Nel suo
libro dal titolo “Per le nostre radici – Carta d’identità del latino” il
professor Andrea Del Ponte cerca di mettere ordine in quella battaglia
identitaria e culturale che considera il passato retrogrado e nocivo per
l’affermazione del progresso. Nazione Futura lo ha intervistato:
Nel suo
libro cita Ernst Howald, che afferma:
«La rinascita del “classico” è la forma ritmica della storia culturale
europea»: lei quindi mette in relazione l’attuale politica europea con il
distacco dall’essenza della lingua latina e dalla cultura giudaico-cristiana.
Potrebbe spiegare meglio questo rapporto?
Prendendo
come data convenzionale della “nuova Europa” il 1989, anno della caduta del
Muro di Berlino, possiamo ben dire che il trentennio successivo è stato
caratterizzato da una molteplicità di fattori che congiurano tutti,
concordemente, contro le radici culturali della civiltà europea. Il rifiuto di
inserire nella Costituzione dell’Unione Europea un riferimento alle radici
cristiane del continente, l’eliminazione dalla Carta del riconoscimento delle
comuni radici greco-romane e illuministiche, nonché la cancellazione, in ultima
istanza, di un celebre passo di Tucidide nel quale Pericle illustra le
caratteristiche della democrazia, sono ormai concordemente i segni più evidenti
– e altrettanto convenzionali – di una cupa involuzione delle classi europee
dominanti (almeno fino al prossimo 26 maggio), che hanno imposto ai popoli del
Vecchio Continente un regime nel quale si mescolano alcuni dei più letali
veleni per l’homo europaeus: ultraliberismo, laicismo materialistico,
globalismo, mondialismo, multiculturalismo forzato, relativismo, tecnocrazia e
trapezocrazia, più tutta una serie di avversioni contro ciò che è più caro e
sacro alle genti: il territorio, la comunità locale, i prodotti tipici, il
confine, le tradizioni, la famiglia, la natura e l’arte naturalistica, la
lingua e i dialetti, la religione, l’identità nazionale, la continuità fra le
generazioni in termini sia culturali che territoriali. E anche, dunque, contro
quella cultura greca e latina che contiene fortissimi dentro di sé i valori del
logos, del kalòn e dell’agathòn, della ratio ma anche della fides e della virtus.
Sono convinto, come pensava Howald, che si tratti di un’eclisse temporanea e
legata a una sciagurata stagione di glaciazione dell’humanitas, cui
necessariamente – e se ne vedono presentemente già i segnali – dovrà seguire un
moto di rimorso e di rimpianto per quelle fondamenta di pensiero indispensabili
a un vivere secondo dignità e non secondo prezzo.
Secondo lei
ogni volta questa cultura si riafferma in modo diverso? Ogni rinascita è
diversa?
Certamente.
Nessuna cultura può rinascere identica a se stessa, neppure a quel che è stata
nella sua ultima o penultima reincarnazione. Intanto va detto che non esiste
una cultura “classica” né omogenea né monolitica: nei 1300 anni che si
estendono dal Big bang dei poemi omerici (circa 800 a.C.) alla fine del mondo
antico (per me, convenzionalmente, il 529 d.C., quando per volontà
dell’imperatore Giustiniano viene chiusa la Scuola platonica di Atene), la
civiltà greco-romana, estesa dall’Atlantico all’Indo e dalla Britannia all’alto
Nilo, si è espressa con una varietà prodigiosa di voci, di filosofie, di
visioni del mondo. È stata però una pluralità che, a riascoltarla oggi, ci si
presenta come un’armoniosa corale, perché nessuna di quelle cento voci ha mai
tradito lo spirito dell’insieme: o almeno, il misterioso Padre Jorge che di
quella civiltà ha salvato certi libri e non altri ha agito secondo una visione
capace di creare una discordia concors. La rinascita della cultura classica nel
XXI secolo non potrà prescindere dalle innovazioni della civitas technologica
né dal crescente interesse per il pensiero occidentale dell’antichità da parte
delle nuove potenze emergenti in Asia, dalla Cina attraverso l’India fino agli
Emirati. Il recupero in Europa della sensibilità per le humanae litterae potrà
essere trainato da questi nuovi attori sulla scena del mondo. Ex Oriente lux.
Qual è
secondo lei la forza vitale di questa cultura?
L’essenzialità.
