L’alfabeto
greco è lì, coi suoi ventiquattro segni riprodotti sui libri di testo e sui
siti internet. Alfa, beta, gamma, delta, epsilon, ecc. ecc. Quando si inizia a
studiare una lingua generalmente non ci si pone molte domande su ciò che si sta
apprendendo. L’insegnante dice che l’alfabeto è quello, dunque si impara così e
basta.
24/10/2017
Questo articolo in breve:
L’alfabeto greco non nasce come lo conosciamo oggi, ma ha una lunga storia
Derivazione dell’alfabeto greco da quello fenicio
Le ultime cinque lettere dell’alfabeto sono un’aggiunta dei Greci
Distinzione tra u vocalica e semivocalica
L’introduzione dei segni complementari: importante spia storica
L’ultima esigenza: distinguere vari tipi di o
In realtà
ogni lettera dell’alfabeto greco, prima di essere incasellata nelle griglie che
conosciamo, ha alle spalle una storia lunga anche secoli. Lo stesso segno è
stato usato per suoni diversi, con un tracciato mutevole, oppure anche non
impiegato affatto in molte città. Fare la storia dei singoli grafemi significa
immedesimarsi nelle difficoltà dei Greci di duemilacinquecento anni fa:
legislatori, poeti, funzionari che si sforzarono di forgiare uno strumento
efficace, col quale mettere per iscritto il loro pensiero.
Alfabeto
greco e alfabeto fenicio
L’alfabeto
greco fu un’innovazione straordinaria mutuata dai Fenici. Furono infatti questi
ultimi che riuscirono per primi a trascrivere la loro lingua grazie all’impiego
di pochi simboli. I Fenici furono i signori del commercio e del Mediterraneo
per svariati secoli; i Greci, ammirando la loro abilità ed organizzazione,
capirono ben presto che quell’invenzione delle lettere era qualcosa di
dirompente e la assimilarono. Tale acquisizione è già accertata a partire
dall’VIII secolo a.C.
L’alfabeto
fenicio era costituito da poco più di venti
lettere, con le quali era trascritta una lingua semitica piuttosto
diversa da quella greca, indoeuropea. Ciò significa, anzitutto, che i Fenici
avevano dei suoni che i Greci non usavano. Per comprendere, basti pensare alle
diverse aspirate presenti in arabo ed assenti in italiano, ovvero al suono di u
francese, anch’esso assente in italiano. I Greci dovevano dunque decidere cosa
fare dei segni che a loro non servivano.
All’opposto,
naturalmente, c’erano dei suoni importanti
nella lingua greca e sconosciuti ai Fenici. Per questi ultimi si poteva
ricorrere al reimpiego di segni non usati, oppure creare nuovi segni ex novo.
Le ultime
cinque lettere dell’alfabeto greco
Il primo
adattamento dell’alfabeto fenicio aveva prodotto un alfabeto greco che si
arrestava alla lettera tau (τ). Successivamente furono aggiunte alla coda
di quell’alfabeto due vocali e tre consonanti, per risolvere dei problemi
diffusi per i parlanti greci. Tali lettere erano, nell’ordine, hýpsilon (υ, Υ), phi (φ, Φ), chi (χ, Χ), psi (ψ, Ψ) e oméga (ω, Ω).
Anzitutto un
segno per la u
La prima
esigenza fu quella di trovare una sistemazione per il timbro vocalico “u”.
L’alfabeto fenicio conosceva un segno per indicare la u semivocalica, cioè quel
suono che sta a metà strada tra una vocale e una consonante (come per es. nelle
parole italiane uomo, cuoco). Tale suono occupava la sesta posizione
dell’alfabeto e si chiamava waw. I primi Greci che adottarono le lettere
fenicie mantennero quel suono e quella lettera, nella medesima posizione, ma la
modificarono graficamente; ne nacque la lettera che successivamente i
grammatici avrebbero chiamato digamma, a causa della forma di un doppio gamma
maiuscolo (ϝ).
Come
facciamo a sapere che le cose andarono così? Abbiamo la fortuna di possedere
due alfabetari arcaici: si tratta di due iscrizioni, risalenti al VII secolo
a.C. e ritrovate a Marsiliana d’Albegna (Grosseto) e nel santuario di Era
sull’isola di Samo. In entrambi questi casi al sesto posto troviamo il digamma.
Tavoletta di
Marsiliana d’Albegna (senso scrittura da destra a sinistra)
A quel punto
serviva però un’altra lettera per indicare la u vocalica (ricorrente per es.
nell’italiano muro, puro). La soluzione fu di inserire un nuovo segno dopo il
tau. Fu così che nacque la hýpsilon. Questa lettaera in origine era pronunciata, appunto, come la
u di muro. Il passaggio alla u “francese”, come la pronunciamo noi oggi, fu
un’innovazione del dialetto ionico-attico.
