A scorrere
le pagine di “Morfisa o l’acqua che dorme”, il nuovo romanzo della scrittrice
napoletana Antonella Cilento, edito da Mondadori, si resta colpiti innanzitutto
da un dettaglio impercettibile e almeno in apparenza insignificante.
Carmelo Nicolò Benvenuto, 19 03 2018
Il nome
del protagonista, Teofane, poeta gravato, come ogni buon bizantino, dal senso
opprimente che tutto sia già stato scritto e detto, pavido e poco creativo
messo imperiale delle Auguste Zoe e Teodora, mandato a Napoli per compiere una
delicata missione diplomatica e per portare in sposa a Costantinopoli la
giovane figlia del Duca napoletano, Crisorroe, la cui testa mozzata egli trova
tuttavia ad accoglierlo, al suo arrivo, nel porto della città: Theophànes, Θεοφάνης, che è in
greco parola parossitona, ha cioè l’accento acuto sulla penultima sillaba, o al
più proparossitona, se pronunciata alla latina Theòphanes, diventa ossitona
nella lingua della Cilento, si scrive, cioè, Theophanès. Ugualmente la
Theotòkos, in greco Θεοτόκος, la Deipara, Genitrice di Dio della
tradizione teologica bizantina, si napoletanizza e diventa, nel romanzo,
Theotokòs, come se le parole fossero ciottoli, levigati, trasformati dalla
corrente.
Antonella Cilento, Morfisa (Mondadori)
La
Theotokos, la Marunnella è, nel romanzo, Morfisa, venerata protettrice di
Napoli, adorna di babbucce purpuree, una sorta di potente Madre Nostra che
governa di fatto la città e ne è forse l’anima più segreta, la ragazza bruna e
deforme nata dalla contaminazione e dallo stupro, portata a riva, come molte
delle nostre Madonne, dalle acque del mare. Acqua, in fondo, ella stessa,
Morfisa è detentrice di saperi segreti e di poteri sovrannaturali, custode del
virgiliano Uovo magico dal cui destino dipende quello della città, circondata
dal brulicare di diversità che popolano il Ducato di Napoli all’alba del mille,
i Bizantini, i Longobardi, i Saraceni, i Normanni, i Salernitani, gli
Amalfitani, ciascuno dei quali vi anela come a una coppa dorata, sospesa in
bilico e forse equidistante tra mondi paralleli e in guerra tra loro, come le
immaginarie fazioni di donne devote rispettivamente ad antichissimi o a più
recenti santi, a Virgilio o a San Gennaro. Altre parole restano, invece,
immutate, come ciottoli sottratti al flusso, impigliati nella rete del tempo:
Anàssa, per esempio, che vuol dire “signora”, o Basilìssa, che vuol dire “imperatrice”,
restano, come nel greco bizantino, parossitone; parole greche che, pur
invariate, sembrano assolutamente, genuinamente napoletane.
Morfìsa
stessa è, in fondo, una parola napoletana di assai probabile origine greca, un
nome attestato dalle fonti come quello di una delle più potenti casate della
Napoli bizantina e che pure sopravvive nella toponomastica attuale della città,
ad esempio nel nome della chiesa di San Michele Arcangelo “a Morfisa”, nella
zona corrispondente all’attuale quartiere del Nilo, tra Monterone e
Spaccanapoli, che è stata riconosciuta come il centro pulsante e la sede del
potere nella sua fase bizantina. Con la lingua acquatica del romanzo, in cui il
greco e il napoletano si infiltrano raffinatamente in un italiano magnifico, e si
contaminano e si rigenerano nella loro osmosi, acquistando una potenza
evocativa altrimenti impensabile, Antonella Cilento ci restituisce il mondo,
immaginabile proprio perché in larga parte incognito, dei sei lunghissimi
secoli del Ducato napoletano, colto alla vigilia del suo disfarsi e ormai
sull’orlo di un’apocalissi, e con esso il senso di una tradizione e di una
continuità, che si credevano perdute. Nel farlo, ci accompagna alla fonte,
simile a quella di marmo bianchissimo che è all’inizio del Decamerone, da cui
zampillano tutte le storie.
