Una scelta di
cuore (la filologia) ed una di vita (la Grecia). Sembra quasi guidata dal
richiamo di Itaca la vita del filologo italiano Maurizio De Rosa, che pur di
seguire in “quel” loco traduzioni e cultura, ha deciso di lasciare la sua
Milano per trasferirsi lì dove, oltre alla moderna letteratura, c’è solo
l’imbarazzo della scelta quanto a volumi, tomi e storie di una civiltà che ha
plasmato per sempre epoche e popoli.
La cultura
italiana, come peraltro ogni cultura contemporanea, è assai sfaccettata. Immagino
che ci siano campi che ignoro e che, forse, sono all’avanguardia nel mondo. Per
limitarmi al campo editoriale e letterario (di cui mi occupo) mi sembra di
poter affermare che un grande problema in Italia, oggi, sia il basso livello di
autostima. Gli editori, sempre più grandi e impersonali, volti alla
sopravvivenza in un mercato sempre più complesso ma anche sempre più ristretto,
hanno spesso rinunciato alla gioia della sperimentazione, alla follia della
scommessa anche perdente. Le ragioni sono soprattutto economiche ma credo che
la paura di osare sia anche dovuta alla terribile paura di sbagliare in
un’epoca in cui gli errori si pagano molto cari. E chi non agisce per paura di
sbagliare, non crede abbastanza in se stesso e nella forza delle sue scelte. A
salvare l’onore degli editori ci sono per fortuna i capitani coraggiosi
dell’editoria piccola e media di qualità, che meritano tutta la nostra stima e
attenzione. L’assenza di gusto per la sperimentazione si riflette,
naturalmente, anche sulla qualità dei libri pubblicati, che sotto una patina di
assoluta perfezione (dovuto al lungo lavoro di equipe cui sono sottoposte le
opere pubblicate dai grandi editori) celano talora una sconcertante assenza di
personalità. Forse non è un caso che in Italia, come altrove, a vincere la
partita delle vendite siano i libri di genere, per definizione ripetitivi e
seriali. Peraltro niente di nuovo sotto il sole. Il romanzo ellenistico, così
come quello del medioevo occidentale e del periodo bizantino, era basato
appunto sulla serialità e sulla riconoscibilità delle situazioni e dei
personaggi.
Il nome di
Crocetti che ricordi le stimola?
Il nome di Nicola
Crocetti (in foto qui sotto) mi riporta al periodo in cui stavo preparando la
tesi di laurea, incentrata su un’opera minore di Odisseas Elitis (foto in
alto), il poeta greco premio Nobel. Avevo appunto bisogno di un libro di Elitis
pubblicato in Italia da Crocetti, che già mi era noto in quanto era, allora,
l’unico editore italiano attivamente impegnato nella diffusione della
letteratura neogreca. crocettiL’arrivo nell’atelier di Crocetti fu per me una
grande emozione anche se purtroppo, in quell’occasione, non ebbi la fortuna di
conoscerlo personalmente. Questo sarebbe accaduto un paio d’anni più tardi,
quando Crocetti mi fece l’onore di affidarmi la mia prima traduzione (si
trattava del romanzo di Zyranna Zateli “E alla luce del lupo ritornano”). Da
allora molta acqua e ben 22 anni sono passati sotto i ponti ma nonostante tutto
quello di Crocetti, con circa un centinaio di titoli in catalogo tra prosa e
poesia, resta il tentativo più sistematico, completo e strutturato di far
conoscere in Italia la ricchezza della civiltà letteraria della Grecia
contemporanea.
Quando e come
nasce il suo trasferimento in Grecia?
