Rapimento di
Persefone, affresco (350 a.C. circa), tomba di Persefone, Vergina, Macedonia
La critica
d’arte dell’antichità, sia greca ed ellenistica che, più tardi, romana, era
concorde nell’assegnare alla pittura il primato fra tutte le forme di
espressione artistica: non è un caso che l’unico testo che tratti di storia
dell’arte giunto fino a noi, la Naturalis Historia di Plinio, le dedichi tre
quarti del libro XXXV, un’estensione assai superiore a quella destinata alle
altre arti figurative.
Più della statuaria bronzea, della scultura in marmo e della coroplastica, la pittura si prestava tanto a riprodurre la realtà che ad evocare immagini fantastiche in cui si fondevano realtà e illusione.
Più degli
altri artisti, i pittori erano liberi di esprimersi senza subire i
condizionamenti della materia: e dalla pittura infatti provenivano generalmente
le invenzioni iconografiche e compositive che poi trovavano applicazione in
opere d’arte realizzate con altre tecniche e nei prodotti dell’artigianato
artistico.
La caducità
dei supporti e dei colori ha fatto sì che tutti i dipinti dei grandi maestri
dell’antichità siano andati perduti. Generazioni di archeologi e storici
dell’arte antica si sono perciò sforzati di ricostruire l’evoluzione della
pittura greca attraverso lo studio di quei monumenti ed oggetti realizzati in
materiali durevoli (statue, rilievi, incisioni su gemme e oreficerie e,
soprattutto, ceramica dipinta) che riflettono in modo più o meno diretto motivi
propri della grande pittura. In quest’opera di ricostruzione hanno avuto un
ruolo importante anche le copie romane di pitture celebri, ad affresco o
mosaico (perdute, anche in questo caso, quelle su tavola) e le riprese di temi
classici nelle miniature tardoantiche.
A dare un
nome a scuole, artisti ed opere e a collegarli insieme in un quadro articolato
hanno contribuito in modo fondamentale i testi di viaggiatori, letterati e
poeti dell’antichità, oltre ai capitoli della Naturalis Historia di Plinio
dedicati a questo tema e ad alcuni frammenti superstiti di trattati d’arte.
Da essi si
ricavano indicazioni preziose sulla cronologia, la biografia, la produzione
artistica e la fortuna dei maggiori maestri, nonché descrizioni, spesso minuziose,
delle loro opere, che ne illustrano l’iconografia, i colori, la collocazione, i
committenti. Questa situazione ha fatto sì che fino a poco tempo fa qualsiasi
studio di sintesi sulla pittura greca premettesse che con essa abbiamo
purtroppo solo un rapporto indiretto, mediato da copie sbiadite e riprese in
tono minore o da descrizioni, magari entusiastiche, ma pur sempre astratte.
Oggi però
quest’affermazione corrisponde a verità solo in parte: alcune clamorose
scoperte archeologiche di questo secolo hanno infatti ampliato il panorama dei
monumenti noti e talvolta rivoluzionato le teorie elaborate dalla critica, ma
soprattutto hanno ripristinato un contatto diretto con quella che appariva la
piú evanescente tra le espressioni dell’arte antica (cfr. P. Moreno, Pittura
greca. Da Polignoto ad Apelle, Milano 1987).
Fare un
elenco di tutti i ritrovamenti sarebbe troppo lungo; basterà accennare ad
alcuni di essi, come le tavolette votive in legno di cipresso dipinte alla fine
del vi sec. a. C. e riemerse nel 1934 in un antro dedicato alle Ninfe presso
Pitsà, nel Peloponneso: per secoli, lo stillicidio delle acque le ha coperte di
un velo cristallino che ha miracolosamente salvato la brillantezza dei colori.
La policromia si è invece perduta, ma si è conservato l’elegante disegno
graffito su una lastrina di calcare databile anch’essa nel VI sec. e ritrovata
a Persepoli: la raffinatezza dell’incisione, raffigurante una scena del mito
greco, ne giustifica l’appartenenza al tesoro degli Achemenidi, ma soprattutto
dimostra, insieme con i coevi affreschi di Gordio, in Lidia, e di alcune tombe
nei pressi di Elmali, in Licia, la diffusione nell’entroterra asiatico delle
opere di artisti provenienti dai centri ionici della costa, diffusione che,
negli stessi anni, le piú antiche decorazioni funerarie di Veio, Cere e
Tarquinia attestano anche in Occidente.
Gli
affreschi della Tomba del tuffatore, scoperta nel 1968 a Paestum e databile nel
primo quarto del V sec. a. C., ci offrono una testimonianza vivissima della
pittura dell’epoca delle guerre persiane, prima nota soltanto attraverso le
decorazioni della coeva ceramica attica e delle sue imitazioni campane. Stele
dipinte da Tebe, pitture parietali da Pella, con i precedenti del cosiddetto
«primo stile» pompeiano, da Demetriade in Tessaglia, Alessandria d’Egitto,
Lefkadià ci offrono immagini di raffinato disegno e vivace policromia.
Ma le
scoperte piú sensazionali riguardano le pitture delle tombe reali di Macedonia,
rinvenute nel 1977/78 a Verghina e Palatitza, non lontano da Ege, la piú antica
capitale del regno. La tomba di Filippo, padre di Alessandro Magno, si data al
336, anno dell’uccisione del re, le altre agli anni immediatamente vicini:
tutte insieme costituiscono un’eccezionale testimonianza della pittura
coltivata a quel tempo alla corte macedone, certamente quella di piú alto
livello nel periodo di transizione dalla classicità all’ellenismo. Le prime
riflessioni storiografiche sulla pittura greca risalgono, a quanto sappiamo,
agli anni che seguono le imprese di Alessandro Magno.
