È
arrivato il momento per Vivì Cholevas di affrontare se stessa e suo figlio. Il
giorno della partenza si avvicina e quel viaggio a Delfi meditato a lungo, dopo
aver soppesato diverse mete, periodo, distanze, località, la spaventa fino
nell’intimo. Non è una semplice vacanza per la donna ma un incontro-scontro con
il figlio Linos con il quale i rapporti si sono troncati da tempo (da più di
dieci anni), da quando lei stessa decise di denunciarlo, consegnandolo alla
polizia con l’accusa di stupro e assassinio.
ARTICOLO
DI: Francesca Morelli
A
Linos è stato concesso un permesso-licenza di cinque giorni e Vivì raccoglie
tutte le sue forze per riavvicinarsi a quel figlio ergastolano che non conosce
più, non comprende. Un estraneo - come forse è sempre stato - che fa parte
della sua vita dopo che anche le visite in carcere si sono sempre più diradate
e costruite su profondi silenzi. Vivì spera di trovare il coraggio di
raccontare la verità a Linos sull’incarcerazione, si augura che la bellezza di
Delfi, delle rovine e dei siti archeologici possano aiutare entrambi a
ricostruire la loro storia. Ma anche questo tentativo è un fallimento: Linos
resta barricato nel suo astioso mutismo, odiando ancora di più quel cimitero di
anticaglie...
Una
storia dura, cruda, che scende negli abissi dell’intimo, quella raccontata da
Ioanna Karistiani nel suo ultimo romanzo. Unici protagonisti sono Vivì, donna
cinquantacinquenne con alle spalle una serie di fallimenti (un matrimonio
finito male, amicizie che la hanno instradata a scelte sbagliate, una
professione mai portata avanti fino in fondo) e Linos, suo figlio, che ha
ereditato tutti i tratti peggiori del padre, sbandato, alcolista, poco di
buono. Per i due, senza distinzione, la vita sembra avere riservato e
continuare a riservare un inferno: per Linos, trentenne, infiniti anni da
scontare dentro un carcere e per Vivì, dentro di sé, assediata da un senso di
responsabilità e di colpa per quel figlio, vittima forse anche dei suoi errori.
Falliscono gli approcci, falliscono le parole, falliscono le azioni: per il
re-incontro dei due sembra non esservi alcuna possibilità di redenzione, ma
neppure di riscatto. Neanche Delfi è stata catartica e entrambi continueranno a
portare, nel silenzio ormai insondabile, sulle proprie spalle il peso dei
sacchi. Ta sakìa, i sacchi dal titolo originale appunto, sono simbolo di un
percorso di vita in cui nessuno può restare immacolato, ma è destinato a modo
suo e secondo l’esperienza a caricarsi di sassi più o meno grandi che
difficilmente si alleggeriranno sul sentiero della vita, diventando macigni.
Così è per Vivì; falliscono le sue speranze di viaggio, svanisce il tentativo
di trovare una espiazione, evapora il desiderio di un contatto con suo figlio
Linos, aumenta il senso di sconfitta della sua intera esistenza. Linos, il suo
mutismo e la barriera ancora più fitta che innalza tra loro induce Vivì a
rifugiarsi nei suoi ricordi, pochi momenti belli che diventano il suo unico
tesoro: lei e Linos, bambino, seduti insieme sugli scogli, in silenzio a
guardare il mare. Aveva sperato in un miracolo, Vivì, ma questi non avvengono
mai. Neanche nei desideri di amore più grande di una madre.
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