In Grecia mi sono
recato per la prima volta nel 1992. Ero studente di Lettere classiche
all’università Statale di Milano, volevo laurearmi in letteratura greca
(antica) e per noi di Lettere classiche visitare le antichità elleniche era una
specie di viaggio iniziatico. Per me lo fu senz’altro perché quel viaggio
cambiò completamente la mia vita. Giunto in Grecia, scoprii che il greco
studiato al liceo e poi all’università funzionava in misura notevole per la
comprensione della lingua scritta ma era pressoché inservibile per comunicare
con i greci. Questo perché la pratica scolastica italiana è incentrata sulla
cosiddetta pronuncia erasmiana della lingua greca, che sebbene scientificamente
giustificabile almeno per certi periodi della lunghissima storia della lingua greca,
viene tuttavia arbitrariamente applicata anche a testi che risalgono, per
esempio, al quindicesimo secolo, allorquando la pronuncia moderna è già
ampiamente attestata. Questa situazione mi parve paradossale ma per me fu anche
la presa di coscienza di quanto il “classico” sia in buona misura una
costruzione culturale dei tempi moderni, che spesso poco o nulla ha a che
vedere con la realtà storica del mondo greco. Lo stesso concetto di “greco
antico” è puramente scolastico. La prima lingua comune dei greci si ebbe in età
alessandrina, ossia a partire dal IV sec. a.C., e il cosiddetto greco classico
è in realtà sostanzialmente il dialetto attico. Tornato in Italia da quel primo
viaggio, decisi di seguire il lettorato di neogreco tenuto alla Statale da Amalìa
Kolonia, un’insegnante greca di grande esperienza e preparazione. A poco a poco
abbandonai la filologia classica e mi dedicai ad approfondire la
sconosciutissima letteratura greca moderna e contemporanea, oltre che la storia
e civiltà di un Paese tanto vicino ma relegato, ancor oggi e a maggior ragione
allora, al dominio di un certo esotismo. Il resto è venuto da sé: le borse di
studio ad Atene e Salonicco, le traduzioni per Crocetti e infine la
collaborazione con il Centro nazionale ellenico del libro, che ha fornito
l’occasione per il mio trasferimento ad Atene, fino a oggi.
Dai Vangeli agli Atti degli Apostoli, dalla filosofia di Platone e Aristotele alle conquiste in campo medico e ingegneristico: il mondo moderno si è dimenticato della cultura classica?
La storia muta,
la cultura muta e anche gli uomini mutano. La cultura classica soffre, a mio
avviso, dell’impianto storicistico e in gran parte elitistico con cui viene
tutt’ora trasmessa. Esso ha funzionato per moltissimi anni in un contesto
culturale del tutto differente ma adesso mostra segnali di esaurimento. Oggi la
sfida, a mio parere, su gioca su altri campi anche per la cultura classica. Non
ho ricette da proporre né suggerimenti da dare. Dico soltanto che quando al
grande pubblico si fornisce senso, esso non resta indifferente. La cultura
classica abbonda di senso e soprattutto di senso primigenio, archetipico, che
aiuta a comprendere anche l’oggi. Il punto è trovare nuove forme di
trasmissione di questo senso. Quanti film hollywoodiani, per esempio, altro non
sono che una variazione sul tema omerico del “ritorno dell’eroe creduto morto”?
Il modello è chiaro: l’eroe subisce un torto o scompare, in generale è creduto
morto, i suoi amici e il suo mondo sono in subbuglio. Ma infine l’eroe ritorna,
svela la propria identità e i prepotenti, che avevano creduto di approfittare
della sua debolezza o scomparsa, sono sconfitti. Su questo canovaccio omerico
(ma già presente nell’epos di Gilgamesh) sono incentrati decine di film e di
libri, e in un’ottica comparatistica e interdisciplinare non lascia
indifferente neppure i giovani di oggi e non solo quelli che hanno scelto di
frequentare il liceo classico.
Alcuni sostengono
l’inutilità del liceo classico e di materie come il greco antico o la
filosofia. Come replicare?
