Δευτέρα 1 Οκτωβρίου 2018

Il colonnello Liapkine

Un'immagine della copertina del libro "Il colonnello Liapkine"

Un colonnello dell'esercito zarista che ripara, dopo la Rivoluzione d'Ottobre, a Larissa. Un romanzo che è anche un quadro sulla Grecia di inizi '900.

Diego Zandel, 01/10/2018 

La ETPBooks, una casa editrice che pubblica in Grecia autori greci tradotti in italiano, libri che si possono trovare ad Atene presso la libreria To Lexikopoleio, in via Stasinou 13, ha fatto uscire recentemente il romanzo di M.Karagatsis (pseudonimo di Dimitris Rodopoulos) “Il colonnello Liapkine”, nella traduzione di Maurizio De Rosa.

Karagatsis, nato ad Atene nel 1908 e qui morto nel 1960, è considerato ormai un classico della letteratura ellenica moderna, autore di undici romanzi e varie raccolte di racconti. Si è sbizzarrito nel praticare diversi generi letterari, dal fantastico al giallo oppure opere come questa che colgono momenti di un determinato periodo storico raccontato attraverso l’esistenza di alcuni personaggi come, appunto, il colonnello Liapkine.

Siamo negli anni successivi alla Rivoluzione russa e molti nobili e fedeli zaristi sono stati costretti a fuggire nel resto d’Europa per non sottostare ai bolscevichi o, peggio ancora, essere uccisi. Uno di questi è proprio il conte Liapkine, colonnello dell’esercito zarista, riparatosi in Grecia, nei pressi di Larissa, avendo trovato, grazie alla conoscenza di un ministro greco, una sistemazione come sovrintendente dei campi e delle stalle di un importante liceo agrario. Ci arriva dopo varie vicissitudini, nel corso delle quali subisce il rapimento della figlia adolescente da parte dei bolscevichi, forse stuprata e senz’altro sparita per non averla più ritrovata nonostante le affannose ricerche.

La presenza del colonnello a Larissa dà modo all’autore di fare un ritratto della città e dei suoi abitanti più rappresentativi, a cominciare dagli insegnati del liceo e delle loro famiglie e di altri borghesi greci, ai quali, nel corso della narrazione, si aggiungeranno altri profughi nobili russi alcuni dei quali daranno vita ad episodi di grande divertimento e pietà, sicuramente curiosi che, mescolati a quelli dei greci, renderanno vivo il romanzo.
  
Diciamo subito che per Karagatsis l’interesse primario sembra essere il sesso. Non c’è donna o quasi nel romanzo, sposate o vedove o nubili che siano, che non abbia uno o più amanti, a fronte comunque di un perbenismo di facciata che fa a pugni con quanto accade clandestinamente, seppur fino a un certo punto. Assisteremo anche a una bellissima signora, nota per la sua fedeltà al marito, che resterà affascinata da un nobile russo, conoscente di Liapkine, tanto da finire nel suo letto, ma, scoperta da una zitella invidiosa, si ritroverà ben presto svergognata e inseguita nuda per la strada, attaccata anche dalle prostitute di un casino vicino che non esitano a urlarle dietro di tutto: “Svergognata! Baldracca! Mignotta! Dicono che le puttane siamo noi ma noi ci prostituiamo per necessità. Tu invece sei sposata, ricca, hai un posto in società. Perché ti prostituisci? Te lo diciamo noi. Perché sei puttana dentro!”.

Provvederà in quel momento lo stesso Liapkine a salvarla dalla furia. E siccome la donna aveva tradito con un nobile russo che si era ben guardato dal difenderla perché la voce non giungesse alla propria moglie, mandata per l’occasione in viaggio ad Atene, Liapkine si vendicherà con lui, al punto di ucciderlo, per la viltà dimostrata, indegna di un russo.

La storia di Liapkine attraversa diversi anni, nel corso dei quali i cambiamenti non mancano, uno dei quali è la dedizione sempre maggiore del nobile colonnello all’alcol, più precisamente all’ouzo, il liquore di anice panellenico che prenderà a bere in quantità sempre più smodata, prima reggendolo bene poi sempre meno fino all’abbruttimento. Quest’ultimo avrà effetti molto deleteri quando il colonnello sposerà una dolce e paziente infermiera, già ragazza madre di un figlio, che a Liapkine darà altri quattro figli, ben presto tutti però vittime dell’alcolismo dell’uomo. Il quale, con i suoi connazionali, nelle discussioni d’osteria che nasceranno, non perderà mai occasione di attaccare i soviet e il comunismo. Lo farà però con una certa, encomiabile lucidità: di fronte agli altri nobili russi che volevano un ritorno allo zarismo, egli oppone la necessità, con l’auspicata caduta del regime dittatoriale sovietico, di un risveglio democratico di tipo occidentale “perché – dice – sebbene il popolo russo detesti la tirannia e la miseria imposte loro dai paranoici venditori di utopie, non accetterà mai di tornare all’anacronistico e corrotto feudalesimo zarista. Di questo dovremmo essere consapevoli in primo luogo noi, gli oppositori del comunismo, per non finire anche noi a vendere teorie ancor meno attuabili delle loro. Per quanto mi riguarda, adesso che qui in Grecia ho capito che cos’è una democrazia, per quanto imperfetta, mi rifiuto categoricamente di rimpatriare e tornare a essere un esponente della privilegiata classe degli oppressori”.

Tanto di cappello dunque, anche se la sua dichiarazione poi contrasta con il modo sempre più crudele con il quale tratta moglie e figli, in particolare il più grande, non suo. E ancora meno per quanto verremo a sapere nel finale, quando, dalle nebbie del passato appare sua figlia, ormai donna, vittima sì delle violenze, compreso lo stupro, dei bolscevichi, violenze dalle quali si è salvata fingendo un’adesione al credo comunista, fino a sposarsi con un alto dirigente del Partito, insieme al quale sfrutterà un’occasione per riparare in occidente, a Parigi. Ma la donna, ben presto sapremo, non è venuta lì per cercare e abbracciare il padre perduto, bensì per una resa dei conti per un fatto nella loro vita famigliare fino a quel momento del tutto insospettato.


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