Il 26 settembre 1687 veniva compiuto uno dei più grossi scempi della storia dell’umanità: le truppe veneziane, al comando di Francesco Morosini, facevano saltare in aria il Partenone. Il tempio greco, giunto quasi intatto dai tempi di Pericle, brucia per due giorni e l’esplosione ammazza due o trecento persone (vittime ignorate di una tragedia dimenticata). Da quel momento il Partenone diventa una rovina e gli ateniesi utilizzeranno i blocchi di calcare per cucinarli e ricavarne calce. I blocchi non lisci, ovvero quelli con i bassorilievi, erano più apprezzati perché assorbivano meglio il calore. Questo spiega perché Lord Elgin si considerasse un salvatore delle mètopi di Fidia: se non le avesse portate a Londra, avrebbero rischiato di finire in pentola.
E questo lascia anche capire che senza Francesco Morosini, non sarebbe esistito nemmeno Lord Elgin.
E questo lascia anche capire che senza Francesco Morosini, non sarebbe esistito nemmeno Lord Elgin.
“Atene 1687. Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone” ripercorre le fasi dell’assedio di Atene, episodio militarmente minore, anzi insignificante, della guerra di Morea. Il conflitto si apre nel 1684 (l’anno dopo l’assedio di Vienna) e si chiude nel 1699 con la conquista del Peloponneso, l’ultima impresa coloniale veneziana. Le guerre anti turche di quegli anni assumono le caratteristiche di conflitti di civiltà, con coalizioni cristiane che si battono contro i musulmani ottomani. Quando a Morosini viene ordinato di conquistare Atene, solo la metà dei suoi uomini sono veneziani (schiavoni dalmati compresi), gli altri sono tedeschi, milanesi, toscani e maltesi. Al momento dell’assedio i turchi si rinserrano sull’Acropoli, già trasformata in fortezza e immagazzinano la polvere da sparo nell’edificio più solido: il Partenone. I veneziani per debellare la resistenza turca devono far saltare in aria la polveriera e la bombardano per due giorni, finché non la fanno esplodere (a sparare il colpo fatale pare sia stato un artigliere tedesco di Lüneburg). L’esplosione è immane, un testimone oculare riferisce che l’Acropoli sembrava “un Mongibello” (nome con cui al tempo era indicato l’Etna).
Il libro spiega come si è giunti alla vicenda, alla sua preparazione, ne ritrae i protagonisti di carne e di pietra (Francesco Morosini e il Partenone), illustra le conseguenze e la campagna giustificatoria che comincia all’indomani dell’episodio e che ha avuto un indubbio successo, visto che al giorno d’oggi pochi sanno che ai veneziani vada addossata una simile responsabilità (a parte i greci, che nel sito ufficiale del Museo dell’Acropoli scrivono: «L’anno peggiore per l’Acropoli, fu il 1687, quando le componenti architettoniche dell’edificio furono fatte saltare in aria e ricaddero a pezzi tutt’attorno, a causa di una bomba sparata dalle forze veneziane».
L’ultimo capitolo illustra quali siano le numerose vestigia di quella guerra ancora visibili nella Venezia di oggi: dalle scritte sui muri, al gatto imbalsamato di Morosini, agli stendardi fatti con le code di cavallo che il condottiero aveva strappato ai turchi battuti.
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