Si può replicare
partendo dalla mia risposta precedente. La cultura classica fornisce archetipi
con cui si possono studiare (e dunque apprezzare) anche le opere culturali di
oggi. Per non parlare dello scrigno di sapere racchiuso nei racconti
mitologici, utili anche in un’ottica psicanalitica, mentre la filosofia altro
non è che un inanellarsi di idee. E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di idee,
oggi come oggi, in tutti i campi della vita culturale e civile. Ho la
sensazione che il futuro della cultura classica sia legato in un certa misura
anche al suo distacco dalla prigione del liceo classico. Intendiamoci: il liceo
classico non si tocca fino a quando non si siano trovati, ammesso che vi siano,
validi correttivi. Cambiare tanto per cambiare, per apparire al passo coi
tempi, per la scarsa autostima cui accennavo poc’anzi o in nome della
destrutturazione postmoderna sarebbe un crimine imperdonabile. Nel frattempo
però nulla ci vieta di riflettere sull’utilità, oggi, dell’impianto
storicistico su cui è basata in generale la scuola italiana e in particolare il
liceo classico. E soprattutto nulla ci vieta di chiederci se non sia il caso di
introdurre germi di cultura classica anche in altri indirizzi scolastici affinché
tutti possano abbeverarsi alla sorgente di senso che è la cultura classica.
Anche per chiarire finalmente alcuni equivoci: la filosofia non è soltanto
l’esistenzialismo, questo sì se vogliamo un po’ sterile, degli ultimi cento
anni, le letterature classiche non sono soltanto una certa filologia che si
compiace talora di ridurre i testi a raccapriccianti cavie da laboratorio e gli
antichi non sono mummie paludate in possesso di eterne virtù sovrastoriche ma
uomini in carne e ossa, che hanno amato, odiato, creato e sofferto proprio come
noi. Il che ci conduce a un ulteriore equivoco da chiarire: né il greco né il
latino sono lingue magiche, pozioni di Asterix che basta ingurgitare per
vedersi trasformare in supereroi del sapere. Prima le due lingue classiche
scenderanno dal loro piedistallo (su cui peraltro sono state fatte salire loro
malgrado) e meglio sarà per le sorti future della cultura classica.
Una recente statistica rivela che in Italia buona parte dei nuovi avvocati non sa scrivere gli atti in un buon italiano, per non parlare degli svarioni di certa stampa ed anche di alcuni esponenti politici che litigano con i congiuntivi. C’è bisogno di una rivoluzione copernicana per tornare alla “normalità”?
Non se se occorra
una rivoluzione copernicana. Per il momento, forse, basterebbe che le scuole
medie, il buco nero del sistema scolastico italiano, cominciassero finalmente a
funzionare e che gli insegnanti fossero finalmente motivati concedendo loro di
più sul piano economico ma pretendendo anche di più sul piano della
professionalità. Ma ovviamente occorre anche un cambio di mentalità. Agli
italiani, così amanti degli status symbol, va spiegato che lo status symbol per
eccellenza è esprimersi in modo semplice e corretto, e che non conoscere bene
la lingua italiana è una grave caduta di stile.
Lo studio della
filologia è ancore attuale?
La filologia
volta alla restituzione dei testi classici è ovviamente una disciplina ormai di
nicchia. I testi dell’antichità sono ormai fissati in una forma più o meno
definitiva, i moderni mezzi elettronici li hanno sottratti per sempre ai
pericoli che li hanno minacciati per millenni e i copisti-redattori non hanno più
ragion d’essere. Le scoperte papiracee continuano, e dunque dei filologi c’è
ancora bisogno, ma di sicuro i pochi amanti di questa disciplina bastano e
avanzano a tenerla in vita. Se invece per filologia si intende lo studio dei
testi, quello è sempre attuale soprattutto nel caso di “filologi mediatori
culturali” come, per esempio, i traduttori. Non si dimentichi poi che la nostra
vita è piena di testi scritti. Una sceneggiatura cinematografica o televisiva è
un testo, un’opera teatrale è un testo, la quarta di copertina di un libro
anche commerciale è un testo, il paper di uno scienziato nucleare è un testo,
una canzonetta è un testo, le istruzioni per l’uso dell’ultimo modello di
smartphone è un testo, uno slogan pubblicitario, ricco di figure retoriche, è
un testo. Illudersi di poter fare a meno di chi i testi, qualsiasi testo, li
scrive, li corregge, li interpreta, li studia, è assurdo.
