«La
settimana scorsa sono riuscito ad arrivare al porto di Venezia. La polizia di
frontiera italiana mi ha fatto scendere dal camion, mi ha chiuso in una stanza,
mi ha chiesto nome, età, nazionalità e mi ha rispedito indietro sulla stessa
nave con la quale ero arrivato. Ed eccomi qui di nuovo, a dover ricominciare il
viaggio».
A Patrasso
l’umanità sa di fabbriche abbandonate e di vecchi edifici consumati dal tempo e
dalla storia dove circa 400 ragazzi afghani e pachistani hanno trovato rifugio.
Vivono in stanze pericolanti, in case di cartone, in tende della Quechua,
arrotolati nei loro sacchi a pelo. Samir è arrivato a Patrasso quattro mesi fa,
attraversando a piedi il fiume Evros, che segna il confine terrestre tra
Turchia e Grecia. Ha lasciato l’Afghanistan 22 mesi fa, quando aveva 18 anni,
perché ricercato dai talebani. Ha un fratello in Francia e tanti amici in
Italia.
Dopo la
chiusura della rotta balcanica e l’accordo tra Unione Europea e Turchia a marzo
2016, Patrasso è tornata ad essere una delle principali tappe per arrivare in
Italia, l’ennesimo confine da superare per raggiungere l’Europa che conta. Non
solo per gli afghani e i pachistani ma anche per i tanti algerini e marocchini,
che hanno più facilità ad ottenere un visto per la Turchia e a proseguire,
affidandosi ai trafficanti, fino in Grecia, piuttosto che intraprendere il
viaggio via mare verso la Spagna.
"We want to go to Italy. Every day we play the game".
Ogni giorno
sono centinaia i ragazzi che provano il “gioco” con la polizia: saltano
l’inferriata d’ingresso al porto, proprio davanti alle fabbriche dove vivono,
nel tentativo di infilarsi nei camion diretti in Italia. Spesso però il loro
viaggio finisce prima ancora di raggiungere la nave. Quando la polizia li
prende, vengono picchiati. Alle mani, alla testa. Ai piedi. C’è chi ha
cicatrici ai polsi, chi ha una benda sul collo, chi fa fatica a camminare, chi
ci mostra le ferite del manganello sull’avambraccio.
«Il problema
è quando veniamo feriti alle gambe perché siamo costretti a rimanere fermi per
giorni. La polizia lo sa bene e prende la mira di proposito». Adnan zoppica
vistosamente, è stato picchiato pochi giorni fa con un manganello mentre
cercava di nascondersi sotto ad un camion. Per almeno una settimana non potrà
tentare il "gioco" dell’attraversamento del confine. Ha 20 anni, ha
lasciato la sua città, Kunduz, in Afghanistan, due anni fa e dopo aver
attraversato Iran e Turchia ha raggiunto la Grecia in gommone rimanendo
bloccato nell’hotspot di Moria, a Lesbo, per oltre sei mesi. Destinazione
Italia, dove vuole chiedere protezione internazionale e dove sogna di lavorare
in un ristorante proprio come faceva nel suo Paese.
Eppure,
l’Italia, dai racconti delle persone incontrate a Patrasso, continua, in
silenzio, a respingere. Minorenni, maggiorenni, trovati dentro e sotto i tir
nei porti italiani, vengono imbarcati sulla stessa nave dalla quale sono
venuti, spesso senza che venga nemmeno rilasciato loro un documento che attesti
il respingimento. Si tratta di pratiche illegali per la quale il 21 ottobre
2014 la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nel caso denominato Sharifi e
altri contro l’Italia, ha condannato il nostro Paese per aver respinto
indiscriminatamente un gruppo di richiedenti asilo verso un Paese “non sicuro”.
Un caso iniziato nel 2009 da alcune associazioni veneziane dopo la morte di
Zaher Rezai, un ragazzo afghano, che per paura di essere scoperto dalla polizia
di frontiera al porto di Venezia, è rimasto attaccato sotto al tir fino a
quando non ce l’ha più fatta, ed è scivolato a terra venendo travolto dal
camion alla periferia di Mestre. Eppure in molti porti italiani, di sempre più
difficile accesso e monitoraggio da parte delle associazioni locali, i
respingimenti non si sono mai fermati. Da Patrasso tutto appare più chiaro: che
l’Italia respinga è noto a tutti, ma il fatto che qualcuno riesca comunque ad
arrivare, tiene viva la speranza.
«Due mesi fa
circa sono salito su una nave diretta a Bari. Era la prima volta che arrivavo
in Italia. Quando abbiamo attraccato, sapevo che sarebbe iniziata la parte più
difficile. Mi sono fatto piccolo piccolo nella speranza di non essere visto.
Niente da fare. La polizia mi ha trovato. Mi ha chiuso in una stanza e mi ha
detto di aspettare. Sono arrivati due poliziotti e un traduttore. Ho cercato di
spiegare loro che volevo chiedere asilo in Italia, ma non mi hanno ascoltato.
Cinque minuti dopo, ero di nuovo dentro la stessa nave. Sono stato quasi un
giorno intero senza bere e senza mangiare. Ma ora la strada è una sola, non si
torna indietro. Voglio arrivare in Italia e in Italia arriverò».
Zahid ha 25
anni, è a Patrasso da sei mesi e almeno quattro volte a settimana tenta il
“gioco” al porto. E’ stato ferito più volte dai colpi della polizia e, come
tanti suoi amici, è stato detenuto cinque volte dopo essere stato trovato
all’interno di un tir.
Intanto
nelle fabbriche, in una sorta di dimensione parallela rispetto a quella della
città di Patrasso che si trova a poche centinaia di metri di distanza, la vita
va avanti. Ogni giorno, da circa un anno, l’ong svizzera FoodKind prepara la
colazione e il pranzo per circa 300 persone, mentre i medici volontari
dell’organizzazione tedesca Doc Mobile forniscono assistenza sanitaria, curando
le ferite causate dai pestaggi della polizia greca e fornendo delle medicine
contro la scabbia, malattia praticamente impossibile da eradicare in condizioni
igienico-sanitarie così precarie. E nello stesso tempo, con l’aiuto di varie
organizzazioni locali, tra cui l’associazione Kinisi, monitora quotidianamente
la situazione e le violenze da parte della polizia di frontiera.
La
situazione a Patrasso, come nel resto della Grecia, è destinata a peggiorare.
Nel solo mese di aprile circa 2700 persone hanno raggiunto il Paese via terra
attraverso il fiume Evros e ora in Grecia, secondo i dati dell’UNHCR, ci sono
più di 51.000 tra richiedenti asilo e rifugiati, di cui 11.500 bloccati nelle
isole. E la maggior parte, come Samir, Adnan e Zahid che abbiamo incontrato, se
ne vuole andare. Tuttavia, in questa politica dei confini chiusi, l’unica rotta
a loro aperta è la via dei trafficanti, della violenza da parte della polizia
di frontiera, dei respingimenti illegali.
* Anna
Clementi è presidente dell’APS Lungo la rotta balcanica. Ha lavorato come
operatrice legale e mediatrice culturale presso il Sistema di Protezione per
Richiedenti Asilo e Rifugiati di Venezia. Arabista, ha vissuto per alcuni anni
tra Siria e Palestina occupandosi di giornalismo e collaborando con
associazioni e organizzazioni non governative.
Info:
https://lungolarottabalcanica.wordpress.com/
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