Ieri Matteo
Orfini ha affermato che M5S e Lega sono “antitetici alla sinistra”. Se ciò che
il buffo presidente del Partito Democratico intendeva indicare con la parola
“sinistra” sono le politiche praticate da tutte le varianti del centrosinistra
dell’ultimo ventennio (cioè dei governi di Romano Prodi, passando per il
sostegno al governo Monti, fino agli ultimi governi guidati da Renzi e poi da
Gentiloni) c’è solo da preoccuparsi ed attrezzarsi per avversarla e combatterla
questa “sinistra”, perché è esattamente quella cosa che ha prodotto la più
grande e grave soppressione diritti sociali degli ultimi settant’anni nel
nostro pase.
Ma eccola là
la nuova frontiera della “sinistra” europea, il paradigma greco che ora viene
agitato come modello per l’Italia e gli altri “Pigs”: “La crescita della Grecia
ha doppiato quella dell’Italia” titola il renzianissimo Linkiesta.
A che
prezzo? Un punto di PIL in più in cambio di milioni di persone che non arrivano
nemmeno alla metà del mese, che non vengono più curate e che vengono buttate
fuori dalle loro case ipotecate da banche tedesche e francesi.
Se un tempo
l’oggetto della parola “sinistra” era il “popolo”, le sue aspirazioni di
uguaglianza, emancipazione e riscatto, ebbene, oggi, seguendo la lezione di
Saussure o di un Lacan, non possiamo fare a meno di osservare che la parola
“sinistra” nel linguaggio comune, è ridotta ad un significante vuoto, perché
priva ormai di una qualsiasi relazione con il contesto storico e simbolico che
ne ha determinato il significato per circa un secolo e mezzo.
In fondo la
Grecia è stata il vero laboratorio di questa trasformazione definitiva ed
Alexis Tsipras si è via via trasformato in un esecutore fedele dei diktat che
inizialmente aveva tanto osteggiato; e la sua statura politica, tanto osannata
in certi ambienti della “sinistra residuale” italiana alla ricerca di un papa
straniero, alla lunga, si è dimostrata irrilevante, perché la sua iniziativa è
stata pressoché annullata da Bruxelles, che ha ignorato completamente la
volontà popolare espressa nella grandissima prova democratica del referendum
del 2015 facendo commissariare dalla Troika il paese ellenico ribelle proprio contro
quel risultato e contro quella volontà.
Qualcosa che
assomiglia molto alla palude post-elettorale cui stiamo assistendo in questi
giorni in Italia. Il voto ha espresso una maggioranza fortemente critica nei
confronti dell’Unione Europea e tuttavia ogni cosa sembra cospirare contro la
possibilità che si formi un esecutivo in grado di rappresentare questo
orientamento. Nonostante le rassicurazioni, i viaggi alla City e le improvvise
professioni pro-UE, Di Maio non è riuscito a far dimenticare la storia anche
recentissima del suo movimento che ha espresso, fino all’altro ieri, posizioni
radicalmente critiche nei confronti dell’euro; e non è un caso che Beppe Grillo
abbia ritirato fuori, proprio in questi giorni, la proposta di farci su un
referendum.
Quanto
all’altra formazione “antisistema” che è uscita vincente dalle elezioni,
Salvini appare incatenato a Berlusconi per i noti guai finanziari e giudiziari
della Lega ed ha preferito ripiegare sull’obiettivo di capitalizzare a suo
favore il declino di Berlusconi.
E così,
com’era abbastanza prevedibile, si prospetta un governissimo del Presidente che
in teoria dovrebbe occuparsi soltanto di approvare una nuova legge elettorale
che favorisca la “governabilità” ma che, in pratica, servirà a fare la
famigerata manovra correttiva da almeno 30 miliardi di cui almeno 12 per la
riduzione del deficit richiesti dall’Unione Europea. Sullo sfondo c’è la fine
del mandato di Mario Draghi alla guida della BCE e l’annunciata chiusura del
Quantitative Easing .
Ma non
finisce qui: una probabile impennata dello spread insieme allo spauracchio
delle “clausole di salvaguardia” sarebbero la scusa perfetta per prolungare la
vita di un governo tecnico che azioni il famigerato “pilota automatico” con cui
Bruxelles si assicurerebbe che il nostro paese rispetti il Fiscal Compact,
continuando a tagliare tra i 50 ed i 60 miliardi di spesa pubblica all’anno per
mantenersi in linea con gli obiettivi prefissati di “ riduzione del deficit”.
Dunque,
tutto lascia presagire che sia proprio l’Italia il prossimo paese candidato a
fare da laboratorio, su più vasta scala, delle rigide politiche di austerity
che hanno ridotto la Grecia ad una landa in cui l’unica protezione sociale ai
suoi cittadini è quella che viene offerta dal volontariato e dalle
organizzazioni di base.
Se la parola
“sinistra” nel discorso pubblico ha assunto questo significato, certamente
opposto a quello che le era attribuito un tempo, c’è da temere seriamente che
tutte le repubblichette di Weimar che useranno come foglie di fico per
nascondere le politiche di rigida austerity e di smantellamento dello stato
sociale imposte dalla #Troika verranno, prima o poi, fatalmente, travolte dai
sempre più estesi movimenti reazionari di massa di cui l’Europa, ahimè, è già
piena.
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