Intervistando
la scrittrice in esclusiva per FamediSud, abbiamo cominciato col domandarle che
cosa c’entri Napoli con Bisanzio…
Credo che la
risposta più ficcante alla questione sia in una celebre frase di Curzio Malaparte
che definiva Napoli l’unica città del mondo antico sopravvissuta nella
modernità: le somiglianze fra Napoli e Istanbul sono moltissime, in questo
senso. Benché Napoli sia parecchio più antica, entrambe le città sono state
importanti capitali in cui la grecità ha avuto un ruolo centralissimo e
fondante. Entrambe sono crogiuoli culturali di etnie, culture e religioni
stratificate, entrambe hanno vissuto l’esperienza, tragica eppure anche
vivificante per certi aspetti, di essere sottomesse a diverse dominazioni.
L’immersione nel tempo verticale della Storia che le due città propongono a chi
le visita è simile: entrambe sono città di continuo visitate da scrittori e
artisti alla ricerca di un passato o di una identità perduta. Entrambe sono
sfondo di narrazioni mitiche e fiabesche. Poi c’è il tempo vero della
relazione, i lunghi secoli che collegano Napoli a Costantinopoli-Bisanzio a
causa di ragioni politiche e amministrative. Certo, il Ducato napoletano non ha
lo stesso destino dell’Esarcato di Ravenna o dei Temi di Sicilia e delle
Calabrie ma l’impronta dell’Impero d’Oriente è fortissima sul piano
amministrativo, burocratico, culturale. Il fatto che a Napoli il Duca si
facesse chiamare Ipato come accadeva nelle alte sfere dell’Impero, che sul
Pretorio fosse collocato un cavallo rampante come ce n’erano nell’Ippodromo di
Costantinopoli (quelli famosi che ora sono a Venezia), che la gestione
amministrativa, anche quando ormai Napoli era del tutto indipendente
dall’Impero, restasse ad esso ispirata parla di un’identità culturale molto
avvertita, che lega la città partenopea da sempre alla sua matrice fondativa
greca, quasi saltando a piè pari la sua pur lunghissima storia romana. Insomma,
stiamo parlando di due città situate non a caso su porti strategici che giocano
un gemellaggio nemmeno troppo silenzioso nel cuore del Mediterraneo…
Come è nata
in lei l’idea di raccontare Napoli in relazione a Bisanzio?
Mi
incuriosiva la struggente melanconia con cui Benedetto Croce, Bartolomeo
Capasso e numerosi altri storici fra Otto e Novecento guardavano a questo poco
esplorato e mai narrato periodo del Ducato Bizantino, come a un sogno di
indipendenza mai vissuto, a un paradiso irraggiungibile dall’ottica
post-colonialista del Regno meridionale che lottava per diventare parte di
un’unica nazione, da un lato, ma coltivava da sempre sogni di autonomia. Napoli
libera? E com’è? Come era? E poi mi interessava moltissimo – mi ha sempre molto
incuriosito insegnando a scrivere racconti e romanzi – l’alba della narrazione
romanzesca così come noi la concepiamo. È in Omero? È nel romanzo greco o in
quello alessandrino? O nel decaduto e disordinato romanzo bizantino che
Boccaccio prende in giro nella novella di Alatiel, dove una vergine stuprata
per tutto il Mediterraneo (ahinoi, il tempo delle donne non passa mai) arriva
poi illibata al matrimonio? Tornare indietro alle forme che precedono
Cervantes, di solito considerato all’unanimità il fondatore del romanzo
moderno, mi portava per forza di cose a Bisanzio, così come ogni strada, diciamola
tutta, riporta ad Ariosto o a Basile, insomma alla soglia del Rinascimento che
è in fondo rifusione e reinvenzione della letteratura che viene da Oriente e da
Occidente.
La Napoli di
Morfisa é come Bisanzio caratterizzata da un mescolamento di lobby e di etnie.
Cosa ha da insegnarci, in questo?