Fino ad
allora la letteratura artistica si era interessata prevalentemente di questioni
tecniche e teoriche ed è soltanto con Senocrate di Atene, scultore in bronzo,
oltre che critico d’arte, attivo fra il 290 e il 250 a. C., che vede la luce la
prima trattazione d’insieme sulla storia della pittura. Per Senocrate pittura e
bronzistica avrebbero conosciuto un’evoluzione parallela, caratterizzata dal
susseguirsi di innovazioni tese ad una sempre piú fedele rappresentazione del
mondo visibile. Queste teorie, rimeditate pochi anni dopo da Antigono di
Caristo, anch’egli storico d’arte e bronzista, ebbero in seguito grande
influenza nel mondo romano, dove la trattatistica d’arte, da Varrone a Plinio,
mostra di dipendere in larga misura da quella ellenustica. Nel generale
ripensamento sull’evoluzione della pittura, uno dei nodi centrali per la
critica antica era determinarne il momento e il luogo d’origine, nonché il nome
dell’inventor. I primordi venivano fatti risalire a un’epoca oscillante fra
l’VIII e il VII sec. in località come Corinto, Sicione, Samo, Atene, ad
indicare le quali non erano certo estranee le dispute campanilistiche fra le
varie scuole. Su un punto però i Greci erano concordi: nel ritenere che la
prima riproduzione di un’immagine fosse stata ottenuta ricalcando l’ombra
proiettata dal corpo di un uomo o di un animale. Artefice ne sarebbe stato
Cleante di Corinto, secondo Plinio (Naturalis Historia, 35.15-16), Sauria di
Samo, secondo Atenagora (Ambasceria per i cristiani, 17), o ancora Dibutade, la
romantica fanciulla di Corinto che avrebbe usato tale accorgimento per
conservare memoria dell’amato in procinto di partire per la guerra, secondo
un’altra leggenda, tanto cara alla pittura neoclassica del tardo Settecento.
Una testimonianza di questa antichissima «pittura di ombre» (skiagraphia) ci è
conservata nella Tomba delle anatre, scoperta nel 1958 non in G, ma
nell’etrusca Veio, che con il mondo ellenico era in contatto grazie ai fiorenti
commerci della sua gente.
La tomba,
databile verso il 680-670 sulla base del corredo, prende nome dai cinque
uccelli acquatici dipinti in rosso su fondo giallo sulle pareti della camera
sepolcrale, resi con un’eleganza e una precisione del tratto paragonabili solo
a quelle della coeva produzione vascolare greca. Quest’ultima, denominata
«geometrica» per la predominanza di una decorazione a quadrati, cerchi,
triangoli, ecc., presenta talvolta anche figure brune molto stilizzate, con la
testa minuscola e il volto schematicamente definito con pochi tratti
ricorrenti. I migliori esemplari risalgono alla metà dell’VIII sec. e sono riconducibili
alla mano di un unico artista, l’anonimo Pittore del Dipylon, dal nome della
necropoli ateniese in cui sono state rinvenute una ventina di anfore decorate
con scene di battaglia, processioni e veglie funebri.
L’alto
livello raggiunto dalla pittura greca già in età geometrica è testimoniato dal
suo ampio raggio di diffusione, tanto verso occidente, come dimostrano gli
scambi con l’Etruria, quanto verso oriente, dove però gli scambi avvengono in
un clima di maggiore reciprocità. Deriva infatti dai grandi rilievi dipinti
dell’Egitto e della Mesopotamia l’idea di riempire con colori uniformi ma
diversi (bianco, bruno, rosso, ocra) le parti delle figure delimitate dalle
linee di contorno. A quest’innovazione la ceramica detta «orientalizzante», che
è l’unica testimonianza pervenutaci della pittura di questo periodo, aggiunse
un disegno piú armonioso e fluente, concedendo maggior spazio alle scene
figurate rispetto al resto della decorazione, che per parte sua aveva sostituito
gli schemi geometrici con fasce riempite da animali esotici e mostri che si
rincorrono. Tra gli empori dove piú intenso era il viavai di merci, idee e
uomini (si pensi al pittore Filocle, fiorito nella seconda metà dell’VIII sec.,
greco d’origine ma egiziano d’adozione), Corinto ebbe un ruolo di primo piano.
Intorno alla corte di Periandro, uno dei Sette Sapienti fiorirono manifatture
di ceramica dipinta di altissima qualità, alcuni esemplari della quale ci
offrono splendide testimonianze del livello raggiunto dalla pittura
orientalizzante.
Un esempio
ne è la brocca Chigi, conservata nel Museo di Villa Giulia a Roma, nella cui
decorazione figurata compaiono un unico episodio mitologico, il Giudizio di
Paride, e per il resto scene ispirate alla natura e alla vita dell’uomo: cacce,
processioni e soprattutto battaglie, in cui i guerrieri in armi sono colti in
una sorprendente varietà di atteggiamenti (mentre le prime file di combattenti
già incrociano le lance, le ultime si affrettano a passo di corsa, a dar man forte
ai compagni). La brocca Chigi, che qualche ricco mercante etrusco aveva
comprato e portato a Veio, dove è stata ritrovata, si data intorno al 635.
Ancora pochi decenni e il modo di dipingere – almeno sulla ceramica, anche in
questo caso l’unica testimonianza diretta della pittura del tempo – cambierà
radicalmente. I pittori torneranno a prediligere semplici figure di colore
uniforme, con il contorno e i dettagli interni graffiti, in cui tuttavia le
figure maschili e femminili appaiono distinte dal colore (nero o bruno per le
prime, bianco per le altre), secondo una convenzione che fu introdotta, come
vuole la tradizione, da Eumaro, pittore ateniese fiorito intorno al 580-570 a.
C., inventore anche di un gran numero di nuovi temi iconografici. Per la prima
volta i pittori di ceramica a figure nere cominciano a firmare le opere,
permettendoci cosí di conoscere i loro nomi, altrimenti ignoti, dal momento che
le fonti letterarie non si soffermano mai su questi artisti.
L’uso non è
però costante e, quando la firma manca, i pittori vengono individuati dalla
moderna critica con nomi convenzionali derivati dalle località in cui le loro
opere sono state ritrovate (ad esempio il Pittore del Dipylon), da figure o
composizioni pittoriche (il Pittore di Pentesilea o quello dell’Ilioupersis, la
distruzione di Troia) o piú banalmente dal museo in cui è conservata qualche
opera significativa (Pittore di Chicago, Pittore di Napoli).
