M. Il figlio del secolo (Bompiani), il nuovo romanzo
storico di Antonio Scurati in gran parte scritto dal punto di vista di Benito
Mussolini, è uno dei libri recenti di cui si è parlato di più. È arrivato nelle
librerie il 12 settembre e da cinque settimane è nella classifica dei dieci
libri più venduti: in quella della settimana scorsa era risalito al sesto
posto.
«Dopo anni di narrazione prima fascista e poi
antifascista, è caduta la pregiudiziale ideologica. I ragazzi di oggi nei licei
non capiscono perché bisogna dirsi antifascisti, i politici civettano con gli
slogan del duce. Era ora di riscrivere questa storia da dentro. Perché il
lettore diventasse antifascista alla fine e non all'inizio della lettura» ha
spiegato a La Repubblica Scurati, legato a Ravello sin da ragazzino e che
tutt'oggi non rinuncia a trascorrervi le vacanze nella casa di famiglia a San
Pietro alla Costa.
M. ha ricevuto ottime recensioni, ma è anche stato al
centro di un acceso confronto tra lo storico ed editorialista del Corriere
della Sera Ernesto Galli della Loggia e lo stesso Scurati: dato che è un
romanzo storico in cui «ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o
discorso narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da
più di una fonte», come si legge in un avviso che precede l’incipit, Galli
della Loggia aveva criticato Scurati e Bompiani, la casa editrice del romanzo,
per alcuni errori storici che contiene (in gran parte piccoli, si può dire).
La replica di Scurati dalle pagine del Corriere della
Sera: «Stimo Galli della Loggia e non gli farò il torto di attribuire a
sentimenti poco nobili il suo attacco al mio M. Il figlio del secolo. Né mi
rifugerò nella sprezzatura di opporre il silenzio alle critiche.
Cominciamo dagli errori. Ci sono e l’onestà intellettuale
m’impone di riconoscerli.La data di Caporetto è slittata dall’ottobre a
novembre per un refuso con la medesima data di un altro anno menzionata poche
righe più sotto. Il cortocircuito tra Pascoli e Carducci è accaduto.Mea culpa.
La lettera sulla fiducia al governo Mussolini è autentica, e molto
significativa, ma a causa di una svista viene attribuita a Francesco De Sanctis
quando, evidentemente, fu scritta dal suo quasi omonimo Gaetano De Sanctis. Ci
sono, nel mio libro, questi errori e probabilmente anche altri, nonostante
Bompiani abbia sottoposto il testo a doppia revisione da parte di un letterato
e di uno storico specialista del periodo. Sono sfuggiti. Non dovrebbe accadere
ma l’imperfezione è inevitabile, soprattutto in un libro di 850 pagine che
abbraccia un’intera epoca. Io ho studiato per anni per fornire al romanzo una
solida base documentale e mi sono impegnato con i lettori a non inserire nessun
personaggio, accadimento o discorso liberamente inventati secondo un criterio
rigoroso. Confermo di essermi attenuto con il massimo scrupolo a questo
criterio, nei limiti delle mie possibilità. Non ho mai sostenuto di essere
infallibile.
Da altri errori imputatimi credo di poter essere
discolpato. Le telescriventi effettivamente «ticchettavano» nella sala del
Viminale la notte della marcia su Roma stando alla testimonianza di Efrem
Ferraris che descrive il loro suono inquietante in una pagina delle sue
memorie. Soprattutto, però, non è un errore l’aver qualificato Benedetto Croce
come «professore». So benissimo che disprezzò per tutta la vita l’Accademia.
Gli errori sono la banalità della condizione umana, testimoniano soltanto la
nostra fallibilità. Qui, invece, la questione mi pare si faccia più
interessante. Qui c’è un equivoco che getta luce sulla differenza tra lo
sguardo dello storico e quello del romanziere. Non sono io, autore del romanzo,
a qualificare Croce come «professore», ma è Mussolini, suo protagonista. È il disprezzo
dei fascisti, dal cui punto di vista il romanzo è prevalentemente narrato, a
bollare il grande filosofo con quell’epiteto che loro ritenevano spregiativo.
