminile
è Haidée, una giovane “selvaggia” figlia di un pirata e orfana di madre. La
ragazza trova sulla spiaggia, come una novella Nausicaa sull’isola dei Feaci,
il naufrago Juan, riporta in vita l’eroe gettato dalle onde del mare Egeo sulle
sponde della sua isola, finisce con innamorarsi dello straniero e gli dona i
tesori incorrotti della sua anima e del suo corpo, fondendosi con lui nel regno
di una solitudine sublime a due, nel grembo dell’universo. E’ il ritrovato Eden
biblico, il Paradiso terrestre dei cristiani. La bellezza di Haidée è figlia di
quella selvatica isola, ma porta dentro di sé la gloria e lo splendore del
passato.
Lord Byron accorre
a salvare dalla scimitarra turca quella memorabile fanciulla e lo fa con
l’ardimento e la passione che portano a sfidare il colera e la morte.
Missolungi sarà la sua tomba.
Ma l’appuntamento
fatale è ancora lontano. Nella grotta dove viene trasportato regna l’incanto
della bellezza selvaggia di Haidée.
Her brow was overhung with coins of
gold,
That sparkled
o’er the auburn of her hair,
Her clustering
hair, whose longer locks were rolled
In braids behind,
and though her stature were
Even of the
eghest for a female mould,
They nearly reached her heel. And in her air
There was a something which bespoke command,
As one who was a lady in the land.[18]
Il gusto dell’esotismo
prende certamente la mano al poeta, ma non c’è dubbio che la circostanza di
trovarsi di fronte a una principessa, novella Nausicaa appunto, crea
un’atmosfera che esalta la fantasia e accende il cuore. Come non restare stregati da tanto fascino?
Her hair, I said,
was auburn, but her heyes
Were black as
death, thei lashes the same hue,
Of downcast
length, in whose silk shadow lies
Deepest attraction, for when to the view
Forth from its raven fringe the full glance flies,
Ne’er with such force the swiftest arrow flew.
‘Tis as the snake lat coiled, who pours his length
And hurls at once his venom and his strength.[19]
Non è certamente
veleno che sprizza nel sangue di Juan/Byron, ma una calda passione per tutto
ciò che appartiene a quel mondo, al mare, alle rocce, alla vegetazione. E’ il
sentimento romantico dell’epoca che diventa passione civile. E per conquistare
il pieno possesso di quello slancio, il poeta è pronto a tutto.
And then she had recourse to nods and signs
And smiles and sparkles of the speaking eye,
And read (the only book she could) the lines
Of his fair face and found, by sympathy,
The answer eloquent, where the soul shines
And darts in one quick glance a long reply;
And thus in every look she saw exprest
A world of words, and things at which she guessed.[20]
Giunto a
Missolungi, Byron si rende conto del compito eroico che lo attende, ma anche
della situazione disperata in cui si trova la città, sia per le condizioni
oggettive determinate sulla popolazione dall’assedio, sia per l’indisciplina e
l’inaffidabilità di molti difensori. Eppure la città resiste disperatamente. Ma
il colera che infuria miete più vittime dei cannoni di Ibrahim Pascià,
l’egiziano al servizio della Sublime Porta da cui la terra dei faraoni si è da
poco riscattata.
Il 18 aprile 1824
muore circondato dai suoi fedeli amici, tra cui l’italiano Pietro Gamba. Le sue
ultime parole sono state: «Ora voglio dormire!»
SANTORRE DI SANTA
ROSA
Sorte differente è
toccata all’italiano Santorre Annibale Derossi, conte di Pomerolo, signore di
Santa Rosa (1783-1825). Nato in una famiglia di militari, entrò giovanissimo
nell’esercito regio piemontese, combattè a Mondovì come granatiere nel 1796
contro l’Armée d’Italie di Napoleone Bonaparte. Studiò all’Università di
Torino, dove venne a contatto con elementi legati alla massoneria. Eletto
sindaco di Savignano nel 1807, carica che tenne fino al 1814, entrò
nell’amministrazione francese delle province sabaude. Dopo il ritorno dei
Savoia, nel 1816 entrò nel ministero della guerra come ispettore delle giovani
leve militari. Nel 1820 si accostò alla Carboneria, perorando un programma che
vedeva Vittoria Emanuele I porsi a capo di un esercito per liberare l’Italia
dalla dominazione straniera, creando così le basi per un regno unitario. Il re
reagì a queste proposte inasprendo il regime assolutistico e le persecuzioni
contro i dissidenti. Santorre pensò di poter trovare sostegno alle proprie idee
appoggiandosi al giovane Carlo Alberto, erede al trono, che attestava
sentimenti progressisti.
Si giunge al 1820.
