Konstantinos (Costantinos) Kavafis (gr. Κωνσταντῖνος Καβάϕης), nacque a
Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e morì nell’ospedale greco San Saba di
Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1933. Trascorse ad Alessandria la maggior
parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte (nel 1901, 1903 e
1932). Il greco, la sua lingua poetica, lo dovette reimparare durante
l’adolescenza.
Kavafis vivendo in una città di mare, meta di viaggiatori ed emigranti in
cerca di fortuna, si trovò in un felice crogiuolo di incontro tra persone di
diverse culture. In Europa, in campo poetico, dominavano i simbolisti francesi,
in Egitto vi era la grandissima e mirabile tradizione della poesia araba e per
ragioni familiari Kavafis era vicino anche alla poesia ellenica di Omero,
Saffo, Alceo, Anacreonte.
Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici
d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia.
In un primo tempo, compose i suoi versi in una lingua epurata ma dopo il
1903 si rivolse al parlato, arricchito di forme dialettali di Costantinopoli e
di parole tratte dalla tradizione classica.
Le sue liriche pubblicate postume nel 1936, si possono suddividere in due
gruppi: quelle scritte prima del 1910, che risentono dell’influenza dei
parnassiani e dei simbolisti, e quelle che, composte dopo il 1910,
rappresentano la parte migliore della sua produzione. Formatasi al di fuori della
tradizione, la sua opera segna una reazione agli ideali cantati da Palamas.
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
Per Kavafis sono false le utopie delle grandi ideologie, sono falsi gli
idoli della civiltà, è falsa la morale sessuale borghese; la verità non
localizzata e temporalizzata nel corpo di un individuo non è verità ma
menzogna. Vero è solo ciò che si può osservare da nessun luogo. Vero è il luogo
del corpo. Kavafis guarda con sfiducia e sospetto alla cultura del suo tempo
che si stava avviando alla più grande carneficina della storia. Per Kavafis
l’uomo non è veramente umano se non è fedele ad un punto di vista che ha sede
nel corpo. Allo stesso tempo, l’uomo non può disertare il suo posto, che però è
sempre relativo, in tutte le epoche e in tutte le civiltà. Kavafis resta fedele
all’unica certezza: alla dimensione individuale vitale, relativistica e
prospettivistica; nella sua visione poetica il gesto definitivo non occupa
alcun posto, c’è solo la prospettiva vitale che può dare un senso alla storia
individuale e sociale. Per il poeta alessandrino la verità può essere soltanto
una verità vitale e parziale, legata ai nostri sensi e ai nostri umori e alla
nostra esistenza. Di conseguenza, sfiducia totale nella storia e sfiducia
totale nelle ideologie della sua epoca e predilezione per una utopia
rovesciata, la pittografia di una Alessandria astorica, irreale, pagana,
nutrita dei fasti di un lontanissimo passato. È una Alessandria immaginaria,
che non esiste, quella di Kavafis, frutto di una potente carica visionaria e
fantastica. La fama di Kavafis comincia a diffondersi ad opera di Edward Morgan
Forster, autore di romanzi piuttosto come Camera con Vista, Casa Howard, e
Maurice, dai quali sono stati tratti film di successo. Forster lo incontrò ad Alessandria, e fece
pubblicare alcune sue poesie tradotte in inglese sulle riviste londinesi.
Seguirono altri ammiratori illustri, come W.H.Auden, T.S.Eliot, Marguerite
Yourcenar, e diversi italiani, tra cui Ungaretti, nativo di Alessandria
d’Egitto.
Trovo limitativa la definizione della lingua poetica di Kavafis come
«caotico universo linguistico» di Pier Paolo Pasolini, grande ammiratore di
Kavafis, soprattutto per quella parte della sua opera poetica dedicata all’eros
efebico. Il poeta alessandrino disegna invece una utopia all’incontrario, una
Alessandria d’Egitto che non esiste.
Nella poesia di Kavafis sorge per la prima volta nella poesia europea il
mito dell’Efebo. Una sorta di Antinoo dei suburbi della città, poiché tutte le
vicende delle sue poesie si svolgono in una Alessandria levantina, ricca di
luci soffuse e di ombre. Il corpo oggetto d’amore è sempre quello di un
giovane, del quale Kavafis quasi sempre fa scivolare nella poesia, come per
caso, l’età efebica. Si avverte nettamente una nostalgia, un rimorso, un
ricordo di un amore del lontano passato ormai irraggiungibile.
Il tavolo vicino
Avrà ventidue anni appena.
Ma – altrettanti anni fa – son certo
d’averlo goduto quello stesso corpo.
Non è affatto eccitamento d’amore.
Ero entrato da poco nel Casino;
per bere molto non avevo tempo.
Lo stesso corpo io l’ho goduto.
E anche se non rammento dove – un’amnesia che conta?
Ecco, ora che siede al tavolo vicino
riconosco ogni gesto – e sotto i suoi vestiti
rivedo nude quelle membra amate.
Il sole del pomeriggio
Questa camera, come la conosco!
Questa e l’altra, contigua, sono affittate, adesso,
a uffici commerciali. Tutta la casa, uffici
di sensali e mercanti, e Società.
Oh, quanto è familiare, questa camera!
Qui, vicino alla porta,
c’era il divano: un tappeto turco davanti,
e accanto lo scaffale con due vasi gialli.
A destra… no, di fronte… un grande armadio a specchio.
In mezzo il tavolo dove scriveva;
e le tre grandi seggiole di paglia.
Di fianco alla finestra c’era il letto,
dove ci siamo tante volte amati.
Poveri oggetti, ci saranno ancora, chissà dove!
Di fianco alla finestra c’era il letto.
E lo lambiva il sole del pomeriggio fino alla metà.
…Pomeriggio, le quattro: c’eravamo separati
per una settimana… Ahimè,
la settimana è divenuta eterna.
Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(1911)
Una notte
Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
E là, sul vile, miserabile giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
ditale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.
Ogni tanto lui giura
Ogni tanto lui giura
di cominciare una vita migliore.
Ma quando viene la notte a tentarlo
con le promesse e con le sue lusinghe,
ma quando viene la notte che domina
la carne, a quei piaceri consueti
del corpo che desidera, che vuole,
perdutamente ancora s’abbandona.
Sulle scale
Mentre scendevo l’ignobile scala,
tu entrasti dalla porta e per un istante
vidi il tuo volto sconosciuto e tu vedesti me.
Subito mi nascosi per non farmi vedere di nuovo e tu
passasti rapido nascondendo il volto
e ti infilasti nell’ignobile casa
dove non avresti trovato il piacere,
così come non l’avevo trovato io.
Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti,
l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi
stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi.
I nostri corpi si avvertirono e si cercarono,
il sangue e la pelle intuirono.
Ma noi, turbati, ci eclissammo.
Aspettando I Barbari
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
(1908)
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
Dal cassetto
Volevo appenderla a un muro della stanza.
Ma l’umidità del cassetto l’ha guastata.
Non la metto in un quadro questa foto.
Dovevo conservarla con più cura.
Queste le labbra, questo il viso…
ah, per un giorno solo, per un’ora
solo tornasse quel passato.
Non la metto in un quadro questa foto.
Mi fa soffrire vederla così guasta.
Del resto, se anche non fosse guasta,
che fastidio badare a non tradirmi…
una parola, o il tono della voce…
se mai qualcuno mi chiedesse chi era.
Per quanto sta in te
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea
Candele
Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
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