Le famiglie
ebbero un peso importante nella storia della città: lo ricorda Amedeo Feniello
quando allude ai clan di epoca angioina, un’ipotesi suggestiva che in fondo
dice di Napoli la storia odierna, ovvero che, per superare la perdita di
indipendenza dovuta al predominio straniero e normanno per primo, la città si
organizzi in un sotto-stato legato ai poteri delle grandi famiglie. Però,
Napoli è nel romanzo come nella storia che ci è stata tramandata dalle fonti
per necessità un luogo di continuo melting-pot: riabitata dai Vandali africani
dopo carestie e spopolamenti, capace di accogliere alessandrini e franchi,
normanni e siriani, da sempre prodotto di un mescolamento naturale in tutto il
Mediterraneo, dovrebbe insegnarci a non alzare barriere, come di fatto Napoli
non ne ha mai alzate nella sua vicenda cittadina: e proprio non è il momento di
cominciare… Nel romanzo si vede per un istante la composizione del Senato del
Ducato che è ovviamente il prodotto di ogni Sud e di ogni Nord, di infiniti
intrecci, amori, invasioni, relazioni commerciali… Noi siamo il mondo, questo
raccontano in realtà le città di quello che a torto è chiamato Medio Evo, come
se il buio fosse ovunque.
Molto della
Napoli e più in generale del nostro Meridione bizantino ci è ignoto, per
l’assenza o per l’aridità delle fonti. Forse è per questo che il romanzo
storico ha bisogno di riversarsi quasi nel fantasy? Abbiamo bisogno, in un
certo senso, di tradire la storia per potercela raccontare?
Le fonti del
Ducato sono davvero poche, è vero, e molto difficili da leggere, come la
scrittura curiale napoletana considerata la più difficile da interpretare di
ogni epoca: ideogrammi, disegnini, parole criptate. È stato meraviglioso e
spaventoso entrare nelle pagine di quegli anni da porte privilegiate, come gli
scritti del prof. Nicola Cilento e di tanti altri storici, che occorreva per
forza tradire: il romanzo non entra in gara con la Storia, come diceva Manzoni,
può fornire versioni alternative, può raccontare quel che sarebbe dovuto
accadere, come ricordava Enzo Striano. Nel mio caso, non è il romanzo storico
come genere che mi interessa o pratico: in Morfisa è la letteratura a prevalere
nettamente sulla Storia, di conseguenza era indispensabile il dato fantastico
(e assolutamente non fantasy: il fantasy parla di mondi che non esistono e sono
paralleli a quello reale, qui il dato magico scivola in una faglia della realtà
verisimile e compone una visione, è cosa diversa: Kafka o Silvina Ocampo non sono
fantasy, non più di Stevenson o Calvino, per intenderci). In ogni caso, tradire
ovvero tradurre è il primo e unico gesto di chi racconta, da sempre e ovunque.
Quanto il
Sud ha oggi bisogno, secondo lei, di riscoprire la sua eredità bizantina e
perché?
Fa sempre
bene conoscere meglio il proprio passato per non cadere in letture ideologiche
del presente. Fa bene anche perché i pochissimi resti di un’epoca cancellata
dalla vittoria schiacciante del culto romano hanno un serio bisogno di restauro
e valorizzazione. Non si possono cancellare di colpo oltre seicento anni di
Storia meridionale, non si possono ignorare: è un buco di conoscenza
pericoloso, detta idee condizionate sui secoli a seguire, sulla nostra identità
culturale, sui rapporti con il resto del Mediterraneo. Ed è anche un modo
affascinante di far ripartire il turismo culturale in tante diverse zone del
nostro Sud.
Il potere
dell’acqua è, secondo Morfisa, quello delle storie. Che potere hanno le storie?
Hanno il
potere più grande e il più sottovalutato: quello di farci sognare. Sogniamo
perché la vita è breve e tormentata e chiede di essere vissuta in una
prospettiva più ampia e collegata. Sogniamo perché la notte è spaventosa e al
tempo stesso ricca di opportunità. Sogniamo perché sognare è realizzare i sogni
che da sempre facciamo. Le storie e lo stile con cui le raccontiamo informano
una nuova idea di bellezza: e la bellezza, ci piaccia o meno, è l’unica
salvezza, nel senso antico e greco del termine.
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