Κυριακή 18 Νοεμβρίου 2018

“Per le nostre radici”, l’importanza della civiltà greco-romana nel libro di Andrea Del Ponte


Nel suo libro dal titolo “Per le nostre radici – Carta d’identità del latino” il professor Andrea Del Ponte cerca di mettere ordine in quella battaglia identitaria e culturale che considera il passato retrogrado e nocivo per l’affermazione del progresso. Nazione Futura lo ha intervistato:

Giulia Villa, 13 11 2018

Nel suo libro cita Ernst Howald,  che afferma: «La rinascita del “classico” è la forma ritmica della storia culturale europea»: lei quindi mette in relazione l’attuale politica europea con il distacco dall’essenza della lingua latina e dalla cultura giudaico-cristiana. Potrebbe spiegare meglio questo rapporto?

Prendendo come data convenzionale della “nuova Europa” il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, possiamo ben dire che il trentennio successivo è stato caratterizzato da una molteplicità di fattori che congiurano tutti, concordemente, contro le radici culturali della civiltà europea. Il rifiuto di inserire nella Costituzione dell’Unione Europea un riferimento alle radici cristiane del continente, l’eliminazione dalla Carta del riconoscimento delle comuni radici greco-romane e illuministiche, nonché la cancellazione, in ultima istanza, di un celebre passo di Tucidide nel quale Pericle illustra le caratteristiche della democrazia, sono ormai concordemente i segni più evidenti – e altrettanto convenzionali – di una cupa involuzione delle classi europee dominanti (almeno fino al prossimo 26 maggio), che hanno imposto ai popoli del Vecchio Continente un regime nel quale si mescolano alcuni dei più letali veleni per l’homo europaeus: ultraliberismo, laicismo materialistico, globalismo, mondialismo, multiculturalismo forzato, relativismo, tecnocrazia e trapezocrazia, più tutta una serie di avversioni contro ciò che è più caro e sacro alle genti: il territorio, la comunità locale, i prodotti tipici, il confine, le tradizioni, la famiglia, la natura e l’arte naturalistica, la lingua e i dialetti, la religione, l’identità nazionale, la continuità fra le generazioni in termini sia culturali che territoriali. E anche, dunque, contro quella cultura greca e latina che contiene fortissimi dentro di sé i valori del logos, del kalòn e dell’agathòn, della ratio ma anche della fides e della virtus. Sono convinto, come pensava Howald, che si tratti di un’eclisse temporanea e legata a una sciagurata stagione di glaciazione dell’humanitas, cui necessariamente – e se ne vedono presentemente già i segnali – dovrà seguire un moto di rimorso e di rimpianto per quelle fondamenta di pensiero indispensabili a un vivere secondo dignità e non secondo prezzo.

Secondo lei ogni volta questa cultura si riafferma in modo diverso? Ogni rinascita è diversa?

Certamente. Nessuna cultura può rinascere identica a se stessa, neppure a quel che è stata nella sua ultima o penultima reincarnazione. Intanto va detto che non esiste una cultura “classica” né omogenea né monolitica: nei 1300 anni che si estendono dal Big bang dei poemi omerici (circa 800 a.C.) alla fine del mondo antico (per me, convenzionalmente, il 529 d.C., quando per volontà dell’imperatore Giustiniano viene chiusa la Scuola platonica di Atene), la civiltà greco-romana, estesa dall’Atlantico all’Indo e dalla Britannia all’alto Nilo, si è espressa con una varietà prodigiosa di voci, di filosofie, di visioni del mondo. È stata però una pluralità che, a riascoltarla oggi, ci si presenta come un’armoniosa corale, perché nessuna di quelle cento voci ha mai tradito lo spirito dell’insieme: o almeno, il misterioso Padre Jorge che di quella civiltà ha salvato certi libri e non altri ha agito secondo una visione capace di creare una discordia concors. La rinascita della cultura classica nel XXI secolo non potrà prescindere dalle innovazioni della civitas technologica né dal crescente interesse per il pensiero occidentale dell’antichità da parte delle nuove potenze emergenti in Asia, dalla Cina attraverso l’India fino agli Emirati. Il recupero in Europa della sensibilità per le humanae litterae potrà essere trainato da questi nuovi attori sulla scena del mondo. Ex Oriente lux.

Qual è secondo lei la forza vitale di questa cultura?

