Nella Grecia
antica i filosofi volevano eliminarle ma Omero e le tragedie le hanno celebrate.
Giuseppe
Conte - Mer, 29/11/2017
Gli antichi
Greci, che senza nessun supporto tecnologico giunsero a sviluppare una
conoscenza così profonda delle cose da inventare filosofia, storiografia,
tragedia e infine l'idea di democrazia, mostrarono verso le passioni un
atteggiamento ambivalente.
Da una parte
le videro con Plutarco come cicatrici e lividi dell'anima, come macchie da cui
era necessario che ciascuna anima si purificasse: le macchie scure erano
effetto della avarizia e della cupidigia, quelle rosse della crudeltà e della
ferocia, quelle gialle della sottomissione al piacere, quelle violacee della
malvagità e dell'invidia. La loro filosofia, dal Platone della Repubblica e da
Aristotele sino agli epicurei e agli stoici, condannava le passioni: Platone
giunse anche ad espellere dalla sua comunità ideale la forma d'arte in cui esse
più liberamente si esprimono, che è la poesia. E dall'altra parte le divinità
del loro politeismo, per la prima e unica volta nella storia della nostra
civiltà, esprimevano e glorificavano tutte le passioni, le più sublimi ma anche
le più violente, quelle che oggi fanno inorridire i modesti cultori della
correttezza politica delle università americane, dove è stato persino proposto
di mettere le braghette a eroi e eroine delle Metamorfosi di Ovidio.
Per capire come
i Greci concepirono le passioni, può oggi fare da guida il saggio di Giulio
Guidorizzi, I colori dell'anima. I Greci e le passioni (Raffaello Cortina,
pagg. 238, euro 19). L'Iliade, e in misura minore l'Odissea, hanno come rumore
di fondo quello delle più travolgenti passioni. A cominciare dall'ira (ménin),
parola con cui comincia il poema omerico dove giganteggia Achille, capace di
sentire le passioni nella loro forma più elementare e dirompente: l'ira da una
parte, che lo porta a fronteggiare il capo supremo Agamennone, a coprirsi di
cenere la testa e a sfigurarsi il volto alla morte di Patroclo, a straziare
orrendamente il cadavere di Ettore, ma dall'altra parte la sofferenza, il
pianto, la pietà, con la quale riceverà il vecchio Priamo nella sua tenda e gli
restituirà la salma del figlio. Tutto è gigantesco in Achille: le passioni in
lui non sono un semplice stato d'animo, ma un soffio vitale, simile a quello
che percorre dalle origini la materia dell'universo. Ulisse, al suo confronto,
ha passioni più sottili, che devono confrontarsi con la parte razionale di se
stesso. Ma anche lui, «il molto accorto», l'eroe paziente e dalla mente astuta,
prova la potenza dell'ira quando la notte prima della vendetta sui Proci li
vede banchettare e giacere con le ancelle della sua reggia di Itaca, e la
dolcezza della pietà e del pianto, quando ritrova il padre Laerte.
Agli eroi
omerici, estranei a ogni interiorità, succedono quelli della tragedia, che sono
tratti dallo stesso materiale mitologico di Omero, ma prendono una diversa
consistenza, più auto-consapevole, vivendo dentro di sé una lotta aspra tra la
libertà e la necessità, tra gli impulsi individuali e la legge. Sono molti
personaggi femminili a incarnare le passioni più distruttive: odio, vendetta,
gelosia, terrore. Proprio quelle da cui Aristotele sostiene che bisogna
liberarsi, attribuendo alla tragedia una funzione catartica. Pensiamo a Medea,
che arriva a uccidere i figli per vendicarsi dell'abbandono di Giasone, a
Clitennestra, che sacrifica il marito Agamennone, a Fedra, accecata dall'amore
per Ippolito, a Antigone, che contrappone la legge primigenia del sangue a
quella della sua città e della storia.
Ma l'eroe in
cui le passioni più si affollano è Edipo: in lui vediamo ira, aggressività,
volontà di potere, voluttà di annientamento e auto annientamento: anche se la
sua passione più forte, e la più nuova, è per lui quella della conoscenza,
l'ansia e la brama di sapere. Con essa ha risolto l'enigma della Sfinge. Invece
è proprio nel buio del non sapere che ha ucciso Laio, suo padre, e che si è
unito incestuosamente con Giocasta, sua madre. Quel buio lo dà ai suoi occhi
accecandosi con una fibbia della veste di Giocasta suicida. Si punisce, ma
tutto il male che ha commesso lo ha commesso senza saperlo, è innanzi tutto una
vittima: e in lui la potenza dell'inconscio diventa coscienza.
La passione
più oscura e travolgente, sin dalle origini dell'universo, è per i Greci quella
di Eros, che nasce da Chaos, vortice primigenio della materia che non ha ancora
forma. Poi, come racconta Esiodo nella Teogonia, vengono la Terra, Gea, e il
Cielo, Urano, congiunti dalla incommensurabile energia erotica del loro coito.
Il delitto cosmico di Crono, che vive chiuso nelle viscere di Gea sinché lei
gli chiede di evirare il padre, schiude tutte le diverse forme che la vita
prende sul pianeta: e dal fallo di Urano gettato in mare, dal suo seme e dalla
spuma nasce Afrodite, la dea della generazione, della rinascita primaverile e
dell'amore. È Afrodite, «tessitrice di inganni», che spinge Elena ad
abbandonare la famiglia per seguire Paride, obbedendo a quella «dolceamara
invincibile belva» che secondo Saffo è l'amore. A cui, nel Fedro e nel
Simposio, anche Platone paga il suo tributo, riconoscendogli quella potenza,
oscura, vivificante, meravigliosa, vicina alla follia, che i poeti non hanno
mai smesso di cantare.
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