Mitilene. Sull’isola di Lesbo l’hotspot “Moria” è ubicato a circa dieci km
a nord di Mitilene. L’accordo per il controllo dei rifugiati siglato nel marzo
2016 tra l’Europa e la Turchia lo ha trasformato in un centro di detenzione a
custodia militare, nella «Guantanámo di Lesbo» come recita il recente dibattito
mediatico sull’argomento. Oggi gli stessi media non hanno accesso alla
struttura.
Qui i profughi, circa tremila, vivono in un’installazione militare fatta di
pali d’acciaio, di filo spinato e di finestre non più grandi di una gattaiola.
Non c’è altra scelta: l’unica opzione è aspettare che il Ministero dell’Interno
greco li riconosca come rifugiati. L’attesa può variare da nove a dodici mesi e
nell’arco di questo periodo i risiedenti devono superare con successo tre
indagini prima di poter beneficiare della protezione internazionale.
A Moria famiglie, gruppi e singoli individui escono già alle prime luci
dell’alba: espongono il documento al guardiano in turno, alzano la sbarra e
cominciano a percorrere la Mitilinis-Thermis, la strada provinciale che collega
il campo profughi al centro urbano di Mitilene. Dopo un paio d’ore di cammino
questo sciame di anime senza meta si disperde nella città: c’è chi va a pescare
tra i moli di Akra Asfali, chi prende il sole o fa un picnic sulla spiaggia di
Tsamakia, chi si stende su una panchina e chi chiede l’elemosina ai pochi
turisti che popolano il centro storico della città.
Moria, Lesbo. Veduta del compound esterno del campo profughi.
Si fanno avvicinare con poca difficoltà, contenti di trovare delle orecchie
pronte ad ascoltare le loro storie.
«Ho definito tutto quanto prima di partire, direttamente dall’Algeria.
Alcuni miei amici sono venuti in Grecia l’anno scorso e mi hanno aiutato
dandomi il contatto. Ho telefonato e poi sono partito per la Turchia. […] Sul
gommone eravamo trentotto e siamo partiti da Assos (Behramkale in Turchia,
ndr).
Samir Solo ha 21 anni e vive come squatter nella periferia della città. È
uno di quei tanti rifugiati che ha deciso di scappare dai campi profughi per
andare a vivere – illegalmente – in un edificio abbandonato o in un palazzo
disabitato e fatiscente. E questo pare essere uno degli scenari possibili per
il rifugiato che approda nelle isole greche: compiere un viaggio lungo,
pericoloso, costoso e traumatizzante a bordo di gommoni di fortuna per lasciare
un inferno e trovarne un altro, da cui molti preferiscono scappare. «Non potevo
vivere nel campo profughi di Moria: è una prigione. Anche se vivo nell’illegalità
qui almeno sono libero», continua a spiegare Samir mentre sistema la sua branda
dentro un fabbricato diroccato nei pressi di Asfali che da ottobre dello scorso
anno chiama “casa”.
Il governo greco sta per dichiarare ufficialmente la fine dello stato
d’emergenza nel Paese e la cessazione dei fondi internazionali destinati alle
centinaia di Ong che lavorano sul territorio ellenico e che presidiano le acque
al confine con la Turchia. Una delle motivazioni che spinge il profugo ad
attraversare il mare dell’Egeo consiste nella consapevolezza di poter essere
aiutato e recuperato da una delle tante imbarcazioni che pattugliano il mare.
Sapere che gli operatori e i volontari di ERCI, di Refugee Rescue,
dell’International Rescue Committee e soprattutto delle forze di polizia
dell’agenzia internazionale Frontex sono lì per loro fornisce lo slancio
decisivo per scommettere sul futuro. Le miglia marittime da superare sono
poche, ma in ballo c’è sempre la vita umana.
«Sappiamo che non tutte le persone che aiutiamo non sono limpide. Su
alcuni, già dopo le prime domande sulla loro età o provenienza, abbiamo forti
dubbi. Ma quando ti ritrovi a sollevare con le braccia bambini bagnati e
infreddoliti le idee politiche cadono e subentra l’umanità che abbiamo dentro
di noi. Durante l’ultima operazione di soccorso non ho avuto il tempo di
indossare la dotazione di emergenza e ho afferrato un bambino con le mie mani.