Questa tecnica narrativa, che riferisce il punto di vista dei personaggi ad
accadimenti e persone, si chiama discorso indiretto libero ed è una risorsa
fondamentale della narrazione letteraria.
Il nocciolo della questione è tutto qui, credo:M, per
quanto fondato su una vasta base documentale, è un romanzo, non un saggio
storico. Conosco e ammiro il lavoro di ricostruzione puntuale dei fatti svolto
dagli storici di professione. Un lavoro senza il quale non potrebbe esistere
coscienza storica e senza il quale un romanzo come M non sarebbe nemmeno
pensabile. Ma M un romanzo, gioca un diverso gioco linguistico, riesce o
fallisce mirando a un diverso obiettivo, quello di integrare, di completare,
magari, il lavoro analitico della ricerca storica con la forza sintetica della
narrazione.
Da decenni il dibattito intellettuale contrappone storici
e romanzieri mettendoli in competizione. Io, al pari di altri romanzieri
europei della mia generazione, credo che la nostra epoca inviti, invece, a una
cooperazione tra il rigore della scienza storica e l’arte del racconto
romanzesco. Una sorta di nuova alleanza tra storici e romanzieri. Credo sia
auspicabile per molti motivi. Il primo tra tutti è l’avvenire delle nostre
scuole, lo sforzo comune per contrastare l’ignoranza della storia, e la
scomparsa del sentimento di essa, in cui i nostri studenti vanno sprofondando.
Un tema, questo, molto caro anche a Galli della Loggia.
Per quel che mi concerne, per anni mi sono sforzato di
dare alla smisurata massa documentale riguardante Mussolini una forma narrativa
che fosse rigorosa e avvincente, innovativa e rispettosa, appassionata e
appassionante, commossa e commovente, un racconto che fosse esigente e
popolare, capace di riscuotere quel periodo cruciale dal torpore delle aride
elencazioni di date, luoghi e nomi nel quale spesso lo hanno sprofondato le
aule scolastiche. E di fare tutto ciò commettendo il minor numero di errori
possibile. L’ho fatto nella convinzione che, come sosteneva Ricœur, il tempo
crudele che ci annienta divenga «tempo umano» solo quando entra in un racconto
e che il racconto del tempo trascorso raggiunga il suo pieno significato solo
quando diviene a sua volta parte del nostro sforzo quotidiano di vivere il
nostro tempo.
Giudichino pure i lettori se ho fallito, ma sospetto che
inchiodare la letteratura — o la vita, se è per questo — ai suoi inevitabili errori
sia, a sua volta, un errore».
Si pubblica di seguito un estratto del libro: l’incipit.
Si apre nel 1919, anno in cui Mussolini fondò il
movimento dei Fasci italiani di combattimento, da cui poi sarebbe nato il
Partito Fascista.
Fondazione dei Fasci di combattimento
Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919
Affacciamo sulla piazza del Santo Sepolcro. Cento persone
scarse, tutti uomini che non contano niente. Siamo pochi e siamo morti.
Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire.
La scena è vuota, alluvionata da undici milioni di
cadaveri, una marea di corpi - ridotti a poltiglia, liquefatti – montata dalle
trincee del Carso, dell’Ortigara, dell’Isonzo. I nostri eroi sono già stati
uccisi o lo saranno. Li amiamo fino all’ultimo, senza distinzioni. Sediamo sul
mucchio sacro dei morti.