Del tutto
singolare è il caso di Exechia. Il suo nome ci è tramandato attraverso alcune
opere di ceramica firmate, ma quasi certamente egli non si limitò a decorare
vasi a figure nere, cimentandosi anche in pitture di scala maggiore. Cosí
almeno induce a credere la sicurezza con cui ricorre, nei suoi vasi, a
soluzioni che si direbbero studiate per composizioni pittoriche di piú ampio
respiro.
Basta
osservare, ad esempio, la scena dipinta su un’anfora scoperta a Vulci e
conservata in Vaticano, in cui Achille e Aiace, in armi e pronti al
combattimento, sono raffigurati intenti ad ingannare i momenti che precedono
l’imminente battaglia giocando a dadi.
Il dramma
delle guerre persiane, culminato nell’incendio di Atene del 480, ebbe l’effetto
di una tragedia epocale, benché i Greci avessero sorprendentemente rovesciato
le sorti della guerra vincendo a Salamina e, l’anno dopo, a Platea. Nulla fu
piú come prima, neanche nelle arti figurative. L’Attica era devastata e Atene
distrutta; mutilate e profanate le sculture (che furono religiosamente sepolte
sull’Acropoli), bruciate le pitture, non restava che ricominciare tutto da
capo, con la consapevolezza, però, del tutto nuova, di poter determinare con le
proprie forze il mutare degli eventi, come la vittoria sui Persiani aveva
ampiamente dimostrato.
Già alla
fine dell’epoca arcaica le immagini cominciavano ad essere meno fisse e
stereotipe e a muoversi nello spazio circostante. Ora però le figure appaiono
sempre piú immerse in situazioni reali, alle quali partecipano con sentimenti e
reazioni emotive la cui analisi diviene uno dei principali obiettivi della
ricerca formale. Tra le prime iniziative prese all’indomani della vittoria
figura la ricostruzione del tempio di Atena a Platea, le cui pitture,
rivisitando la tradizione epica alla luce degli ultimi eventi bellici, avevano
lo scopo di celebrare il trionfo dei Greci sui nemici. Da Pausania ne
conosciamo i soggetti e gli autori: Ulisse che caccia i Proci, opera di
Polignoto di Taso, e La prima spedizione di Adrasto e degli Argivi contro Tebe,
dipinta da Onasia. Trasparenti le allusioni al recente passato: quella di
Ulisse non è che la cacciata degli usurpatori, mentre l’episodio della marcia
contro Tebe acquista il significato di un monito agli stessi Tebani (che a
Platea avevano combattuto al fianco dei Persiani) e a chiunque in futuro si
opponesse ai Greci uniti. La rappresentazione degli stessi soggetti in alcuni
rilievi provenienti da un edificio funebre di Trisa, in Licia, conservati a
Vienna e databili verso la fine del v sec., suggerisce che i due cicli
pittorici perduti avessero uno svolgimento su registri sovrapposti. L’ipotesi
che tali rilievi derivino dai cicli di Platea è avvalorata dalla presenza,
nell’episodio di Ulisse, di alcune varianti iconografiche rispetto alle vicende
narrate dall’Odissea. Ciò infatti coincide con quanto Pausania afferma circa
l’estrema libertà con cui Polignoto attingeva a tradizioni diverse del mito.
È un’epoca,
del resto, in cui si afferma sempre piú l’autonomia degli artisti, come attesta
Pindaro, il quale proclamava orgogliosamente: «Differente è l’arte dei diversi
maestri e bisogna che ciascuno proceda per la sua strada per affermare tutte le
risorse della propria natura».
Le opere
principali di Polignoto erano grandi composizioni che rievocavano episodi
drammatici in cui, come nelle tragedie del tempo, si ammonivano gli uomini
sull’ineluttabilità della loro sorte e sui limiti imposti alla loro
intraprendenza dal volere divino. Dal linguaggio del teatro, la pittura sembra
trarre in questo periodo nuovi mezzi espressivi. Come, sulla scena, l’effetto
dell’azione principale è sottolineato dalla presenza del coro che commenta,
incita, compiange, deplora, cosí, nelle pitture, ai protagonisti si affianca
ora una serie di figure colte in atteggiamenti di graduata partecipazione alla
scena principale. Un esempio di ciò è la raffigurazione di un momento dell’episodio
di Achille a Stiro su un cratere del Pittore dei Niobidi conservato a Boston.
Probabilmente esso s’ispira a un celebre quadro di Polignoto che Pausania
descrive nella Pinacoteca dei Propilei di Atene. Vi compare la scena del
matrimonio e insieme dell’addio fra Achille, in procinto di andare in guerra, e
Deidamia, la figlia del re Licomede amata dall’eroe e futura madre di
Neottolemo. Intorno ai due protagonisti che si scambiano la promessa tendendo
la mano destra, due sorelle della sposa partecipano alla festa nuziale,
portando la corona e il piatto per le offerte, mentre una terza, con un velo
tra le mani, esprime un sentimento di mestizia già presago del tragico destino
che attende gli sposi; mestizia che si trasforma in sgomento nella piú giovane
delle fanciulle, in piedi alle spalle del vecchio padre, che contempla assorto
la scena. La tradizione identifica in Polignoto l’artista che, rifuggendo da
eccessi drammatici e da un realismo epidermico, seppe esprimere pienamente
l’ideale virtuoso della paideia aristocratica. E difatti Aristotele lo definirà
pittore «morale», a differenza di Zeusi, i cui dipinti «non hanno ethos
alcuno».
Collaboratore
di Polignoto e, come lui, appartenente alla cerchia di Cimone, Micone, attivo
fra il terzo e il quinto decennio del v sec., è ricordato per grandi
composizioni di soggetto mitologico (la spedizione degli Argonauti,
l’amazzonomachia, la discesa di Teseo in fondo al mare) che notevoli echi hanno
suscitato nelle pitture vascolari fra il 460 e il 450 a. C.
