Raggiunto un
nuovo accordo tra governo greco e troika: garantirà risorse fondamentali per
ripagare debiti in scadenza. Il prossimo passo sarà la difficile trattativa
sulla riduzione del debito. Ma non esistono scorciatoie per la soluzione delle
crisi.
La saga sulla
crisi della Grecia e dei suoi rapporti con la troika si arricchisce negli
ultimi giorni di un nuovo tassello. Il governo greco ha trovato un accordo con
Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione europea su
un ampio insieme di misure fiscali e strutturali che, se ratificate dal
parlamento greco, consentirà l’erogazione di una nuova rata del terzo piano di
salvataggio per circa 7,4 miliardi di euro. Le risorse sono fondamentali per la
Grecia per rimborsare circa 6 miliardi di euro di debiti in scadenza. L’insieme
delle riforme spazia da nuovi tagli alle pensioni, una riforma della tassazione
dei redditi e misure per favorire la concorrenza, come l’apertura domenicale
dei negozi.
Sul tira e molla
tra governo greco e troika nulla di nuovo: il gioco è sempre lo stesso. La
troika minaccia di bloccare l’erogazione delle risorse come strumento di
disciplina dell’azione del parlamento greco rispetto agli impegni previsti. Il
governo greco, dal canto suo, cerca di confezionare riforme che siano
digeribili al suo elettorato e evitino il rischio di elezioni, vista la
popolarità in forte calo di Syriza e il sorpasso, secondo molti sondaggi, da
parte di Nuova Democrazia, il partito di centro-destra.
La questione del
debito
L’ultimo accordo
ha però un valore particolarmente importante. In primo luogo, potrebbe aprire
la porta all’inserimento del debito greco nei piani di acquisto da parte della
Banca centrale europa, secondo alcuni già dal prossimo giugno. In secondo
luogo, ci si avvicina alla data di conclusione del terzo piano di salvataggio,
nell’agosto 2018, dopo la quale sembra realistico avviare un tavolo di
trattativa sulla riduzione del debito greco. Una recente dichiarazione di
Pierre Moscovici, commissario europeo all’economia, sembra confermarlo.
La trattativa non
sarà facile, viste le posizioni al momento molto distanti di Germania e Fondo
monetario di cui avevo scritto in precedenza. Berlino non reputa possibile un
taglio del valore nominale del debito e ritiene che il Fondo debba partecipare
a eventuali prossimi piani di supporto alla Grecia. L’Fmi, invece, vorrebbe
sfilarsi e lasciare alle istituzioni europee il fardello finanziario e comunque
vede come imprescindibile il taglio del debito. Come spiegano in una recente
ricerca Jeromin Zettelmeyer, Erike Kreplin e Ugo Panizza, una forma di supporto
alla Grecia è inevitabile dal momento che, benché la spesa per interessi sia
ora molto bassa, vi è il rischio che l’eventuale rifinanziamento di una parte
di debito in scadenza a tassi elevati possa destabilizzare di nuovo il paese.
Se un taglio del
debito nominale sembra difficile, è plausibile un accordo in termini di
estensione delle scadenze dei prestiti in essere e tassi di interesse di
favore, legato a forme di controllo da parte delle istituzioni europee
sull’efficacia delle riforme strutturali.
Una soluzione
positiva della saga del debito greco è sicuramente auspicabile, ma le
istituzioni europee non devono fare passare il messaggio, a cui anche in Italia
alcuni ammiccano, che vi sia una scorciatoia indolore rispetto all’uscita da
situazioni di alto debito.
La crisi greca ha
avuto un costo enorme. In primo luogo, naturalmente, per i greci che hanno
visto il reddito reale ridursi di circa il 25 per cento rispetto ai valori di
inizio 2007 e sono tuttora afflitti da una disoccupazione vicina al 25 per
cento. Ma anche l’Europa ha fatto la sua parte: ha erogato alla Grecia circa
180 miliardi di euro a partire dal 2010, senza contare la parte di debito
cancellato nei primi due piani di salvataggio. Chi spinge per soluzioni
apparentemente senza costi, gioca con il fuoco. Basta ricordare i risultati
disastrosi del referendum promosso da Syriza nel luglio 2015 e che avrebbe
dovuto forzare la mano delle istituzioni internazionali. La Grecia finì per
siglare un accordo peggiore a causa della fuga dei depositi per circa 45
miliardi e del collasso del sistema finanziario con costi stimati da alcuni in
circa 85 miliardi di euro.
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