Il realismo che segue ogni alluvione mi ha aperto gli
occhi: l’Europa è oramai un palcoscenico senza personaggi. Tutti spariti: gli
uomini con la barba, i padri monumentali melodrammatici, i magnanimi liberali
piagnucolosi, gli oratori magniloquenti, colti e fioriti, i moderati e il loro
buon senso, cui da sempre dobbiamo la nostra sciagura, i politici decotti che
vivono nel panico del crollo imminente, elemosinando ogni giorno una proroga
all’inevitabile evento. Per tutti loro la campana è suonata. Gli uomini vecchi
saranno travolti da questa massa enorme, cinque milioni di combattenti premono
ai confini territoriali, cinque milioni di ritornanti. Bisogna mettersi al
passo, passo serrato. La previsione non cambia, farà brutto ancora. All’ordine
del giorno è ancora la guerra. Il mondo va verso due grandi partiti: quelli
che ci sono stati e quelli che non ci sono stati.
Lo vedo, tutto questo lo vedo con chiarezza in questa
platea di deliranti e derelitti, eppure non ho niente da dire. Siamo un popolo
di reduci, un’umanità di superstiti, di avanzi. Nelle notti di sterminio,
acquattati nei crateri, una sensazione simile all’estasi degli epilettici ci ha
scossi. Parliamo brevemente, laconici, assertivi, a raffiche. Mitragliamo le
idee che non abbiamo, poi subito ricadiamo nel mutismo. Siamo come fantasmi
d’insepolti che hanno lasciato la parola tra la gente delle retrovie.
Eppure questa, solo questa è la mia gente. Lo so bene.
Io sono lo sbandato per eccellenza, il protettore degli smobilitati, lo
sperduto alla ricerca della strada. Ma l’azienda c’è e bisogna portarla
avanti. In questa sala semivuota, dilatate le narici, fiuto il secolo, poi
tendo il braccio, cerco il polso della folla e sono sicuro che il mio pubblico
ci sia.
La prima adunata dei Fasci di combattimento, strombazzata
per settimane daIl Popolo d’Italiacome un appuntamento fatidico, era stata
fissata al Teatro dal Verme, capace di 2000 posti. Ma la vasta platea è stata
disdetta. Tra la grandezza del deserto e la piccola vergogna, abbiamo preferito
la seconda. Abbiamo ripiegato su questa sala riunioni del Circolo dei
commercianti e degli industriali. È qui che ora dovrei parlare. Tra quattro
pareti tappezzate di un triste verde lago, affacciato sul nulla di una grigia
piazzetta parrocchiale, tra le dorature che invano tentano di riscuotere dal
loro torpore le poltrone Biedermeier, in mezzo a poche capigliature arruffate,
calvizie, moncherini, reduci smagriti che respirano l’asma minore di commerci
consuetudinari, antiche prudenze e meticolose avarizie di bilanci. In fondo
alla sala, ogni tanto, si affaccia curioso qualche socio del circolo. Un
grossista di sapone, un importatore di rame, roba del genere. Getta uno sguardo
perplesso, poi torna a fumare il sigaro e a bersi un Campari.
Ma perché dovrei parlare?!
La presidenza dell’assemblea è stata assunta da
Ferruccio Vecchi, fervente interventista, capitano degli Arditi collocato in
congedo per malattia, bruno, alto, pallido, scarno, con gli occhi infossati: le
stigmate della degenerazione morbosa. Un tubercolotico eccitabile e impulsivo
che predica con violenza, senza sostanza o misura, e nei momenti salienti delle
manifestazioni pubbliche si esalta come un ossesso, in preda a un delirio demagogico
e, allora... allora diventa realmente pericoloso. La segreteria del movimento
verrà quasi sicuramente affidata ad Attilio Longoni, un ex ferroviere
ignorante, zelante e sciocco come solo gli onesti sanno essere. A lui, o a
Umberto Pasella, nato in carcere da un padre secondino, poi agente di
commercio, sindacalista rivoluzionario, garibaldino in Grecia, prestigiatore
nei circhi itineranti. Gli altri dirigenti li sceglieremo a caso tra chi ha
fatto più baccano nelle prime file.