Da alcune di
esse possiamo arguire l’abilità di Micone nel rendere di scorcio il corpo umano
(si veda, ad esempio, l’ardita visione frontale di un’amazzone a cavallo in un
cratere del Pittore dell’Idria di Berlino, da Numana, ora a New York), nel
dislocare i diversi piani della composizione, non senza embrionali indicazioni
paesistiche e, infine, nel preferire l’azione drammatica, ad esempio scene di
battaglia, alla sospensione dei momenti che precedono o seguono il dramma,
prediletta da Polignoto. Come abbiamo accennato, oltre alla ceramica dipinta,
oggi possediamo una testimonianza diretta della grande pittura del periodo
successivo alle guerre persiane: la Tomba del tuffatore, scoperta a Paestum, la
greca Posidonia. Sulle pareti del sacello è raffigurato il banchetto funebre,
ormai giunto al momento culminante in cui i convitati si apprestano a brindare
nelle coppe che un fanciullo nudo sta riempiendo, mentre alcuni musici
contribuiscono a rendere ancora piú animata l’atmosfera. Da un angolo
sopraggiunge un vecchio, lo segue un fanciullo, probabilmente il defunto, lo
stesso che, nella celebre scena che dà nome alla tomba, è raffigurato nell’attimo
simbolico in cui si tuffa nel mare dell’eternità dall’alto delle Colonne
d’Ercole, il confine estremo del mondo abitato. Per lo stile e l’iconografia
gli affreschi debbono essere attribuiti ad una scuola locale, nella quale
tuttavia trovano puntuale applicazione alcune delle innovazioni introdotte in
quegli anni in Grecia, come le prime notazioni paesistiche e topografiche. Un
contributo alla sempre maggiore ricerca di verosimiglianza, poco dopo la metà
del secolo venne dall’ateniese Paneno, fratello e collaboratore di Fidia, che
innovò la tradizione cromatica mescolando in modo originale i quattro
tradizionali colori della pittura greca, nero, rosso, ocra e bianco,
introducendo rappresentazioni paesistiche piú complesse e caratterizzando in
senso ritrattistico i suoi personaggi. Nella Battaglia di Maratona che dipinse
per la stoà Poikile (portico dipinto) di Atene, i combattenti si muovevano in
un paesaggio che corrispondeva a quello che si presentava agli occhi di chi
giungesse sul campo di battaglia provenendo dalla città: a sinistra
l’accampamento greco, al centro la palude dove ebbe luogo lo scontro e, a
destra, la baia con le navi persiane all’ancora. Tra i moltissimi personaggi,
Milziade era raffigurato mentre esortava i soldati, Echetlo, simbolo della
resistenza contadina, mentre si lanciava nel combattimento brandendo l’aratro,
Cinegiro con le mani mozzate nel momento in cui afferrava il bordo di una nave
nemica. La coincidenza con le scene descritte da Erodoto è impressionante; e
oggi sappiamo che fu proprio dal grande dipinto di Paneno che lo storico trasse
l’ispirazione per comporre la sua opera e non viceversa.
Qualche anno
prima, fra il 468 e il 458, un artista giunto da Samo aveva lasciato a bocca
aperta il pubblico che assisteva nel teatro di Atene alla rappresentazione di
una tragedia di Eschilo: le scene, dipinte con una serie di accorgimenti di
natura geometrica, davano l’illusione della profondità. Agatarco, questo era il
nome dell’artista, aveva inventato la prospettiva, i cui presupposti teorici
illustrò in un trattato dal quale deriveranno tutti gli studi ulteriori,
compresi quelli di Anassagora e piú tardi quelli di Democrito, citati ancora in
età romana.
Proprio
Democrito affermava che non è la realtà a colpire i nostri sensi, ma un’emanazione
degli atomi che costituiscono la materia. E immagini incorporee e parvenze rese
con gradazioni chiaroscurali e risalto delle ombre portate erano quelle che
uscivano dal pennello di Apollodoro, artista attivo nella seconda metà del v
sec., esaltato da alcuni e criticato da altri. C’era infatti chi ne apprezzava
la maestria nel graduare il chiaroscuro secondo l’intensità della luce, creando
figure di grande suggestione e verosimiglianza e chi, al contrario, ne
dileggiava la pittura perché popolata di figure illusorie che anziché cogliere
la realtà profonda, la struttura degli esseri e delle cose, si limitava a
renderne l’aspetto sensibile (per lui fu di nuovo usata la definizione di
skiagraphos ‘pittore di ombre’, questa volta in senso dispregiativo).
Echi delle
sue opere – le prime, secondo Plinio, capaci di catturare lo sguardo
dell’osservatore – si trovano, già a partire dal 450, nella decorazione di una
classe particolare di ceramica, le lékythoi destinate al corredo funerario,
vasi cilindrici dal fondo bianco la cui decorazione, sempre allusiva al mondo
dei defunti (il mesto addio alla persona amata, l’abbandono dell’anima fra le
braccia della morte, l’ingresso nel mondo delle tenebre), si caratterizza per
la presenza di malinconiche figure dalle pose armoniose, rese con colori tenui
che le fanno apparire ai nostri occhi come pallide apparizioni d’un altro
mondo.
La
consapevolezza della propria arte, manifestata da Apollodoro quando rispondeva
alle polemiche sui suoi quadri affermando che erano «piú facili da criticare
che da imitare», diventa certezza del valore assoluto dei propri mezzi
espressivi nei maggiori artisti della generazione successiva: Parrasio, Zeusi e
Timante, le cui raffinate schermaglie domineranno per oltre un trentennio, fra
il 430 e i primissimi anni del iv sec., la ribalta artistica del mondo greco,
come dimostra il fiorire di aneddoti divenuti poi proverbiali che raccontano di
sfide accanite per stabilire chi possedesse maggiori capacità di simulare la
realtà. Sono questi gli anni in cui la potenza ateniese raggiunge l’apogeo, per
poi declinare rapidamente a causa della catastrofica guerra del Peloponneso, il
cui impatto sulla Grecia tutta non fu minore di quello prodotto dalle guerre
persiane all’inizio del secolo.