La forza della sintesi. La concentrazione del pensiero. L’altissimo peso
specifico che vi ha la parola – ogni parola di un testo sia d’arte sia anche di
uno nato per la comunicazione (lettere, discorsi, arringhe, apologie,
panegirici, invettive…). La capacità di selezionare, di amputare senza pietà
tutto ciò che è superfluo, vano, superficiale. La verticalità delle idee e
dunque dello stile, che incide nella materia con la stessa forza di
penetrazione con cui lo stilo tracciava solchi nella cera o lo scalpello
realizzava lettere nel marmo o nel bronzo. Il senso innato del bello e il
rifiuto del brutto, secondo i principi di un’estetica innata e naturale che la
modernità e la contemporaneità occidentali tentano in tutti i modi, da un
secolo e mezzo, di comprimere, di sconciare. L’attitudine all’armonia, al
ritmo, che dà la cadenza sia alla prosa che alla poesia, e poi coordina ed
educa il pensiero. Il coraggio di affrontare qualunque argomento e di
scandagliarlo, sezionarlo, discuterlo, senza pregiudizi né timidezze, con il
proposito di arrivare non dico alla verità ma a una verità, conquistata tramite
lo strumento peculiare all’uomo, che è la ragione espressa attraverso la
parola. In conclusione, mettere l’uomo al centro di ogni ricerca, di ogni
studio: l’uomo come protagonista e come fine della storia.
Nulla
potrebbe essere più diverso e più lontano dalle bassezze che immiseriscono
l’odierno Occidente: il politicamente corretto, la vuota verbosità, l’assenza
di morale, la disumanizzazione, il rovesciamento delle gerarchie del bello e
del bene.
È possibile
riscontrare questa energia in altre culture moderne o antiche oltre a quella
greco-romana?
Domanda
difficile. Rispondere in modo pertinente significherebbe infatti avere una
conoscenza altrettanto profonda di queste “altre culture moderne o antiche” di
cui andiamo in cerca. Conoscenza che io non ho. Comunque, in base a quel che
so, non ci sono culture che abbiano espresso una propria visione del mondo in
modo altrettanto completo e universale come quella del mondo antico fiorito
attorno al Mediterraneo. Come ho provato a mostrare nell’antologia posta alla
fine del volume, dove presento 21 argomenti dalla A alla Z (da Architettura a
Giardinaggio a Horror a Quantistica) trattati ad altissimo livello da autori
latini, non c’è area dell’umano vivere e sentire che non sia stata analizzata e
descritta dalla civiltà latina perennis in modo da risultare universale. Altre
grandissime culture si sono invece qualche modo specializzate attorno a
tematiche più circoscritte: la spiritualità (l’India), l’onore e la liturgia
dei gesti (il Giappone), il monoteismo (Israele), l’obbedienza al volere di Dio
(Islam).
Lei parla di
colpi di scure e nemici del latino e della cultura giudaico-cristiana. Ci
potrebbe fare un esempio di “nemici” interni ed esterni del latino?
Su questo
argomento si potrebbe scrivere un intero trattato. Cercherò di fare una
sintesi. Non c’è dubbio che la classe politica che ha via via governato
l’Italia dagli anni Sessanta ad oggi porti il maggior peso della colpa di aver
minato la cultura umanistica nel nostro Paese. Una serie ininterrotta di
riforme erronee o punitive ha via via scardinato i principi di base su cui
avrebbe dovuto poggiare solidamente l’edificio dell’istruzione pubblica.
Non starò a
fare qui l’interminabile elenco di questa via Crucis, in cui la parte del
Cristo sofferente è stata ricoperta essenzialmente proprio dal latino, con il
corteggio di alcune aree collaterali ma anch’esse di estrema importanza: la
Storia antica, la Storia dell’Arte, la Geografia, la Filosofia. Mi basti citare
la progressiva eliminazione delle prove selettive d’esame alla fine dei singoli
cicli di studio; l’eliminazione o comunque la svalutazione degli esami di
riparazione; la semplificazione e lo snaturamento dell’esame di maturità;
l’abolizione della bocciatura nei cicli della scuola primaria e secondaria di
primo grado, la sua rarità e difficoltà nel quinquennio finale; la svalutazione
e il depotenziamento del ruolo dell’insegnante; il venir meno della disciplina
e dell’obbedienza intesi come valori; l’incongrua democratizzazione della
scuola con i “decreti delegati” e l’ingresso sempre più invadente dei genitori
nella gestione della scuola e della didattica; l’assemblearismo studentesco; la
politicizzazione a senso unico dell’insegnamento; la distruzione del
centralismo scolastico con l’avvento dell’autonomia di ogni singolo Istituto,
che ha portato a una completa frammentazione del concetto stesso di Istruzione
nazionale. E potrei continuare a lungo su questa linea.
