La produzione
stagna e i senza lavoro sono in crescita al 9,4 per cento. La partecipazione
all'Eurozona è dogmatica e incanalata sui binari dell'austerità. E il governo è
tentato dal mettere all'angolo i sindacati per svalutare salari e costi di
produzione
HELSINKI - La produzione stagna, tra
trimestri di miniripresina e trimestri negativi, dopo tre lunghi anni
abbondanti di recessione. La disoccupazione è in aumento al 9,4 per cento,
contro il minimo storico del 4,1 per cento nella vicina Svezia, la potenza regionale
leader. I costi della produzione salgono, l'indice di fiducia dei consumatori
cala. La Finlandia, unico paese nordico membro dell'Eurozona, governata dalla
coalizione di centrodestra tra i conservatori del premier-imprenditore Juha
Sipila e i nazionalpopulisti euroscettici e antimigranti del vicepremier Timo
Soini, fatte le debite differenze rischia di somigliare sempre più (a modo suo,
s'intende) a un Italia della comunità nordica, se non a una Grecia. E non si
vede una luce alla fine del tunnel.
I dati parlano chiaro. Dopo tre anni di
contrazione del prodotto interno lordo, si è passati a ripresine dallo 0,2 per
cento (media del quarto trimestre dell'anno da poco conclusosi) a punte poco
lusinghiere dello 0,9 per cento nelle stagioni migliori del 2015 e del 2016. Su
circa 5 milioni e mezzo di finlandesi, i senza lavoro sono appunto in crescita,
al 9,4 per cento. La disoccupazione colpisce gli operai più anziani dei
comparti produttivi tradizionali in crisi - dalle cartiere uccise dai media
digitali a Nokia declassata da Apple, Samsung e Huawei, per citare Alexander
Stubb, uno dei più professionali e autorevoli politici locali - ma colpisce
duro anche i giovani. Perché i settori in crescita sono soprattutto start-up
internettiane, "capital intensive", aziende che magari realizzano
utili di prima classe ma con pochissimi dipendenti. Mentre i settori
"labour intensive" appaiono in ritirata. Non bastano i pochi giganti
industriali come Kone, che con Schindler, ThyssenKrupp e Otis è uno dei big
mondiali di scale mobili, rampe e tapis roulants e altri simili mezzi di
mobilità interna a edifici.
Non bastano gli eccellenti dati di
bilancio della compagnia di bandiera nazionale Finnair, roba da far invidia ad
Alitalia ma un po' anche a Lufthansa grazie alla flotta modernissima e
all'ottima rete verso l'Estremo oriente, attraente per il vasto pubblico dei
viaggiatori d'affari globali. Mancano al "Paese dei mille laghi"
aizende global-player del calibro di Volvo, Hasselblad, Saab aviazione,
Ericsson, o Skype e Spotify in Svezia, o analoghe a Lego o a Dong (numero uno
mondiale delle pale eoliche) in Danimarca. Manca la creatività della Norvegia
che da petroStato si converte in paese ultraecologico e reindustrializza, o
dell'Islanda uscita dalla crisi del 2008-2009 con turismo, ecologia, energia
pulita e tecnologia per usarla, esportata da Reykjavìk persino in Cina.
L'aumento dei prezzi alla produzione è salito in un solo mese, da dicembre a
gennaio, dal 2,4 per cento al 3,9 per cento su base mensile.
In più, la disciplina di bilancio
imposta dalla partecipazione all'Eurozona è a volte letta da Helsinki in modo
dogmatico, stile Bundesbank. Sebbene il governatore della Suomen Pankkii, il
gioviale e preparatissimo Erkki Liikanen, non sia un falco alla Weidmann. Il governo,
falliti i negoziati per nuovi patti sociali, secondo l'agenzia Bloomberg medita
ora di tentare di limitare i poteri del sindacato. Uno strappo rispetto alla
tradizione di concertazione compromessi cogestione e dialogo, prevalente nel
Grande Nord da quando i socialdemocratici la introdussero in Svezia.
Probabilmente l'esecutivo di Helsinki vuole limitare i poteri del sindacato per
introdurre "svalutazioni interne", cioè ridurre i costi di produzione
per cercare di tornare competitivi come ai tempi d'oro di quando la Finlandia
era chiamata con invidia "Nokia republic" dal resto del mondo
avanzato. Ma l'idea dell'esecutivo rischia di divenire un gatto che si morde la
coda: paghe più basse con disoccupazione alta producono una domanda interna più debole, senza alcuna
garanzia di aumento dell'export. L'aumento delle spese militari, imposto dalle
continue minacce, provocazioni, cyberwars e violazioni di sovranità
territoriale da parte dell'aggressivo vicino, la Russia di Putin, non migliora
la situazione.
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