Il crollo
della fiducia nelle istituzioni tradizionali fa ripiegare i Greci su una
visione del mondo priva di certezze assolute e su forme di religiosità e di
filosofia piú intime. L’attività degli artisti comincia a svincolarsi sempre
piú dalla vita sociale e politica della polis e dalle grandi commissioni
pubbliche, dando spazio al sorgere di nuovi generi artistici: è la nascita
dell’arte per l’arte, dell’arte non piú per la collettività, ma per le
collezioni di amatori e di esperti. A dimostrarlo ci sono alcuni episodi della
sconfinata aneddotica fiorita intorno a questi artisti, ammirati ovunque si
recassero, dalla Grecia alla Sicilia, dalla Macedonia all’Oriente, ricchissimi
ed eccentrici orgogliosi di una bravura che non dipendeva piú solo dall’abilità
tecnica o dai segreti di bottega, ma principalmente dal genio creativo
individuale.
Si dice ad
esempio che Zeusi, indignato per l’incapacità della gente di apprezzare, al di
là della novità del soggetto, anche la finezza di esecuzione dei suoi Centauri,
non esitò a ritirare l’opera, giudicandola sprecata per un pubblico che sapeva
ammirare solo la «feccia» della sua arte; e che a un certo punto cominciò
addirittura a regalare i suoi dipinti perché non esisteva prezzo adeguato per
essi. La fiducia dell’artista nei propri mezzi e in particolare, nella propria
capacità di osservare e riprodurre la realtà visibile, traspare nell’aneddoto
di Zeusi che, dovendo effigiare per il tempio di Era Lacinia a Crotone un’Elena
che incarnasse l’ideale della bellezza femminile, pretese che gli venissero
mostrate le piú belle fanciulle della città, per prendere spunto da quanto di
piú perfetto ciascuna possedesse.
Tale
aneddoto costituirà uno dei pilastri della teoria dell’arte a partire dal
Rinascimento, giacché è ad esso che la trattatistica costantemente rimanderà
per affermare la necessità di ispirarsi sí alla natura, ma operando un’autonoma
rielaborazione del vero. Echi della poetica di Parrasio, Zeusi e Timante si
trovano puntualmente nella coeva pittura vascolare. L’impronta spiccatamente
disegnativa, l’attenzione per la simmetria e le proporzioni, la cura riposta
nell’espressione dai sentimenti e dei caratteri, proprie della ricerca
pittorica di Parrasio, si ritrovano, ad esempio, nei volti tesi degli Argonauti
su un cratere del Pittore di Peleo, da Spina, come nell’espressione scavata e
sofferente del Filottete ferito che compare su una coppa d’argento del tesoro
di Hoby, al Museo nazionale di Copenhagen. Un quadretto della fine dell’età
ellenistica, dipinto su marmo da un Alessandro di Atene e proveniente da
Ercolano, ci offre probabilmente un’idea attendibile della pittura di Zeusi, di
cui le fonti esaltano la tridimensionalità e lo spazio resi mediante il
chiaroscuro e denunciano (Aristotele) l’indifferenza per i contenuti morali a
vantaggio di immagini aggraziate ma frivole. Nel quadretto di Ercolano compaiono
cinque leggiadre fanciulle, intente a giocare con gli astragali, dipinte con i
toni lievi di una pittura di genere, in una tecnica monocroma su fondo bianco
che Plinio descrive come peculiare di Zeusi. Della pittura di Timante, infine,
possediamo un’eco precisa nella decorazione di un’ara marmorea di Firenze, in
cui è raffigurato Calcante nell’atto di tagliare una ciocca ad Ifigenia, che
sta per essere sacrificata, mentre il padre Agamennone si copre il volto con il
mantello. Proprio quest’ultimo particolare ci consente di collegare l’immagine
a un celebre dipinto di Timante, in cui con maggiore evidenza che altrove si
manifestava l’aspetto piú caratteristico della sua pittura: la capacità di
esprimere piú di quanto non rappresentasse. Come spiega Quintiliano, infatti,
l’artista in quel dipinto, dopo aver raffigurato ogni possibile stadio del
dolore nei volti di Calcante, Menelao e Ulisse, era ricorso all’espediente di
nascondere il viso del padre, in modo da coinvolgere lo spettatore nel dramma
rappresentato, obbligandolo ad immaginare la disperazione di Agamennone secondo
la propria sensibilità. Parrasio, Zeusi e Timante furono certamente grandissimi
artisti, ma non lasciarono eredi diretti, almeno per quanto è dato di sapere
dalla documentazione giunta fino a noi.
Le prime
grandi scuole di pittura di cui si abbia notizia risalgono infatti al pieno IV
sec. e fiorirono non soltanto ad Atene, ma anche in altri centri artistici,
come Sicione.
La scuola
tebano-attica, che si formò intorno alla personalità di Eussenida, personaggio
per noi sconosciuto, e del suo allievo Aristide il Vecchio, attivo intorno al
400 e ritenuto l’inventore della tecnica dell’encausto, cercò di conciliare le
diverse tendenze di quegli anni, che miravano da un lato a una pittura in
sintonia con il mondo delle idee descritto da Platone, e dall’altro alla
rappresentazione di eventi storici, sia pure proiettati in una dimensione
eroica e mitica.
Fra i molti
discepoli di cui ci è giunta notizia, spiccano le personalità di Nicomaco
pittore capace di dissimulare lo sforzo creativo (secondo Plutarco la sua
pittura «come i versi di Omero, nonostante la potenza e la grazia, sembra
eseguita senza fatica, facilmente»), e, sul versante della pittura di storia,
Eufranore e Nicia.
La scoperta
delle tombe reali di Verghina, in Macedonia, fa di Nicomaco il primo grande
artista nella storia della pittura greca cui si possa riferire con buona
probabilità un originale: la decorazione della tomba di Persefone. Per la
straordinaria levità e scioltezza con la quale sono eseguiti, gli affreschi
corrispondono perfettamente al modo di dipingere che le fonti antiche ci hanno
tramandato a proposito di Nicomaco, ma non basta.