In questo
quadro di estremo disordine, incompetenza, persino sovversivismo, è chiaro che
il latino è stato oggetto di aggressioni che ne hanno reso ben più opaca la
presenza nelle scuole e nelle Università. Via via espulso dalla scuola media,
ridotto a poche tipologie di Istituti, ridimensionato nella sua ampiezza
oraria, marginalizzato infine in una tipologia nobile di Liceo come quello
scientifico, il latino resiste nell’ultima roccaforte rimastagli, il liceo
classico, ma con sempre maggiori difficoltà. È stato e continua ad essere,
assieme al liceo classico, uno dei principali bersagli della feroce lotta
ideologica che ha imperversato nel Paese per decenni almeno sino all’avvento di
Berlusconi, quando il “pollice verso” alla lingua e cultura di Roma è rimasto
ma ha cambiato segno, diventando di matrice aziendalistica e economicistica. È
indiscutibile il fatto che dagli anni Sessanta sino al principio del nuovo
secolo sia stata la Sinistra la peggiore nemica del latino, giudicato una “materia”
classista, borghese, persino “fascista”: da Don Milani, che considerava il
latino uno strumento del dominio di classe, a Luigi Berlinguer, che ancora in
anni recenti predicava “il taglio delle alte palme liceali” e sosteneva che “il
liceo classico ci ha corrotti”, corre un unico filo rosso. Non meglio ha
peraltro agito Matteo Renzi, il distruttore del PD ma anche della scuola
italiana, con una riforma (la cosiddetta “Buona Scuola”, sic!) che fra l’altro,
con il mostro dell’”alternanza scuola lavoro”, ha deposto nel grembo dei licei
una bomba a orologeria che ogni anno esplode facendo vittime fra tutti gli
incolpevoli studenti che vorrebbero prepararsi per l’Università, non
trascorrere come fattorini 200 ore della loro permanenza nel triennio liceale.
I nemici
interni? Sono anch’essi numerosi, alcuni insospettabili, come il famoso
latinista e antropologo Maurizio Bettini. E insospettabile, per i non iniziati,
è pure l’inquietante deep culture di cui si nutre nel silenzio l’Idra che
vorrebbe avvelenare la linfa stessa degli studi umanistici in Italia. Ma di
questo aspetto molto interessante e oscuro non voglio svelare niente qui:
rimando a quel che spiego nel mio saggio a partire da pag. 97.
Lei afferma
che attualmente il concetto stesso di radici viene messo in discussione.
Secondo lei le “radici” e il latino, come anche la cultura giudaico-cristiana,
possono comunque affermarsi nella modernità?
È chiaro che
ogni epoca ha le proprie caratteristiche e che, almeno a partire dalla
rivoluzione industriale nell’Inghilterra del Settecento sino a giungere alla
rivoluzione tecnologico-informatica dei nostri tempi, l’umanità ha imboccato un
cammino che non può avere un ritorno, tranne nel caso deprecabile e non
augurabile di un evento catastrofico che la riporti indietro di millenni. Però
l’uomo, anche quello smartphonizzato che incontriamo per strada e sulla metro –
e che siamo noi stessi – non cessa per questo di interrogarsi su una quantità
pressoché infinita di domande alle quali la tecnologia non può dare risposte
che non siano “orizzontali”, puramente informative. Ad esempio: quale può o
deve essere la mia relazione con la natura, con il mio prossimo, con la
religione, con la salute fisica e mentale, con il male, con la malattia, con
l’ingiustizia, con la nascita e con la morte, con la legge, con la morale, con
i figli…? È possibilissimo trovare simulacri di risposte nelle rubriche
apposite su un sito online, ma chi voglia trovare interpretazioni “verticali”,
reti complesse di pensiero in cui alla ricerca si accompagni l’eleganza e la
sapienza del dire, non potrà che trovarle nella grande letteratura. Italiana,
certo, tedesca, francese o russa, e pure contemporanea: ma se si vorrà risalire
alle fonti, così come si fa per i fiumi, sarà sempre inevitabile tornare indietro
alla parola dei Greci e dei Latini, di cui quasi tutte quelle che sono seguite
sono state repliche o variazioni o aggiunte. Qui l’uomo troverà la ratio e il
logos. Ma se vorrà fare un passo ancora oltre, scavando nel suo io più profondo
alla ricerca dell’anima e del senso del suo esistere nel mondo, non potrà che
approdare alla fides, e dunque alla cultura giudaico-cristiana che non a caso
si intrecciò, a partire dalla fine del mondo antico, al pensiero greco-romano,
creando una nuova potentissima civiltà di cui tuttora sono simbolo, in Europa,
il Duomo di Milano e la Cattedrale di Notre-Dame, la Divina Commedia e The
Paradise Lost, non certo i “tagli” di Fontana o la “merda d’artista” di Piero
Manzoni. Non so se mi spiego.
Nella
società moderna come si potrebbe valorizzare maggiormente questa cultura e
quindi le nostre radici, per trasmetterne l’importanza?