L’essenzialità. La forza della sintesi. La concentrazione del pensiero. L’altissimo peso specifico che vi ha la parola – ogni parola di un testo sia d’arte sia anche di uno nato per la comunicazione (lettere, discorsi, arringhe, apologie, panegirici, invettive…). La capacità di selezionare, di amputare senza pietà tutto ciò che è superfluo, vano, superficiale. La verticalità delle idee e dunque dello stile, che incide nella materia con la stessa forza di penetrazione con cui lo stilo tracciava solchi nella cera o lo scalpello realizzava lettere nel marmo o nel bronzo. Il senso innato del bello e il rifiuto del brutto, secondo i principi di un’estetica innata e naturale che la modernità e la contemporaneità occidentali tentano in tutti i modi, da un secolo e mezzo, di comprimere, di sconciare. L’attitudine all’armonia, al ritmo, che dà la cadenza sia alla prosa che alla poesia, e poi coordina ed educa il pensiero. Il coraggio di affrontare qualunque argomento e di scandagliarlo, sezionarlo, discuterlo, senza pregiudizi né timidezze, con il proposito di arrivare non dico alla verità ma a una verità, conquistata tramite lo strumento peculiare all’uomo, che è la ragione espressa attraverso la parola. In conclusione, mettere l’uomo al centro di ogni ricerca, di ogni studio: l’uomo come protagonista e come fine della storia.

Nulla potrebbe essere più diverso e più lontano dalle bassezze che immiseriscono l’odierno Occidente: il politicamente corretto, la vuota verbosità, l’assenza di morale, la disumanizzazione, il rovesciamento delle gerarchie del bello e del bene.

È possibile riscontrare questa energia in altre culture moderne o antiche oltre a quella greco-romana?

Domanda difficile. Rispondere in modo pertinente significherebbe infatti avere una conoscenza altrettanto profonda di queste “altre culture moderne o antiche” di cui andiamo in cerca. Conoscenza che io non ho. Comunque, in base a quel che so, non ci sono culture che abbiano espresso una propria visione del mondo in modo altrettanto completo e universale come quella del mondo antico fiorito attorno al Mediterraneo. Come ho provato a mostrare nell’antologia posta alla fine del volume, dove presento 21 argomenti dalla A alla Z (da Architettura a Giardinaggio a Horror a Quantistica) trattati ad altissimo livello da autori latini, non c’è area dell’umano vivere e sentire che non sia stata analizzata e descritta dalla civiltà latina perennis in modo da risultare universale. Altre grandissime culture si sono invece qualche modo specializzate attorno a tematiche più circoscritte: la spiritualità (l’India), l’onore e la liturgia dei gesti (il Giappone), il monoteismo (Israele), l’obbedienza al volere di Dio (Islam).

Lei parla di colpi di scure e nemici del latino e della cultura giudaico-cristiana. Ci potrebbe fare un esempio di “nemici” interni ed esterni del latino?

Su questo argomento si potrebbe scrivere un intero trattato. Cercherò di fare una sintesi. Non c’è dubbio che la classe politica che ha via via governato l’Italia dagli anni Sessanta ad oggi porti il maggior peso della colpa di aver minato la cultura umanistica nel nostro Paese. Una serie ininterrotta di riforme erronee o punitive ha via via scardinato i principi di base su cui avrebbe dovuto poggiare solidamente l’edificio dell’istruzione pubblica.

Non starò a fare qui l’interminabile elenco di questa via Crucis, in cui la parte del Cristo sofferente è stata ricoperta essenzialmente proprio dal latino, con il corteggio di alcune aree collaterali ma anch’esse di estrema importanza: la Storia antica, la Storia dell’Arte, la Geografia, la Filosofia. Mi basti citare la progressiva eliminazione delle prove selettive d’esame alla fine dei singoli cicli di studio; l’eliminazione o comunque la svalutazione degli esami di riparazione; la semplificazione e lo snaturamento dell’esame di maturità; l’abolizione della bocciatura nei cicli della scuola primaria e secondaria di primo grado, la sua rarità e difficoltà nel quinquennio finale; la svalutazione e il depotenziamento del ruolo dell’insegnante; il venir meno della disciplina e dell’obbedienza intesi come valori; l’incongrua democratizzazione della scuola con i “decreti delegati” e l’ingresso sempre più invadente dei genitori nella gestione della scuola e della didattica; l’assemblearismo studentesco; la politicizzazione a senso unico dell’insegnamento; la distruzione del centralismo scolastico con l’avvento dell’autonomia di ogni singolo Istituto, che ha portato a una completa frammentazione del concetto stesso di Istruzione nazionale. E potrei continuare a lungo su questa linea.

