In "La casa dei nomi" Colm Tóibín rivisita la
storia tragica di Agamennone, Clitennestra, Ifigenia, Elettra e Oreste. Il mito
classico della regina assassina e del vendicatore matricida diventa una
tragedia di passioni e debolezze profondamente umane.
di Finzioni Magazine, Marta Pellegrini, 10 Ottobre 2018
Reinventare i classici e in modo particolare i miti non è
semplice, e per delle buone ragioni. Raramente complessificare ciò che è
sintetico porta al successo e sempre implica rischi notevoli. La scrittura di
Colm Tóibín è coinvolgente e leggera, come i tratti di certi fumettisti che con
pochi tocchi danno vita ad atmosfere e avventure magiche. Tuttavia la
leggerezza che sceglie nel romanzo La casa dei nomi (Supercoralli Einaudi,
2018, traduzione di Giovanna Granato) e con cui decide di approfondire,
dettagliare, spiegare e rendere più terreno il divino che si trova nell’umano
(e che la mitologia ci racconta), sembra togliere piuttosto che aggiungere.
Perché?
Il romanzo di Tóibín è uscito in Italia quest’anno e ci
racconta la triste storia di Clitennestra, suo marito Agamennone e i loro figli
Ifigenia, Oreste ed Elettra. La scrittura elegante cattura con leggiadria,
avvolge il lettore e lo trasporta in un viaggio che esplora i processi relazionali
a discapito dei simbolismi. Il valore simbolico degli avvenimenti emerge
soltanto di rado ed ex-post, appare e traspare tra le righe, rimanendo volatile
e alla mercé della capacità di comprensione e di immaginazione del lettore. In
La casa dei nomi la rete di processi relazionali, avvenimenti e sentimenti, ha
però le maglie molto larghe – forse troppo. Come un velo leggero, dalla trama
lasca e i fili sottili. Tòibìn si cimenta in quello che è un processo inverso.
Dal simbolico al realistico, dal denso e complesso – ma sintetico – al leggero
e più semplice ma prolisso, perché, appunto, espanso, diluito, narrato. Nel
farlo compie tre operazioni che tipicamente vengono fatte attorno al racconto
mitico, la terza delle quali, però, trascina il romanzo lungo una china
potenzialmente pericolosa.
Clitennestra, Oreste, Elettra, sono personaggi famosi non
solo per le loro vicende, ma anche per come queste siano state utilizzate dalla
psicanalisi. Tòibìn lo sa e ce lo mostra senza nascondere i “fantasmi”, come
direbbe Lacan, che si celano nel percorso terapeutico. Trasformandosi in
persone quasi reali, questi personaggi perdono la loro forza simbolica, la loro
trascendentalità
Prima di tutto rimuove la percezione del tempo storico. E
il tempo diviene quasi intangibile, scorre con l’intensità delle emozioni e non
con il passare degli anni. Tutto si svolge in una dimensione umana tracciata in
un tempo assoluto e non oggettivato. La vicenda è ambientata nell’antica Grecia
per puro caso, si tratta di un fatto trascurabile e che passa presto in secondo
piano. Come in uno spettacolo dei Momix o in uno spettacolo di
prestidigitazione, Tóibín costruisce una storia in cui a contare è la
suggestione dettata dal punto di vista da cui osserviamo, molto più di ciò che
effettivamente accade sul palcoscenico. I riferimenti sono confusi e
fondamentalmente smettono di interessare il lettore quasi subito, per lasciare
posto a suggestioni, emozioni, reminiscenze.
Poi Tóibín introduce il parallelismo tra temi classici e
contemporanei, facendo saltare per aria definitivamente (e con grande maestria)
quei pochi riferimenti concreti che ancora avevamo. Declina l’eterno
significato del mito seguendo le corde della propria narrazione più profonda.
La voce dell’autore emerge così chiaramente attraverso le tematiche che a lui
sono più care, come la questione dell’identità personale e dell’omosessualità.
In questo, forse, Tóibín non conosce pari. L’ultima operazione che si compie
nel romanzo e che lascia, in un certo senso a bocca asciutta, scoprendo tutta
la prosaica aridità dei giorni nostri, è la traduzione della “condensazione
simbolica” del mito in una processualità che ha tutto di contemporaneo e dove
il mito classico perde la presa. La spiegazione, il dispiegamento di una
sequenza di azioni e atteggiamenti che, di fatto, sono ciò che dà forma alla
trama, sembra in alcuni momenti gridare “il Re è nudo! È nudo!”