Le insurrezioni in Spagna, Portogallo e Regno di Napoli trovarono Santorre
impegnato a sostenere la causa dei rivoltosi. Intanto, aspettava il momento
giusto per agire in Piemonte. Questo venne nel 1821, quando la congiura
politico-miltare portò alla elezione di Carlo Felice a re di Piemonte e alla
nomina di Carlo Alberto a reggente, essendo il sovrano lontano da Torino. Fu
proclamata la Costituzione e nominato un governo provvisorio, nel quale Santorre
fu designato ministro della guerra. Ma Carlo Felice, sopraggiunto in patria,
rifiutò l’elezione, sfiduciò Carlo Alberto, abolì la Costituzione e sciolse il
governo provvisorio.
Santorre Annibale
Derossi si rifugiò prima in Svizzera, unitamente ad altri patrioti, e poi in
Francia. A Parigi cercò di sopravvivere, anche grazie all’aiuto del filosofo
Victor Cousin che lo ospitò ad Auteil per farlo sfuggire alla gendarmeria. Ma
dopo qualche tempo fu riconosciuto dalle forze dell’ordine; per evitare di essere
catturato e consegnato alle autorità piemontesi, nell’ottobre del 1822 fu
costretto a fuggire in Inghilterra. A Londra conobbe i poeti Giovanni Berchet e
Ugo Foscolo. Ma fu l’aiuto disinteressato di Giacinto di Collegno, un patriota
piemontese ugualmente esule, che gli consentì di superare le più gravi
difficoltà. Ma non poteva durare a lungo quello stato di precarietà. Nacque
così l’idea di recarsi in Grecia e di unirsi ai rivoltosi, mettendo a
disposizione la sua esperienza militare e politica. I due amici si recarono a
Nottingham per imbarcarsi verso la Grecia. L’aiuto di Sarah Austin, una dama di
sentimenti liberali, facilitò l’imbarco. Santorre Annibale si recò subito a
Nauplia, pensando di ottenere qualche incarico di prestigio, ma le negative referenze
inglesi lo avevano preceduto. Così fu accolto freddamente e quasi evitato dalle
autorità greche.
Nella primavera
del 1825 si recò a Patrasso per prendere parte alla battaglia contro Ibrahim
Pascià e dopo la vittoria dei rivoltosi, si diresse a Navarino, nell’Egeo. La
piccola isola di Sfacteria, di fronte a Navarino, resisteva all’assedio della
flotta di Mehmet Alì, che il 5 maggio aveva sferrato l’attacco decisivo. Il 7
maggio furono inviati circa cento soldati in soccorso dei mille greci impegnati
nell’assedio. Il francese Antoine Grasset consigliò Santorre Annibale di
lasciare l’isola, approfittando delle tante barche ancorate, ma l’italiano
rifiutò. La mattina dell’8 maggio fu sferrato un attacco violento e Santorre
Annibale fu ucciso da un soldato maltese. Qualcuno raccontò che ad aggredirlo
era stato un marinaio egiziano.
Il giorno
successivo Giacinto Collegno si recò a Sfacteria in cerca del suo amico, ma il
corpo non è stato mai ritrovato.
La notizia destò
qualche sensazione tra i patrioti europei, ma Santorre Annibale Derossi non
aveva vasta celebrità e fu quindi dimenticato rapidamente. Non fu dimenticata
la battaglia di Navarino, la cui conclusione fu molto importante per le sorti
della guerra. Un dipinto di Ambroise Louis Garneray, di qualche anno dopo,
rappresenta efficacemente lo scontro tra le navi turco-egiziane e i difensori
sui bastioni dell’isola.
A Savignano, paese
natale di Santorre di Santa Rosa, è stato eretto un monumento soltanto
nel 1868, opera dello scultore romano Giuseppe Luchetti Rossi.
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Storia dell’Europa contemporanea, Laterza, Bari 1971
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[1]« Dei morti
alle Termopili / gloriosa la sorte, / bella la fine,/ la tomba un'ara,
invece di pianti,/ il ricordo, il compianto è lode./ Un tal sudario/ né ruggine né il tempo
mangiatutto oscurerà. / Questo sacello d'eroi valorosi / come abitatrice la
gloria d'Ellade si prese.
/ Ne fa fede anche Leonida, / il re di Sparta, / che ha lasciato di virtù /
grande ornamento e
imperitura gloria.» Simonide di Ceo
[2] Menandro,
«Muore giovane chi agli dei è caro».
[3] DANTE
ALIGHIERI, Inferno IV, 134
[4] JOHANN
WOLFGANG GOETHE, Prometheus, in Antologia della poesia tedesca, a cura di
Roberto Fertonani, Mondadori, Milano 1991. «Vela il tuo cielo, Zeus, / con
vapore di nubi, / esercitati, / simile al bambino / che decapita cardi, / con
le querce e le vette dei monti; / ma la mia terra, / e la mia capanna che non
costruisti, / e il mio focolare, / per la mia vampa / mi porti invidia».
