Παρασκευή 16 Σεπτεμβρίου 2016

Brexit, Grecia e Austria Ecco perché Renzi trema

Matteo Renzi alla festa dell'Unità di ModenaLa maledizione dei «poteri forti» Da Atene a Londra, perdono tutte le elezioni

Pare che l’improvvida uscita sul referendum costituzionale dell’ambasciatore americano in Italia, John Phillips, sia stata accolta con molta più irritazione tra le pareti di Palazzo Chigi che dalle parti delle opposizioni.
Sì, perché gli endorsement dei cosiddetti «poteri forti» (non solo l’amministrazione Usa, ma anche le controverse agenzie internazionali di rating) oramai sono diventati un vero e proprio abbraccio mortale per chi li riceve. Oltre che una manna per chi, invece, ne subisce gli strali. Il primo caso - e forse il più emblematico - è quello di Alexis Tsipras in Grecia. Nonostante un mandato al governo nel quale era riuscito a tradire praticamente tutti gli impegni presi in campagna elettorale, il leader di Tsipras brandendo la bandiera anti-Ue è riuscito a ri-vincere le Politiche e a far votare i greci compattamente in un referendum contro ogni tipo di accordo con Bruxelles. Salvo piegare poi le sue politiche ai diktat della Troika. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Passaggio analogo è avvenuto in Gran Bretagna, dove i profeti di sventura in caso di Brexit sono stati umiliati alle urne oltre che contraddetti poi dalla realtà dei fatti. È vero che le procedure per l’uscita di Londra dalla Ue richiederanno almeno due anni per completarsi, ma al momento tutti gli scenari catastrofici (in primis quelli su una svalutazione della sterlina che avrebbe ridotto i sudditi di Sua Maestà come i tedeschi del primo dopoguerra) si sono rivelati solamente uno spauracchio senza fondamento. In attesa di altri voti potenzialmente molto più pericolosi per i burocrati della Ue che per gli elettori interessati - dal «replay» delle presidenziali austriache al referendum ungherese antimigranti - Renzi ha insomma molto più da temere che da festeggiare per il buffetto amichevole degli Usa e della grande finanza. Non a caso ha evitato di cavalcare le parole di Phillips così come gli scenari catastrofici in caso di vittoria del «no» paventati da Fitch e Moody’s. Rallegrandosi, semmai, per le parole di Mattarella che ha giustamente e orgogliosamente rivendicato la sovranità del popolo italiano. E così al premier non resta che allontanare il più possibile la data del referendum (ieri ha svelato che «sarà fissata nel Cdm del 26 settembre», e che quindi cadrà tra il 20 novembre e il 4 dicembre) e cercare di svuotare la consultazione da tutti i significati biblici adombrati fino a qualche mese fa. Lo ha già fatto alcuni giorni orsono («se vince il no non crolla il mondo, resta semplicemente tutto com’è»), lo ripeterà anche nelle prossime settimane, consapevole che gli elettori mal sopportano ultimatum catastrofici. Peccato che l’atteggiamento low profile (nonché la disponibilità a ritoccare l’Italicum) non gli abbia consentito di recuperare il rapporto con la sinistra Pd. «La minoranza voterà no - ha detto il deputato bersaniano Davide Zoggia - lo abbiamo deciso ieri (mercoledì, ndr) sera». Tutti con D’Alema, quindi. E, a pensarci bene, per il premier l’unica buona notizia potrebbe essere questa. Perché gli abbracci del leader Massimo, proprio come quelli dei «poteri forti», non hanno mai portato troppa fortuna nelle urne...

Carlantonio Solimene
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