Il rapimento
di Persefone (che nella decorazione della tomba è il soggetto principale)
figura infatti tra i soggetti elencati nel catalogo dell’artista. Una sua
tavola con la rappresentazione di questo tema fu a lungo esposta a Roma nel
tempio di Minerva in Campidoglio e da essa derivano numerose repliche fra le
quali due mosaici pavimentali provenienti da un mausoleo della Necropoli
vaticana e da un colombario della via Portuense.
Le affinità
iconografiche fra queste tarde riproduzioni e gli affreschi di Verghina ci
dimostrano come il quadro portato a Roma non dovesse differire da questi
ultimi, se non per alcuni dettagli (Ermete ancora fermo con i cavalli, la
figura di Persefone che volge le spalle all’osservatore) che possono trovare
una spiegazione nell’appartenenza delle due pitture a momenti diversi della
lunga carriera dell’artista, attivo ad Atene tra il 365 e il 334 circa, e
successivamente in Macedonia, alla corte del reggente Antipatro (334-323)
L’attribuzione a Nicomaco della tomba di Persefone rende piú attendibile anche
un’altra attribuzione sulla quale si è molto discusso: quella del celebre
dipinto con la Battaglia di Alessandro e Dario (noto da una replica musiva
proveniente dalla Casa del fauno, a Pompei) a Filosseno di Eretria, che di
Nicomaco fu allievo ad Atene, prima di trasferirsi, come il maestro, alla corte
macedone.
Fra le due
opere, pur tanto diverse per soggetto (un tema mitologico e un episodio di
storia), esistono evidenti analogie compositive; in particolare, il gruppo di
Dario e l’auriga nel mosaico pompeiano riecheggia quello di Ade e Persefone
nell’affresco di Verghina. Esistono però anche differenze significative: il
carro di Ade procede verso sinistra quello di Dario dalla parte opposta,
Persefone il cui ruolo nella composizione corrisponde a quello dell’auriga,
anziché trovarsi dietro la figura di Ade, la copre con il suo corpo. Ciò
dimostra che non di una banale copia di un’opera dall’altra si tratta, ma
piuttosto di opere nate nell’ambito di una stessa cerchia di artisti che
operavano componendo in vario modo schemi intercambiabili. Si introduce cosí un
problema non ancora chiarito, quello delle compendiariae, ossia delle
«scorciatoie» della pittura di cui parla Plinio proprio a proposito di
Filosseno, che ne sarebbe stato l’inventore, «in ciò seguendo la rapidità del
maestro» (Nicomaco). Plinio è estremamente laconico al proposito, lasciandoci
varie possibilità di interpretazione delle sue parole, tra le quali quella che
egli intendesse riferirsi all’uso di schemi elaborati a priori, che poi
venivano montati variamente, a seconda delle necessità compositive: un modo di
procedere, questo, che prelude alle diffuse e pragmatiche convenzioni operative
dell’industria artistica alessandrina. Dell’altro grande allievo di Aristide il
Vecchio, Eufranore, conosciamo dalle fonti antiche l’estrema versatilità: era
infatti scultore in bronzo e in marmo, oltre che pittore, e anche teorico
dell’arte. In un celebre trattato, Sulla simmetria e sui colori, aveva
teorizzato un modo di rappresentare i soggetti in base all’apparenza visiva
(phantasma) e non alla realtà tangibile, guadagnandosi cosí l’aperta
disapprovazione di Platone, che gli rimproverava il carattere illusorio della
sua arte, capace di produrre «soltanto apparenza, ma non somiglianza». Da
Plinio sappiamo che le innovazioni di Eufranore consistevano in uno snellimento
delle corporature e nel contemporaneo ingrandimento della testa e degli arti,
ai quali veniva dato anche maggiore risalto mediante il chiaroscuro, e l’uso di
nuove mescolanze di colore. L’intento non era soltanto quello di mantenere
equilibrato l’effetto generale delle figure nelle composizioni di grandi
dimensioni (egli era autore di «megalografie»), ma anche, probabilmente, di far
risaltare l’importanza attribuita all’espressione dei sentimenti, come
puntualmente rileva Platone, quando critica la pittura che punta
sull’affettività (pathema), traendo in inganno l’osservatore.