Perché dovrei parlare a questi uomini?! A causa loro i
fatti hanno superato ogni teoria. È gente che prende la vita d’assalto come un
commando. Ho davanti a me solo la trincea, la schiuma dei giorni, l’area dei
combattenti, l’arena dei folli, il solco dei campi arati a colpi di cannone, i
facinorosi, gli spostati, i delinquenti, i genialoidi, gli oziosi, i playboy
piccolo-borghesi, gli schizofrenici, i trascurati, i dispersi, gli irregolari,
nottambuli, ex galeotti, pregiudicati, anarchici, sindacalisti incendiari,
gazzettieri disperati, una bohème politica di reduci, ufficiali e
sottoufficiali, uomini esperti nel maneggio di armi da fuoco o da taglio,
quelli che la normalità del rientro ha riscoperto violenti, i fanatici
incapaci di vedere chiaro nelle proprie idee, i sopravvissuti che, credendosi
eroi votati alla morte, scambiano una sifilide mal curata per un segno del
destino.
Lo so, li vedo qui davanti a me, li conosco a memoria:
sono gli uomini della guerra. Della guerra o del suo mito. Li desidero, come il
maschio desidera la femmina e, insieme, li disprezzo. Li disprezzo, sì, ma non
importa: un’epoca è finita e un’altra è cominciata. Le macerie si cumulano, i
rottami si richiamano a vicenda. Io sono l’uomo del "dopo". E ci
tengo. È con questo materiale scadente – con questa umanità di risulta – che
si fa la storia.
In ogni caso, questo ho davanti. E alle spalle niente.
Alle spalle ho il 24 novembre del millenovecentodiciassette. Caporetto.
L’agonia della nostra epoca, la più grande disfatta militare di tutti i tempi.
Un esercito di un milione di soldati distrutto in un fine settimana. Alle
spalle ho il 24 novembre del millenovecentoquattordici. Il giorno della mia
espulsione dal Partito socialista, la sala della Società umanitaria in cui
maledissero il mio nome, gli operai di cui fino al giorno prima ero stato
l’idolo che si atterravano a vicenda per aver l’onore di prendermi a cazzotti.
Ora ricevo ogni giorno i loro auguri di morte. La augurano a me, a D’Annunzio,
a Marinetti, a De Ambris, anche a Corridoni che è caduto quattro anni fa nella
terza battaglia dell’Isonzo. Augurano la morte ai già morti. A questo punto ci
odiano per averli traditi.
Le folle "rosse" presentono l’imminenza del
loro trionfo. In sei mesi sono crollati tre imperi, tre casate che governavano
l’Europa da sei secoli. L’epidemia d’influenza "spagnola" ha già
contagiato decine di milioni di vittime. Gli avvenimenti traducono sussulti
apocalittici. La settimana scorsa a Mosca si è riunita la Terza Internazionale
comunista. Il partito della guerra civile mondiale. Il partito di quelli che mi
vogliono morto. Da Mosca a Città del Messico, su tutto l’orbe terrestre.
Inizia l’epoca della politica delle masse e noi, qua dentro, siamo in meno di
cento.
Ma anche questo non importa. Nessuno crede più alla
vittoria. È già venuta e sapeva di fango. Questo nostro entusiasmo –
giovinezza, giovinezza! – è una forma suicida di disperazione. Siamo con i
morti, rispondono loro al nostro appello in questa sala semivuota, a milioni.
Giù in strada le grida dei garzoni invocano la
rivoluzione. Noi ridiamo. La rivoluzione l’abbiamo già fatta. Spingendo a
calci questo Paese in guerra, il 10 maggio del millenovecentoquindici. Ora
tutti ci dicono che la guerra è finita. Ma noi ridiamo ancora. La guerra siamo
noi. Il futuro ci appartiene. È inutile, non c’è niente da fare, io sono come
le bestie: sento il tempo che viene.
Benito Mussolini è di forte costituzione fisica sebbene
sia affetto da sifilide.
Questa sua robustezza gli permette un continuo lavoro.