Non c’è
dubbio che nella società della comunicazione istantanea è assolutamente
dominante, per così dire, la “ventosità”, cioè la rapidità, il flusso
velocissimo di parole, immagini, emozioni. Ciò dà luogo a un impressionismo
superficiale e estremamente mutevole che sta agli antipodi della solidità e
della fermezza delle “radici”. Nella filosofia e medicina indiana questa fluida
leggerezza, ariosa ma secca, è un dosha che si chiama Vata. Se in eccesso (e la
nostra società è molto malata di questa tendenza) determina dimenticanza,
instabilità, insicurezza; se in percentuale misurata, porta creatività,
immaginazione, entusiasmo.
Occorre
dunque correggere questo squilibrio, riportare calma, ragionamento,
riflessione. A poco servono le conventicole di studiosi, le cerchie ristrette
di cultori della materia. Bisogna agire sulle masse attraverso piccole ma
continue dosi di contravveleno. Credo che, fra tutti i media a disposizione, la
televisione sia ancora quello più efficace. Non so se ci si rende conto del
genocidio culturale perpetrato negli ultimi 25 anni dalla tv generalista (come
data d’inizio fisso il dicembre 1993, quando nacque Mediaset). Lo svuotamento
dei cervelli, sin da bambini, effettuato a dosi massicce di programmi di
intrattenimento di infimo livello e di gusto plebeo, prima ad opera della tv
privata commerciale e poi, per imitazione e necessità di concorrenza, ad opera
della tv di Stato, ha determinato un regresso intellettuale, informativo ed
etico che s’è rovesciato poi sulla scuola, infettando l’intera società. Ritengo
che si debba immediatamente ingranare la marcia indietro, riprendendo a gettare
quotidianamente semi buoni, rivolti innanzitutto ai giovani e giovanissimi,
attraverso una programmazione che miri finalmente a educare e a costruire, non
a decostruire. Marcello Foa alla direzione della RAI potrebbe essere l’uomo
giusto per iniziare questa rivoluzione, che dovrebbe infine concludersi con la
riforma delle riforme: l’estromissione totale della pubblicità commerciale dai
programmi televisivi pubblici.
In qualità
di docente, secondo lei, com’è cambiato l’approccio e il rapporto dei giovani
con questa materia? All’interno degli istituti scolastici a suo parere viene
trasmessa l’importanza fondamentale di questa lingua?
A rendere
sempre più complicato un sereno rapporto con il Latino è la sempre minore
conoscenza della lingua madre – l’italiano! – da parte dei Millennials. Quando
noi leggevamo Boccaccio o Machiavelli avevamo bisogno, ogni tanto, di una
parafrasi chiarificatrice, perché il “Decameron” e il “Principe” sono scritti
in un italiano di livello A che va semplificato al livello B dell’italiano
standard che comunemente usiamo. Purtroppo oggi gli studenti che approdano al
liceo sono in possesso di una lingua italiana di livello C o addirittura D: con
la conseguenza che, se definiamo X la lingua latina, oggi il percorso
dall’italiano posseduto dai ragazzini sino al latino è molto più lungo e
periglioso che non fino a non molto tempo fa: da D (conoscenza del lessico di
base, quotidiano, avvilito dalle semplificazioni del linguaggio degli sms e di
“Uomini e donne” televisivo) a C (lessico di base con qualche saltuario
arricchimento) a B (italiano standard) ad A (italiano scritto e letterario)
sino infine a giungere ad accostarsi a X. Quattro passaggi anziché due. Il
latino si va distanziando dalle generazioni contemporanee con una progressione
geometrica, a causa proprio della mancanza di conoscenza della ricchezza
lessicale ed espressiva dell’italiano.
Aggiungiamo
la mancanza o almeno la scarsezza di manuali adatti alle nuove esigenze: le
prime frasi date da tradurre continuano a parlare di “ancelle” e di
“fanciulle”, di “prodighe madri” e di “isole amene”, quando è accertato che i
quattordicenni (e oltre) ignorano il significato sia di “prodigo” che di
“ameno”. Paradossalmente, quindi, il “nuovo latino” è innanzitutto l’italiano.
Occorre, in tempi rapidi, una rivoluzione culturale che rimetta “leggere,
scrivere e far di conto” al centro dei programmi della scuola elementare
(pardon, primaria), e che ripristini l’importanza formativa della scuola media
(pardon, secondaria di primo grado), che troppo spesso oggi è ridotta al
livello di un multicontenitore di tutto un po’, senza che vengano trasmesse
quelle coordinate formative che, come le radici per l’albero, costituiscono
l’ancoraggio del futuro cittadino alle basi del sapere.
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