Ma, a
dispetto degli anatemi lanciati dal filosofo, l’espressione del pathos diveniva
sempre piú uno dei valori maggiormente apprezzati nelle arti figurative. Nel
335, quando i Macedoni saccheggiarono Tebe, Alessandro volle portare con sé un
quadro di Aristide il Giovane, in cui la denuncia degli orrori della guerra
aveva il volto di un bambino lacero che si attaccava disperatamente al seno
della madre morente. Erede della migliore pittura di storia di Eufranore fu
Nicia che da giovane aveva lavorato anche nella bottega di Prassitele,
facendosi un nome nella politura delle statue patinandole con le cere. E di
questa esperienza al fianco del grande scultore, a Nicia rimase il carattere
plastico che seppe imprimere alle sue figure, sia nelle composizioni di
argomento storico e allegorico, sia nelle raffigurazioni di soggetti femminili,
per i quali fu ancora piú celebre. Oltre alla Nemea, personificazione della
città peloponnesiaca sede dei giochi, che Nicia aveva raffigurato seduta sopra
un leone e con la palma in mano, nel catalogo dell’artista figurano soggetti
come Calipso, Io, Andromeda, composizioni dal carattere idillico che
incontrarono un largo successo nella cerchia di Augusto e fecero di Nicia uno
degli artisti prediletti dell’età neoattica. La sua Nemea, portata a Roma fin
dal 76 a. C., dal 29 fu murata su una delle pareti della nuova sede del Senato,
la Curia Giulia, mentre il Giacinto, di cui Augusto all’epoca dell’occupazione
di Alessandria si era tanto innamorato da volerlo a Roma, alla sua morte fu
posto da Tiberio nel tempio a lui dedicato. E ancora, dalla casa sul Palatino
della moglie di Augusto, Livia, proviene una delle copie ad affresco del
dipinto di Nicia che raffigurava Io, Argo ed Ermes. Dall’iscrizione funebre che
Pausania vide fuori delle mura di Atene, lungo la via per l’Accademia («Nicia,
figlio di Nicomede, il migliore tra quelli del suo tempo a dipingere animali»),
e dall’affermazione di Plinio (Naturalis Historia, 35.133) che il pittore
«rappresentò benissimo i cani», la critica ha tratto spunto per attribuire a
Nicia anche lo splendido affresco con la Caccia di Alessandro e Filippo che
decora la facciata della tomba di quest’ultimo, a Verghina. Parallelamente a
quella tebano-attica, un’altra importante scuola di pittura si andava formando
a Sicione, intorno al nome di Eupompo, artista attivo fra il 420 e il 380, di
cui conosciamo solo un titolo e un aneddoto, già di per sé indicativi di
quell’adesione al vero e di quell’attenzione alla geometria compositiva che
furono le principali caratteristiche di tutta la scuola di Sicione. Del suo
Atleta vincitore con la palma possediamo infatti una replica in un affresco di
epoca adrianea da una casa sul Quirinale, a Roma, che ci mostra una
composizione sapientemente equilibrata, con bilanciate simmetrie e un’attenzione
particolare per lo studio dal vero, non soltanto dei personaggi rappresentati,
ma soprattutto degli oggetti, come le armi e la cesta con le ghirlande. La
programmatica adesione di Eupompo al vero naturale, che lo aveva anche portato
a revisionare il canone policleteo, al fine di rendere le immagini rispondenti
piú alla realtà che ad uno schema mentale, appare chiaramente dall’aneddoto,
riferito da Plinio (Naturalis Historia, 34.61), secondo il quale, allorché un
giovanissimo, oscuro fonditore di Sicione gli chiese chi dei suoi predecessori
prendesse a modello, il pittore rispose, indicando la folla, che non un
artista, ma la natura si doveva imitare. Quel garzone di fonderia, che da
queste parole trasse il coraggio per iniziare la sua attività di scultore, era
Lisippo e le parole di Eupompo, in cui è riassunta tutta la poetica della
scuola di Sicione, sono illuminanti per ricostruire l’ambiente culturale nel
quale mosse i primi passi uno dei dominatori della ribalta artistica del iv
sec. Di Eupompo fu allievo il macedone Panfilo, maestro a sua volta di
Melanzio, Pausia ed Apelle. Per lui la pittura era una scienza che richiedeva
un approccio sistematico e razionale, con fondamenti che potevano perciò essere
insegnati. Fu infatti autore di diversi trattati, in cui teorizzò una «pittura
perfetta» (chrestographia), intesa come composizione regolata da calcoli
aritmetici e dalla geometria delle proporzioni.
Fra i
discepoli di Panfilo, Melanzio fu colui che più aderì all’ideale del bello
geometrico e proporzionale enunciato dal maestro. A lui, non a caso, era
riconosciuta un’abilità straordinaria nella distribuzione delle figure nello
spazio un’abilità giudicata superiore alla sua perfino da Apelle. Un suo quadro
con una scena di caccia al cervo è riproposto con tutta la cornice da uno dei
mosaici dei palazzi di Pella, eseguito a breve distanza di tempo
dall’originale. Da esso emerge chiaramente il progetto geometrico che è alla
base della composizione: un quadrato inserito in un altro – la cornice – il cui
lato è il doppio del primo; all’interno, le figure si inscrivono idealmente in
una sfera che, intersecandosi con il piano del suolo, dà origine a un cerchio
che, per effetto della prospettiva, assume l’aspetto di un’ellisse intorno alla
quale si dispongono i vari personaggi. Diversamente da Melanzio, Pausia
raccolse dell’insegnamento di Panfilo soprattutto la sperimentazione della
tecnica ad encausto, diventando il primo grande artista specializzato in tale
genere di pittura. L’encausto (pittura bruciata) consisteva nell’applicare sul
supporto minute quantità di cera che poi venivano fatte aderire con uno stilo
rovente, conferendo ai colori una particolare luminosità e brillantezza.
Questo
procedimento, che richiedeva tempi lunghissimi, permise a Pausia di diventare
un celebrato specialista nella pittura di fiori, genere cui lo avrebbe indotto
l’attento studio dal vero delle ghirlande intrecciate da Glicera, la fioraia da
lui amata e ritratta nel suo quadro piú celebre. Il tono lieve e la
piacevolezza dei soggetti furono alla base del grande successo ottenuto dalle
opere di Pausia in anni di ripiegamento intimistico e di perdita della libertà
da parte del mondo ellenico. Ma alla loro fortuna non fu estranea neanche la
grande adattabilità di tali soggetti all’applicazione in innumerevoli prodotti
dell’industria artistica, dalle cornici per i quadri all’arredo architettonico
(a Pausia è attribuita l’invenzione dei lacunari dipinti), alle stele,
all’oreficeria e naturalmente alla ceramica, specie quella proveniente da
Egnazia e dai maggiori centri della Puglia.
Nel 343, proprio
quando Aristotele fu chiamato da Filippo a far da precettore ad Alessandro si
trasferí alla corte di Macedonia anche il migliore allievo di Panfilo, Apelle,
che ben presto divenne il pittore preferito e il ritrattista ufficiale del re e
del suo giovane erede. Gli aneddoti fioriti intorno alla personalità di questo
artista, nato in una famiglia di orafi di Colofone, esaltano l’enorme prestigio
di cui egli godette alla corte macedone, reso piú evidente dai rapporti di
amichevole confidenza che intrattenne con Alessandro Magno. Plinio racconta
(Naturalis Historia, 35.85) che il re amava far visita in bottega al pittore e
si fermava a discutere con lui, ma Apelle, quando Alessandro parlava troppo o a
sproposito, non si faceva scrupolo di farlo tacere dicendogli che faceva ridere
i garzoni intenti a macinare i colori. Ancor piú noto è l’episodio che vide
protagonista Pancaspe, schiava prediletta di Alessandro (ibid., 35.86).