Secondo
l’illustre studiosa Margherita Guarducci, sia digamma che hýpsilon non
sarebbero altro che variazioni grafiche dell’originario segno fenicio waw,
sdoppiato per rispondere alle esigenze dei Greci.
Accadde poi,
gradualmente, che la u semivocalica (digamma) fosse sempre meno sentita dai
Greci, che finirono per confonderla con la u vocalica. Fu così che il digamma
scomparve progressivamente dagli alfabeti delle città greche.
Kirchhoff e
la storia dei segni complementari
Sistemata la
u, o meglio le u, i Greci affrontarono il problema di quattro suoni per loro
molto importanti, ma non presenti nell’alfabeto fenicio. Si trattava di due
consonanti aspirate (ph, ch) e di due nessi consonantici molto comuni (ks, ps).
La sistemazione di queste lettere creò grande confusione e fu risolta nei modi
più disparati nelle varie regioni del mondo greco. Il risultato fu la
proliferazione di alfabeti diversi. Per fare un esempio, ad Atene ancora nel V
secolo a.C. la csi e la psi erano trascritte con i nessi ΧΣ (chi +
sigma) e ΦΣ (phi + sigma), non con i segni csi
(ξ, Ξ) e psi (ψ, Ψ) che siamo abituati a vedere nei testi moderni.
A gettare
luce su questo caos, è stata un’opera fondamentale pubblicata nel 1887 dallo
studioso Adolph Kirchhoff. Quest’ultimo, esaminando le iscrizioni e gli
alfabeti arcaici delle varie città greche, riuscì a rintracciare delle costanti
nel trattamento dei quattro segni in questione. Si potevano identificare
precise aree geografiche che corrispondevano alla diffusione di una soluzione
piuttosto che un’altra.
Kirchhoff
creò così una cartina nella quale usò quattro colori per distinguere le diverse
strategie di scrittura impiegate:
Verde:
alfabeti ancora privi di segni complementari.
Azzurro
scuro: utilizzo di Φ, Χ, Ψ, Ξ col valore rispettivo di ph, ch, ps, ks;
Azzurro
chiaro: utilizzo di Φ, Χ col valore di ph, ch. Mancano segni
specifici per ps e ks, per i quali si usano per lo più i nessi ΦΣ e ΧΣ.
Rosso:
utilizzo di Φ, Χ, Ψ col valore di ph, ks, kh. Manca un segno per ps, generalmente espresso con
ΦΣ.
Logicamente
i nuovi segni furono aggiunti nei vari alfabeti dopo quelli già sistemati,
ovvero dopo la hýpsilon. Per quanto riguarda la csi (ξ, Ξ), in realtà
non venne aggiunta una nuova lettera ma si cambiò destinazione a una lettera
fenicia inutilizzata. Tale situazione di confusione perdurò fino alla fine del
V secolo a.C. quando la capitale della cultura greca, Atene, decise con un
editto ufficiale (403 a.C.) di adottare quello che noi chiamiamo alfabeto
“azzurro scuro”, il quale sembrava più funzionale degli altri. Da allora
quell’alfabeto si impose ovunque e divenne il modello della scrittura greca
come noi la conosciamo.
Omega,
l’ultima arrivata
L’ultima
aggiunta nell’alfabeto greco fu la lettera oméga (ω, Ω). Alla base
c’era l’esigenza di distinguere la o chiusa (quella per es. dell’italiano
colto, nel senso di istruito) dalla o aperta (come nell’italiano colto, nel
senso di raccolto); oltre a ciò il greco voleva trascrivere anche la differenza
di durata di quelle vocali, poiché, a differenza dell’italiano, sentiva la
differenza tra vocali lunghe e brevi.
Anche in
questo caso i risultati furono disparati nelle varie comunità greche. Molte
città non notarono affatto la differenza e usarono la ómicron (ο, Ο) per la o
breve chiusa, la o lunga chiusa e la o lunga aperta (la o breve aperta non
esiste).
Tuttavia il
problema era sentito da molti parlanti, cosicché si svilupparono, anche qui,
varie strategie. Spesso venne usata la ómicron (ο, Ο) per la o
chiusa (sia lunga che breve), mentre venne creato un nuovo segno, oméga per la o lunga aperta. Il nuovo grafema
venne ottenuto aprendo il cerchio della ómicron e inserendo due appendici. (Ο → Ω). Non
mancarono però casi (Paro, Taso) in cui Ο venne usata
per la o lunga aperta (quella che noi conosciamo come oméga) e Ω per la o
chiusa, sia lunga che breve. Anche qui, bisognerà attendere la definizione
dell’alfabeto ateniese perché la grafia si stabilizzi in quella giunta fino a
noi.
Fabio Copani
Dottore di
ricerca in Storia Greca
Insegnante
corsi greco antico per principianti
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