[5] JOHANN CHRISTOPH FRIEDRICH SCHILLER, Kassandra, in op.
cit., p. « Vana mi è la primavera / che la terra a festa adorna; / chi della vita
più si rallegra, / se il suo sguardo la penetra a fondo».
[6] AUGUST VON PLATEN-HALLERMÜNDE, Philemons Tod, in op.
cit., p. «E dorme il sonno di cui l’uomo mai si svegliò. / Subito dopo Atene fu
preda dei Macedoni»,
[7] UGO FOSCOLO,
Le Grazie, vv. 48-65, in «Poesie», a cura di Guido Bezzola, Rizzoli,
Milano 1976-1988, pp. 125-126.
[8] U. Foscolo, I
sepolcri, vv. 213-225, in op. cit., pp. 98-99
[9] Ibidem, vv.
197-212, pp. 97-98
[10] SIMONIDE DI
CEO, R. 18«La vostra tomba è un’ara». E’ nota anche a versione B 24: »Ara vi
sia la tomba».
[11] GIACOMO
LEOPARDI, “Sopra il monumento di Dante”, in Canti, a cura di Lucio Felici,
Rizzoli, Milano 2014, vv. 139-140.
[12] G. LEOPARDI,
“All’Italia”, op. cit., vv. 62-73, pp. 6-7
[13] G. LEOPARDI,
“All’Italia”, in op. cit., vv. 84-100, p. 8
[14] SIMONIDE DI
CEO, «Né, pur essendo morti, sono morti», da Diodoro Siculo (XI, 11, 6).
[15] G. LEOPARDI,
“Nelle nozze della sorella Paolina”,in op. cit., vv. 68-75, p. 35
[16] GEORGE BYRON,
“Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”, in Opere scelte, a cura di Tommaso
Kameny, Mondadori, Milano 1993. «O tu in Ellade creduta di nascita
divina,/Musa! Favolosamente configurata dalla volontà del cantore!/Molto spesso
deturpata dalla più recente poesia in terra,/la mia cetra richiamarti non osa
dal tuo sacro collo:/eppure io vagai lungo il tuo celebrato ruscello;/sì! Ti
rimpiansi sull’altare di Delfi da tempo deserto,/dove, a parte quella fievole
fonte, tutto tace;/né per gratificare la mia lira desto le Nove esauste/per
adornare una storia così ordinaria, questo modesto poema».
[17] GEORGE BYRON, Don Juan, canto II, 154, vv.1225-1232, in
Opere, cit., p. 392. «Ma la carne di manzo è rara su queste isole prive di bovini; / di carne di
capra ve n’è, e di capretto e di montone. / E quando una festività sparge su di
loro il suo sorriso, / su loro spiedi barbareschi infilano bocconcini di carne.
/ Ma ciò avviene solo raramente, e a distanza di tempo, / poiché alcune di
queste isole sono tutta roccia con su qualche capanna; / altre sono belle e
fertili, tra le quali la presente, / anche se non grande, era una delle più
opulente».
[18] Ibidem,
II, 116, 921-928, p. 381. «La sua fronte di monete d’oro adorna, / irraggiava i
suoi capelli d’un castano ramato, / i suoi capelli raccolti, le cui ciocche più
lunghe / scendevano in trecce, e per quanto la sua statura / fosse per una
taglia femminile rilevante, / quasi le giungevano ai calcagni. E nel suo
sembiante / vie era qualcosa della fierezza di chi comanda, / come conviene a
una Signora di quella landa».
[19] Ibidem, II,
117, 929-936, p. 381-382. «I suoi capelli, come dissi, erano d’una castano
ramato, / ma i suoi occhi erano neri come la morte, le sue ciglia / del
medesimo colore, alla cui serica ombra s’incontra / la malia più profonda,
poiché non c’è strale, / per quanto rapido, che abbia la potenza fatale / del
so sguardo quando dalla frangia corvina affiora. / E’ come il serpente che,
prima in cerchi avvolto, si raddrizza / d’un subito e con tutta la sua forza il
suo veleno sprizza».
[20] Ibidem, II,
162, 1289-1296, p. 398. «E allora fece ricorso a cenni e a segni / e a sorrisi
e lampi, esprimendosi con gli occhi, / e lesse (unico libro a disposizione) i
lineamenti / del suo bel volto e trovò, per affinità, / risposte eloquenti là
dove l’anima risplende / e in una occhiata rapida lancia una lunga risposta; /
e così in ogni sguardo ella trovò l’espressione / di un mondo di parole e di
cose di cui congetturare l’accezione».
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