Riposa fino a tarda ora del mattino, esce di casa a
mezzogiorno ma non rientra prima delle 3 dopo mezzanotte e queste quindici ore,
meno una breve sosta per i pasti, sono dedicate all’attività giornalistica e
politica.
È un sensuale e ciò è dimostrato dalle molte relazioni
contratte con svariate donne.
È un emotivo e un impulsivo. Questi suoi caratteri lo
rendono suggestivo e persuasivo nei suoi discorsi. Pur parlando bene, però,
non lo si può definire propriamente un oratore.
È in fondo un sentimentale e questo gli attira molte
simpatie, molte amicizie.
È disinteressato, generoso, e questo gli ha procurato
una reputazione di altruismo e filantropia.
È molto intelligente, accorto, misurato, riflessivo,
buon conoscitore degli uomini, delle loro qualità e dei loro difetti.
Facile alle pronte simpatie e antipatie, capace di
sacrifici per gli amici, è tenace nelle inimicizie e negli odi.
È coraggioso e audace; ha qualità organizzatrici, è
capace di determinazioni pronte; ma non altrettanto tenace nelle convinzioni e
nei propositi.
È ambiziosissimo. È animato dalla convinzione di
rappresentare una notevole forza nei destini d’Italia ed è deciso a farla
valere. È uomo che non si rassegna a posti di secondo ordine. Vuole
primeggiare e dominare.
Nel socialismo ufficiale salì rapidamente da oscure
origini a posizione eminente. Prima della guerra, fu il direttore ideale
dell’Avanti!, il giornale che guida tutti i socialisti. In quel campo fu molto
apprezzato e molto amato. Qualcuno dei suoi antichi compagni e ammiratori
confessa ancora oggi che nessuno meglio di lui seppe comprendere e interpretare
l’anima del proletariato, il quale vide con dolore il suo tradimento
(apostasia) quando nel giro di poche settimane da apostolo sincero e
appassionato della neutralità assoluta divenne apostolo sincero e appassionato
dell’intervento in guerra.
Io non credo che questo fu determinato da calcolo
d’interesse o di lucro.
Quanta parte, poi, delle sue convinzioni socialiste, che
non ha mai pubblicamente rinnegato, si sia sperduta nelle transazioni
finanziarie indispensabili a continuare la lotta tramite Il Popolo d’Italia, il
nuovo giornale da lui fondato, nel contatto con uomini e correnti di diversa
fede, nell’attrito con gli antichi compagni, sotto la costante pressione
dell’odio indomabile, della acida malevolenza, delle accuse, degli insulti,
delle calunnie incessanti da parte dei suoi antichi seguaci, è impossibile
stabilirlo. Ma se queste segrete alterazioni si sono verificate, inghiottite
nell’ombra delle cose più prossime, Mussolini non lo lascerà mai trasparire e
vorrà sempre sembrare, s’illuderà forse sempre di essere, socialista.
Questa, secondo le mie indagini, la figura morale
dell’uomo, in contrasto con l’opinione dei suoi antichi compagni di fede e adepti.
Ciò detto, se una persona di alta autorità e
intelligenza saprà trovare nelle sue caratteristiche psicologiche il punto di
minor resistenza, se saprà innanzitutto essergli simpatico e insinuarsi nel
suo animo, se saprà dimostrargli quale sia il vero interesse dell’Italia
(perché io credo nel suo patriottismo), se con molto tatto gli offrirà i
fondi indispensabili per l’azione politica concordata, senza dare l’impressione
di un volgare addomesticamento, il Mussolini si lascerà a poco a poco conquistare.
Ma col suo temperamento non si potrà mai avere la
certezza che, a una svolta della strada, lui non defezioni. È, come già
detto, un emotivo e un impulsivo.
Certo che in campo avversario Mussolini, uomo di pensiero
e di azione, scrittore efficace e incisivo, oratore persuasivo e vivace,
potrebbe diventare un condottiero, un picchiatore temibile.
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