La contemporaneità irrompe indirettamente, attraverso il
punto di vista da cui si osserva, e scardina la circolarità del mito rendendone
il percorso incerto e – soprattutto – estremamente aperto all’interpretazione
Nessun percorso predestinato, nessuna trascendentalità o
senso ulteriore, nessun Dio; solo il risultato di una serie infinita di
tentativi, errori, dubbi, congetture e menzogne, illusioni e manipolazioni
fatte da punti di vista estremamente soggettivi. Ogni personaggio è dotato di
un punto di vista talmente forte e di un discorso interno talmente peculiare
che potrebbe scrivere una propria storia del tutto diversa da quella degli
altri. E così entriamo nello studio e ci stendiamo sul lettino dello
psicoterapeuta con ognuno di loro. Clitennestra, Oreste, Elettra, sono
personaggi famosi non solo per le loro vicende, ma anche per come queste siano
state utilizzate dalla psicanalisi. Tòibìn lo sa e ce lo mostra senza
nascondere i “fantasmi”, come direbbe Lacan, che si celano nel percorso
terapeutico. Trasformandosi in persone quasi reali, questi personaggi perdono
la loro forza simbolica, la loro trascendentalità. È come se Tóibín, forzandoli
attraverso questo percorso fatto solo a metà, di dispiegamento di dettagli
concreti ma anche evanescenti e infidi, li privasse della loro verità più
profonda. La contemporaneità irrompe indirettamente, attraverso il punto di
vista da cui si osserva, e scardina la circolarità del mito rendendone il
percorso incerto e – soprattutto – estremamente aperto all’interpretazione.
Oreste ed Elettra diventano allora due personaggi pieni
di confusione che seguono un percorso solo apparentemente predestinato, dove
gli Dei non hanno ruolo, ma ci sono solo le proiezioni dei propri cari perduti
e blandi riferimenti morali. Clitennestra è preda del proprio dolore, ma la sua
complessità e la forza di questa “lacerazione” emotiva si perdono appena dopo
il primo capitolo, per dare spazio a una madre sconosciuta, una donna di potere
visto negativamente, preda della meschinità del proprio amante e di un istinto
materno ormai deforme. Viene a mancare il panorama immaginifico/immaginario di
figure astratte e simboliche che orientano la vita terrena e danno senso anche
agli accadimenti più feroci. Appunto, gli Dei, o se preferiamo, la
rappresentazione di un grande Altro.
Forse l’obiettivo vero di questo libro non è compiere un
cerchio mitico in cui bene e male, giusto e sbagliato, vita e morte,
coesistono. Ma piuttosto smascherare la ferita che lacera la vita
contemporanea, e cioè quella eterna distanza incomprensibile e stimolante tra
tutti questi opposti
Vale forse qui la più che contemporanea massima di Mies
van der Rohe, per cui “di meno è di più”? Forse si, con tutta la sua ambiguità
e doppiezza. “Di meno” – meno immaginazione, meno simbolismo, meno religione,
meno riferimenti ad entità superiori, trascendenti e insondabili – è “di più”
nel momento in cui apre a una narrazione più prolissa, più estesa ed esplosa.
Apre al dubbio, alla necessità di percorrere in dettaglio ciò che non si
comprende mai appieno. E alla rovescia, “di più” equivale a “meno” nel momento
in cui si palesa il vuoto di senso e significato che il modo di pensare
contemporaneo inevitabilmente spalanca di fronte all’individuo. Che cosa resta,
una volta che eliminiamo gli Dei che così crudelmente hanno condotto Ifigenia e
di conseguenza Agamennone alla morte?
Gli eroi non ci sono più. E nemmeno i puri. La loro
stessa identità e natura sono messe in discussione.
Restano, a questo punto, solo le domande: il progetto di
Tóibín è riuscito alla perfezione o è incompleto? Il riflesso di chi vediamo in
queste pagine? Perché ci appare sempre parzialmente appannato, inafferrabile?
Forse l’obiettivo vero di questo libro non è compiere un cerchio mitico in cui
bene e male, giusto e sbagliato, vita e morte, coesistono. Ma piuttosto
smascherare la ferita che lacera la vita contemporanea, e cioè quella eterna distanza
incomprensibile e stimolante tra tutti questi opposti. Ferita che ci lascia
inevitabilmente pieni di domande e dubbi.
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