Accortosi che il pittore se ne era innamorato mentre la ritraeva nuda, il re
non esitò a donare all’artista la fanciulla, famosa per la sua bellezza. Come
pittore di corte, Apelle contribuí a creare un’arte aulica, adatta a diffondere
l’immagine del nuovo potere regale. Sua è infatti l’iconografia dell’apoteosi
del sovrano, con l’Alessandro portatore di fulmine, di cui conosciamo una
replica dalla Casa del fauno a Pompei. E sua è anche una delle piú celebri
rappresentazioni allegoriche dell’antichità, la Calunnia, un dipinto
minuziosamente descritto da Luciano che Apelle eseguí ad Alessandria e con il
quale si dice abbia alluso ai suoi difficili rapporti con la corte del re
Tolomeo. Di Apelle la critica esaltava l’«ingegno», ossia la capacità di
invenzione, e la «grazia», cioè la concezione soggettiva del bello, che poteva
anche non coincidere con l’ideale tradizionale di un’esecuzione portata
all’ultimo compimento. La Charis che si conservava nell’Odèon di Smirne era una
sorta di manifesto dell’ideale estetico di Apelle: rappresentava la Grazia
(Charis) insieme con Kairos (il «momento opportuno») e Akmè (la «fioritura»),
intendendo cosí affermare, nell’ambito di un’estetica venata di sfiducia
nell’oggettiva insegnabilità dell’arte, che l’artista poteva attingere la
«Grazia» solo se il suo ingegno gli consentiva di operare una scelta opportuna.
Apelle fu anche celebrato per alcuni ritrovati tecnici, quali l’atramentum, una
sorta di vernice trasparente a base di nero che egli stendeva sulla superficie
dei suoi quadri una volta che erano finiti, ottenendo con questo accorgimento
il duplice effetto di difendere la pittura da polvere e sporcizia e di dosare
la luminosità dei colori, smorzandone i toni troppo accesi. Ezione è un altro
dei pittori che dipinsero per i reali di Macedonia. Egli è ricordato
soprattutto per un quadro che raffigurava le Nozze fra Alessandro e Rossane,
descritto da Luciano, e di cui restano alcune versioni semplificate. Il
dipinto, che al pari della Calunnia di Apelle forní lo spunto per numerose
rivisitazioni del tema in età rinascimentale, già in età antica fu il prototipo
di un genere artistico cui apparteneva, tra l’altro, il modello perduto delle
cosiddette Nozze Aldobrandini, pitture murali rinvenute a Roma ai primi del
Seicento e copiate da artisti come Rubens, Van Dyck e Poussin. Un parallelo in
pittura all’esasperata drammaticità del barocco pergameno, che produsse
capolavori della scultura come il famoso donario di Pergamo e forse come lo
stesso Laocoonte, è costituito dai dipinti di Teone, vissuto nell’età dei
Diadochi, che predilesse soggetti con personaggi in preda a emozioni e passioni
violente (guerrieri assetati di stragi, Oreste folle, Tamiro disperato).
Di una
generazione precedente e coetaneo di Apelle fu invece Protogene, al quale le
fonti attribuiscono i primi ritratti non idealizzati e attenti invece a
riprodurre la fisionomia dei personaggi e un’accanita minuziosità nel
compimento delle proprie opere che proprio per questa ragione non furono
numerose. Nel iii e ii sec. a. C. i pittori ellenistici spinsero alle estreme
conseguenze le ricerche spaziali e cromatiche avviate nel periodo classico.
Conquista della prospettiva lineare, impiego diffuso del chiaroscuro per
costruire forme e volumi e perfino di una pittura a tocchi compendiari, di tipo
impressionistico, sono le caratteristiche che troviamo negli affreschi
pompeiani, ispirati alla grande pittura da cavalletto dell’Oriente ellenico, e
anche sulla ceramica dipinta di questo periodo, i cui principali centri
produttori sono Centuripe, Egnazia, Alessandria. Un influsso determinante fu
certamente quello esercitato dalla scenografia teatrale. Vestigia
architettoniche indicano che parecchi teatri, ad esempio a Priene e ad Efeso,
furono costruiti o ricostruiti nel ii sec. a. C. con accorgimenti che
consentivano l’impiego di grandi quinte dipinte, inserite nelle aperture del
boccascena.
Ad esse si
ispira tutta una serie di decorazioni parietali, uno splendido esempio delle
quali ci è offerto dalle pitture della villa di P. Fannio Sinistore a
Boscoreale. La facciata monumentale di una tomba scoperta a Lefkadià, in
Macedonia, consente di cogliere, intorno al 300 a. C., i presupposti di quella
decorazione illusionistica di tipo architettonico che tanta fortuna avrà per
tutta l’età ellenistica, anche in area romana. La facciata presenta due ordini
sovrapposti, uno dorico e uno ionico, sormontati da un frontone triangolare. In
parte è scolpita nella roccia calcarea, in parte è in stucco a mezzo rilievo e
in parte è dipinta, in modo da simulare una ricca decorazione architettonica,
compreso un fregio con una centauromachia. Il carattere illusivo è accentuato
dal fatto che non vi è alcuna corrispondenza fra tale prospetto esterno e gli
spazi interni della tomba. Se la tomba di Lefkadià mescolava nella simulazione
il rilievo architettonico e la pittura murale, le decorazioni parietali negli
interni degli edifici di Delo, Priene, Magnesia si servono del solo strumento
della pittura per fingere immaginarie architetture, imitando abilmente i
diversi materiali preziosi dei rivestimenti.
Negli stessi
anni o poco dopo pitture analoghe compaiono sulle pareti degli edifici di Roma
e Pompei, dando vita a quel tipo di decorazione che ancor oggi si usa
classificare come primo stile pompeiano. Sono ormai gli anni in cui l’influenza
di Roma si è estesa a tutto il Mediterraneo, creando le condizioni per scambi
sempre piú intensi fra le diverse aree e di conseguenza una sempre piú diffusa
omogeneità di linguaggio nelle arti figurative.
TUTTE LE FOTO QUI:
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