In questo quadro di estremo disordine, incompetenza, persino sovversivismo, è chiaro che il latino è stato oggetto di aggressioni che ne hanno reso ben più opaca la presenza nelle scuole e nelle Università. Via via espulso dalla scuola media, ridotto a poche tipologie di Istituti, ridimensionato nella sua ampiezza oraria, marginalizzato infine in una tipologia nobile di Liceo come quello scientifico, il latino resiste nell’ultima roccaforte rimastagli, il liceo classico, ma con sempre maggiori difficoltà. È stato e continua ad essere, assieme al liceo classico, uno dei principali bersagli della feroce lotta ideologica che ha imperversato nel Paese per decenni almeno sino all’avvento di Berlusconi, quando il “pollice verso” alla lingua e cultura di Roma è rimasto ma ha cambiato segno, diventando di matrice aziendalistica e economicistica. È indiscutibile il fatto che dagli anni Sessanta sino al principio del nuovo secolo sia stata la Sinistra la peggiore nemica del latino, giudicato una “materia” classista, borghese, persino “fascista”: da Don Milani, che considerava il latino uno strumento del dominio di classe, a Luigi Berlinguer, che ancora in anni recenti predicava “il taglio delle alte palme liceali” e sosteneva che “il liceo classico ci ha corrotti”, corre un unico filo rosso. Non meglio ha peraltro agito Matteo Renzi, il distruttore del PD ma anche della scuola italiana, con una riforma (la cosiddetta “Buona Scuola”, sic!) che fra l’altro, con il mostro dell’”alternanza scuola lavoro”, ha deposto nel grembo dei licei una bomba a orologeria che ogni anno esplode facendo vittime fra tutti gli incolpevoli studenti che vorrebbero prepararsi per l’Università, non trascorrere come fattorini 200 ore della loro permanenza nel triennio liceale.

I nemici interni? Sono anch’essi numerosi, alcuni insospettabili, come il famoso latinista e antropologo Maurizio Bettini. E insospettabile, per i non iniziati, è pure l’inquietante deep culture di cui si nutre nel silenzio l’Idra che vorrebbe avvelenare la linfa stessa degli studi umanistici in Italia. Ma di questo aspetto molto interessante e oscuro non voglio svelare niente qui: rimando a quel che spiego nel mio saggio a partire da pag. 97.

Lei afferma che attualmente il concetto stesso di radici viene messo in discussione. Secondo lei le “radici” e il latino, come anche la cultura giudaico-cristiana, possono comunque affermarsi nella modernità?

È chiaro che ogni epoca ha le proprie caratteristiche e che, almeno a partire dalla rivoluzione industriale nell’Inghilterra del Settecento sino a giungere alla rivoluzione tecnologico-informatica dei nostri tempi, l’umanità ha imboccato un cammino che non può avere un ritorno, tranne nel caso deprecabile e non augurabile di un evento catastrofico che la riporti indietro di millenni. Però l’uomo, anche quello smartphonizzato che incontriamo per strada e sulla metro – e che siamo noi stessi – non cessa per questo di interrogarsi su una quantità pressoché infinita di domande alle quali la tecnologia non può dare risposte che non siano “orizzontali”, puramente informative. Ad esempio: quale può o deve essere la mia relazione con la natura, con il mio prossimo, con la religione, con la salute fisica e mentale, con il male, con la malattia, con l’ingiustizia, con la nascita e con la morte, con la legge, con la morale, con i figli…? È possibilissimo trovare simulacri di risposte nelle rubriche apposite su un sito online, ma chi voglia trovare interpretazioni “verticali”, reti complesse di pensiero in cui alla ricerca si accompagni l’eleganza e la sapienza del dire, non potrà che trovarle nella grande letteratura. Italiana, certo, tedesca, francese o russa, e pure contemporanea: ma se si vorrà risalire alle fonti, così come si fa per i fiumi, sarà sempre inevitabile tornare indietro alla parola dei Greci e dei Latini, di cui quasi tutte quelle che sono seguite sono state repliche o variazioni o aggiunte. Qui l’uomo troverà la ratio e il logos. Ma se vorrà fare un passo ancora oltre, scavando nel suo io più profondo alla ricerca dell’anima e del senso del suo esistere nel mondo, non potrà che approdare alla fides, e dunque alla cultura giudaico-cristiana che non a caso si intrecciò, a partire dalla fine del mondo antico, al pensiero greco-romano, creando una nuova potentissima civiltà di cui tuttora sono simbolo, in Europa, il Duomo di Milano e la Cattedrale di Notre-Dame, la Divina Commedia e The Paradise Lost, non certo i “tagli” di Fontana o la “merda d’artista” di Piero Manzoni. Non so se mi spiego.

Nella società moderna come si potrebbe valorizzare maggiormente questa cultura e quindi le nostre radici, per trasmetterne l’importanza?

