Nelle scorse settimane il Fondo Monetario Internazionale
ha più volte criticato la manovra economica del governo italiano, con Poul
Thomsen, capo del dipartimento europeo dell’Fmi, che ha invitato Roma a ”
rispettare le regole dell’Unione europea con la sua legge di bilancio del 2019
e costruire un buffer di liquidità per attutire la prossima crisi economica” e
la direttrice Christine Lagarde che ha dichiarato di sperare in “una distanza”
tra la “retorica” del governo italiano, che allarma Bruxelles, e “le cifre
finali” del bilancio del Paese.
Proprio Christine Lagarde, nei prossimi mesi, potrebbe
essere chiamata a un ruolo di maggiore visibilità nel contesto dell’economia
internazionale. Negli ultimi tempi eventi come la crisi commerciale
sino-americana, il crollo del valore delle valute di diversi Paesi in via di
sviluppo (Turchia, Iran, Pakistan, Argentina) e i rischi per una nuova, grande
crisi sistemica generata dalle disfunzionalità del mercato bancario non sono
stati bilanciati da un’adeguata capacità di reazione da parte del Fmi.
Intrappolato nella ristretta area ideologica che ha
sempre influenzato la sua azione, fondata sulla concessione di aiuti a Paesi in
difficoltà in cambio di riforme strutturali draconiane nel sistema economico,
sociale e previdenziale, il Fmi ha proposto le prime, timide aperture a
politiche in sostegno alla domanda nel 2016, ma senza che ciò producesse
sostanziali cambiamenti. E il timore per un mancato cambio di direzione
dell’ente guidato dalla Lagarde rende necessario considerare con dovuta cautela
il suo recente interesse per il nostro Paese.
La Troika “informale” contro l’Italia
Tra l’11 e il 12 ottobre il governo Conte ha ricevuto
reprimende da tutti e tre le istituzioni costituenti la famosa “Troika” vista
in azione in Grecia: il fatto che Jean-Claude Juncker, presidente della
Commissione europea, e Mario Draghi, direttore della Bce, fossero in completo
disaccordo con la manovra italiana era però prevedibile. Meno che critiche
della stessa intensità arrivassero anche da oltre Atlantico, sede Fmi. Segno
che l’allineamento di intenti tra Bce, Commissione e Fmi nei confronti
dell’Italia appare simile a quello che caratterizzò il caso greco nel 2011.
Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ha
ironizzato sottolineando che all’elenco dei critici della manovra italiana
manca “solo la Nasa e qualche ente di qualche altro pianeta”. In ogni caso, la
situazione è da tenere monitorata: spiace vedere in questo contesto oppositori
del governo italiano di diversa estrazione, dall’ex presidente dell’Eurogruppo
Jeroen Dijsselbloem alla giornalista del Corriere Maria Teresa Meli, invocare
il commissariamento del Paese da parte dei custodi dell’austerità senza
preoccuparsi di cosa ciò costituirebbe per un Paese che ha già sperimentato, in
forma non completa, il rigore imposto da Mario Monti, Elsa Fornero e i tecnici
loro accoliti tra il 2011 e il 2013. Il caso greco insegna che la Troika
significherebbe, per l’Italia, la rovina.
I disastri del Fmi della Lagarde nella Grecia distrutta
dall’austerità
Nel giugno scorso la Troika ha definitivamente tolto la
Grecia dal commissariamento economico e finanziario in cui era stata vincolata
dal 2011 in avanti. Proprio nel momento in cui la Lagarde ascese alla guida del
Fmi, la Troika ampliò la sua esposizione nei confronti di Atene.
“Giunta al Fmi nel 2011, Lagarde esaminò alla lente il
Paese di Platone. ‘È in bancarotta’, pontificò”, scrive La Verità. Con l’ Ue,
decisero di togliergli la sovranità e governarlo loro. Il torchio è durato sette
anni”. Ora, “la Grecia è tornata padrona di sé stessa e ha scoperto che
dall’orlo, dove stava prima, era finita nel baratro”.
E di baratro è giusto parlare guardano la dimensione
della macelleria sociale imposta al Paese ellenico: “Rispetto a quando stava
male e Christine la prese in cura, la Grecia ha perduto il 25% del Pil, un
quarto dei 5 milioni di abitanti è in povertà assoluta, 500mila sono emigrati,
la disoccupazione è al 22% (43%, tra i giovani), il debito pubblico, che era al
140%, è oggi al 180 sul Pil”.
Atene si è impegnata a spalmare il rimborso dei suoi
debiti su un lasso di tempo smodatamente lungo, destinato a protrarsi fino al
2060. Mettere preventivamente in conto quarant’anni di ulteriore austerità
significa abdicare a ciò che resta della sovranità politica ed economica del
Paese. La svendita di asset pubblici più grande della storia europea (compagnie
energetiche, aeroporti, autostrade e così via) non contribuirà ad alleviare una
sofferenza oramai indicibile e la perdita di una generazione, distrutta assieme
al tessuto sociale del Paese.
Solo di recente l’Fmi ha dichiarato errate le stime
effettuate in Grecia nel 2010, quando aveva imposto a 0,5 il cosiddetto
moltiplicatore fiscale che, come si può leggere sul blog di Alberto Bagnai,
“esprime l’impatto che una manovra di spesa pubblica avrà sul Pil.
Moltiplicatore di 0.5 significa che un aumento di spesa pubblica di un euro
incrementa il Pil di 0.5 euro, e naturalmente (moltiplicando per meno uno), che
una diminuzione di spesa pubblica di un euro decrementa il Pil di 0.5 euro”.
Nella realtà, il moltiplicatore per la Grecia si è
dimostrato essere addirittura triplo, come confermato da un crollo del Pil
superiore al 25%. La tecnica tiranna, si dirà. Una tecnica che vorremmo si
tenesse a lungo lontana dai lidi italiani.
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