Come può
l’editoria saltare l’ostacolo della crisi (sociale prima che economica) e
tornare ad educare le masse?
I bambini, a
quanto pare, sono naturalmente attratti dalla parola scritta. Qui ad Atene è
attiva una bellissima biblioteca comunale dedicata ai bambini da 0 a 3 anni, ed
è molto frequentata. Per qualche ragione, poi, questo seme viene soffocato da
varie specie di zizzania: lo stress della competizione scolastica, la
quotidianità logorante della vita professionale o genitori che considerano il
libro un oggetto per giovani spensierati (un po’ come l’equivoco delle favole
considerate storie per bambini) e che magari senza rendersene conto allontanano
i figli dal piacere della lettura. Gli editori, per superare la crisi, tra le
altre cose dovrebbero convincere i genitori, gli insegnanti e in generale gli
adulti coinvolti nell’educazione dei giovani che leggere un libro è altrettanto
utile che apprendere una lingua straniera o una competenza pratica. Non c’è
nulla di male a puntare sull’utilità della cultura, oltre i dannosi
atteggiamenti aristocratici ed estetizzanti ancora tanto in voga. Ma ovviamente
gli editori dovrebbero anche ritrovare il gusto per la sperimentazione e per la
sfida, cui ho già accennato in precedenza.
Cultura,
Mediterraneo e attualità del passato: come uscire dal Medioevo culturale in cui
il vecchio continente sembra essere piombato?
Cominciando a
partire da quello che si ha, che non è poco: un’editoria moderna e aggiornata,
traduzioni numerose (a questo proposito vorrei dire che i Paesi dell’Europa
mediterranea sono i maggiori traduttori di letteratura straniera: indice di
culture curiose, cosmopolite, aperte al nuovo e al diverso), facilità di
accesso al libro. Purtroppo le moderne elite mondiali sono in generale lontane
dal libro e questo è sicuramente una delle cause del “medioevo culturale”. Gli
strumenti per cambiare però ci sono. Basta imparare a usarli, ritrovare la
curiosità per gli altri e non rinchiudersi in se stessi. Leggere un libro è
comunicare con altre persone, lontane nel tempo e nello spazio. Credere di
poter bastare a se stessi, tranne che nel campo delle merci, è un’illusione
pericolosa. Abbiamo bisogno gli uni degli altri non foss’altro per il gusto di
parlarci e di scambiarci esperienze. E il libro rende possibile questa
espansione dei nostri limitati orizzonti biologici e fisici.
MAURIZIO DE ROSA
Chi è
Maurizio De Rosa,
filologo italiano, è traduttore di alcuni dei maggiori scrittori greci
contemporanei. Nato a Milano nel 1971, si è laureato in Filologia greca presso
l’Università di Milano, e da alcuni anni vive in Grecia dove si occupa di
letteratura greca moderna sia come saggista sia come traduttore.
È il traduttore
italiano di alcuni dei maggiori autori greci contemporanei, tra cui Zyranna
Zateli, Ioanna Karistiani, Maro Duka e Andreas Stàikos. Collabora con le
riviste letterarie “Pulp” e “Poesia”. Attualmente sta lavorando, insieme con il
fotografo Giovanni Giovannetti, al volume Voci dell’agorà – Fotostoria della
letteratura greca del Novecento, e sta curando la traduzione di due capolavori
della prosa greca del ventesimo secolo: L’interrogatorio di Aris Alexandru e Terre
insanguinate di Didò Sotirìu. Collabora con il Centro nazionale ellenico del
libro (E.KE.BI.) e con il Centro nazionale ellenico della traduzione
(E.KE.ME.L.).
È autore del
volume Bella come i greci 1880-2015. 135 anni di letteratura greca per la collana
“Letteratura e civiltà della Grecia moderna” (Universitalia) e di Il vicino di
casa, una delle più complete antologie del racconto greco contemporaneo. Nel
2016 il ministero greco della Cultura lo ha insignito del prestigioso premio
nazionale della traduzione. E’direttore scientifico della ETP books.
di Francesco De Palo
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