Non c’è dubbio che nella società della comunicazione istantanea è assolutamente dominante, per così dire, la “ventosità”, cioè la rapidità, il flusso velocissimo di parole, immagini, emozioni. Ciò dà luogo a un impressionismo superficiale e estremamente mutevole che sta agli antipodi della solidità e della fermezza delle “radici”. Nella filosofia e medicina indiana questa fluida leggerezza, ariosa ma secca, è un dosha che si chiama Vata. Se in eccesso (e la nostra società è molto malata di questa tendenza) determina dimenticanza, instabilità, insicurezza; se in percentuale misurata, porta creatività, immaginazione, entusiasmo.

Occorre dunque correggere questo squilibrio, riportare calma, ragionamento, riflessione. A poco servono le conventicole di studiosi, le cerchie ristrette di cultori della materia. Bisogna agire sulle masse attraverso piccole ma continue dosi di contravveleno. Credo che, fra tutti i media a disposizione, la televisione sia ancora quello più efficace. Non so se ci si rende conto del genocidio culturale perpetrato negli ultimi 25 anni dalla tv generalista (come data d’inizio fisso il dicembre 1993, quando nacque Mediaset). Lo svuotamento dei cervelli, sin da bambini, effettuato a dosi massicce di programmi di intrattenimento di infimo livello e di gusto plebeo, prima ad opera della tv privata commerciale e poi, per imitazione e necessità di concorrenza, ad opera della tv di Stato, ha determinato un regresso intellettuale, informativo ed etico che s’è rovesciato poi sulla scuola, infettando l’intera società. Ritengo che si debba immediatamente ingranare la marcia indietro, riprendendo a gettare quotidianamente semi buoni, rivolti innanzitutto ai giovani e giovanissimi, attraverso una programmazione che miri finalmente a educare e a costruire, non a decostruire. Marcello Foa alla direzione della RAI potrebbe essere l’uomo giusto per iniziare questa rivoluzione, che dovrebbe infine concludersi con la riforma delle riforme: l’estromissione totale della pubblicità commerciale dai programmi televisivi pubblici.

In qualità di docente, secondo lei, com’è cambiato l’approccio e il rapporto dei giovani con questa materia? All’interno degli istituti scolastici a suo parere viene trasmessa l’importanza fondamentale di questa lingua?

A rendere sempre più complicato un sereno rapporto con il Latino è la sempre minore conoscenza della lingua madre – l’italiano! – da parte dei Millennials. Quando noi leggevamo Boccaccio o Machiavelli avevamo bisogno, ogni tanto, di una parafrasi chiarificatrice, perché il “Decameron” e il “Principe” sono scritti in un italiano di livello A che va semplificato al livello B dell’italiano standard che comunemente usiamo. Purtroppo oggi gli studenti che approdano al liceo sono in possesso di una lingua italiana di livello C o addirittura D: con la conseguenza che, se definiamo X la lingua latina, oggi il percorso dall’italiano posseduto dai ragazzini sino al latino è molto più lungo e periglioso che non fino a non molto tempo fa: da D (conoscenza del lessico di base, quotidiano, avvilito dalle semplificazioni del linguaggio degli sms e di “Uomini e donne” televisivo) a C (lessico di base con qualche saltuario arricchimento) a B (italiano standard) ad A (italiano scritto e letterario) sino infine a giungere ad accostarsi a X. Quattro passaggi anziché due. Il latino si va distanziando dalle generazioni contemporanee con una progressione geometrica, a causa proprio della mancanza di conoscenza della ricchezza lessicale ed espressiva dell’italiano.

Aggiungiamo la mancanza o almeno la scarsezza di manuali adatti alle nuove esigenze: le prime frasi date da tradurre continuano a parlare di “ancelle” e di “fanciulle”, di “prodighe madri” e di “isole amene”, quando è accertato che i quattordicenni (e oltre) ignorano il significato sia di “prodigo” che di “ameno”. Paradossalmente, quindi, il “nuovo latino” è innanzitutto l’italiano. Occorre, in tempi rapidi, una rivoluzione culturale che rimetta “leggere, scrivere e far di conto” al centro dei programmi della scuola elementare (pardon, primaria), e che ripristini l’importanza formativa della scuola media (pardon, secondaria di primo grado), che troppo spesso oggi è ridotta al livello di un multicontenitore di tutto un po’, senza che vengano trasmesse quelle coordinate formative che, come le radici per l’albero, costituiscono l’ancoraggio del futuro cittadino alle basi del sapere.


Δεν υπάρχουν σχόλια:

Δημοσίευση σχολίου