È stato il mio istinto paterno a prevalere sulle regole di ingaggio» racconta
Cristian Dascalu il capitano del vascello rumeno MIA1102 di Frontex, il quale
equipaggio pattuglia dal tramonto all’alba il confine marittimo greco-turco.
Mar dell’Egeo, Grecia. A bordo del vascello “MIA1102” dell’agenzia Frontex
durante un pattugliamento del confine.
La condizione del rifugiato riposa su un processo di traumatizzazione che
trova il suo climax nelle sfiancanti dinamiche dell’esilio e della fuga per la
sopravvivenza ma è nutrito anche dalle situazioni avverse che amareggiano il
rifugiato proprio nel Paese che dovrebbe invece salvarlo, come l’essere stivato
in un campo profughi, l’incertezza di ottenere il permesso di soggiorno, i
problemi di adattamento a una cultura diversa, la difficoltà nel creare
relazioni con la popolazione locale e altri ancora. Questo circolo vizioso non
solo pregiudica il benessere mentale dell’individuo ma alimenta una risposta depressiva
che lo condizionerà nel quotidiano e potrebbe renderlo incapace di conquistare
la nuova vita tanto desiderata.
Nel novembre del 2016 il Prof. Anagnostopoulos dell’Università di Atene
scriveva sull’American Journal of Psychiatry che in Grecia «migliaia di
migranti, che sono per lo più rifugiati traumatizzati che fuggono dalla guerra
o dalla persecuzione, sperimentano situazioni molto stressanti quali la
separazione familiare, vivere in alloggi inadeguati, le complicate procedure
legali per l’immigrazione, le differenze culturali e altri stimoli contrapposti
che li allontanano dalla meta prefissata. […] Si sentono alienati da una
società gravemente colpita dalla crisi che non riesce a rispondere
sufficientemente alle loro esigenze e non offre opportunità economiche o
soddisfa le loro aspettative».
Questa chiave di lettura può facilitare la comprensione del perché i
rifugiati decidano di rimanere all’interno dei campi profughi anche dopo aver
ottenuto il riconoscimento, la protezione internazionale e un permesso di
soggiorno attraverso il quale cercare lavoro e muovere verso altri Paesi
europei.
Moria, Lesbo. Un rifugiato nel campo profughi.
Le proibitive condizioni di vita di Moria – o di “Vial” a Chios – non sono
di certo l’unica minaccia da cui scappare. E certamente vestire i panni di uno
squatter non migliora la situazione dell’uomo già in fuga. Ad intrappolare
nuovamente i rifugiati ci pensa il mondo che sta oltre la sbarra e il filo
spinato del centro, un mondo ostile, economicamente arido e abitato da
cittadini che faticano a conviverci.
«La crisi economica e quella dei rifugiati in Grecia», continua
Anagnostopoulos, «sono due contesti sovrapposti e interagenti che influenzano
individui o gruppi vulnerabili. La disoccupazione, la povertà, l’insicurezza
del lavoro e le crescenti disuguaglianze sociali hanno portato alla maggioranza
della popolazione locale greca situazioni che provocano profondo dolore
psicologico e sofferenza». Di questo ne risentono anche i rifugiati e il
circolo vizioso descritto poco sopra continua a intorpidire la situazione.
Campo profughi Moria. Faktur, 38 anni, ha un documento che attesta il suo
stato di rifugiato. Sono pochi ad averlo. «Non me ne voglio andare da qui. Cosa
faccio lì fuori? Sono solo, qui ho tutti i miei amici».
«Non me ne voglio andare da qui. Cosa faccio fuori? Sono solo, qui ho tutti
i miei amici». Faktur Anwar ha trentotto anni e viene dal Pakistan. Dal
dicembre dello scorso anno potrebbe lasciare Moria e la Grecia, solo che non lo
fa.
Protegge nelle sue mani la tessera di soggiorno come se fosse una reliquia
e la esibisce. Trascorre le sue giornate con i compagni di tenda sulle panchine
al di fuori del campo profughi e in spiaggia, giocando al cellulare che
alimenta con un caricatore ad energia solare. «Ho cercato un posto dove
lavorare. Tutti i giorni a chiedere di poter fare qualcosa. Mi dicevano sempre
di andarmene, che non c’è lavoro. Non ho altro da fare, meglio fare il bagno».
Test e foto di Luigi Avantaggiato
Video di Benedetto Sanfilippo
Δεν υπάρχουν σχόλια:
Δημοσίευση σχολίου