"La 'perennità' della cultura greca consiste in questo: nell'aver riflettuto sull'uomo, su ciò che l'uomo - a prescindere dalla sua epoca - deve affrontare per il fatto stesso di essere al mondo.
La Grecia, dunque, l'abbiamo dentro di noi, in ragione del nostro essere uomini"
Giuseppe Zanetto
(Siamo tutti greci)
Prof. Giuseppe Zanetto, Lei è autore del libro Siamo tutti greci edito da Feltrinelli: nel titolo riecheggia una famosa frase del poeta inglese Percy Shelley, «we are all Greeks»: che significa, esattamente, “siamo tutti greci”?
Shelley, da buon filelleno, pensava che la Grecia antica fosse per tutti gli uomini di cultura un modello assoluto di perfezione, e che quindi gli intellettuali europei, consapevoli di avere un debito morale nei confronti dei Greci, dovessero sostenere la causa ellenica nella guerra di indipendenza contro l’impero ottomano: “We are all Greeks” era una sorta di grido di battaglia. Nel mio caso, il motto “Siamo tutti greci” è servito invece come bussola: l’avevo ben chiaro in mente, quando il libro era ancora un groviglio informe, e ne ho tratto vantaggio nella stesura. Il titolo riassume infatti il senso ultimo di quel che ho inteso dire. Cerco di spiegarmi con un’immagine (e con una citazione). Per Platone la conoscenza è in realtà reminiscenza; dentro ciascuno di noi, infatti, è depositata la memoria di modelli che abbiamo visto e conosciuto prima di nascere, in una dimensione diversa dell’esistenza; queste categorie innate (che contengono la nozione del giusto, del bello, del buono) sono attivate poi dalle esperienze della vita quotidiana: mano a mano che viviamo e ci esponiamo al contatto con la realtà sensibile, le informazioni fornite dai sensi ridestano la memoria degli archetipi e consentono la costruzione di un sistema di pensiero e di giudizio. Qualcosa di simile vale anche per il nostro rapporto con la Grecia antica. Il complesso valoriale elaborato dalla mente greca (che copre l’intero campo della coscienza: sentimento di sé, cura di sé, percezione dell’altro, senso del vivere) è stato trasfuso dai Greci in istituzioni politiche, sociali, economiche, e si è riversato nell’arte e nella letteratura. La Grecia antica, cioè, ha pensato il mondo e ha costruito un mondo, producendone anche una rappresentazione, un modello. Il mondo dei Greci è andato in pezzi, travolto – come avviene per tutti i mondi creati dagli uomini – dagli uragani della storia. Ma il modello greco (la “grecitudine”) è sopravvissuto, penetrando nella memoria e nella coscienza collettiva dell’Occidente. La “grecitudine”, dunque, noi tutti l’abbiamo dentro, per il fatto stesso di essere nati e cresciuti in un contesto culturale che ne è intriso. In questo senso, siamo tutti greci.
Perché possiamo affermare che le nostre radici sono in Grecia?
Dire che le nostre radici sono in Grecia è una metafora, naturalmente. Una metafora che può essere fuorviante, e persino pericolosa, se la applichiamo pensando che esprima un’appartenenza etnica. Si tratta, invece, di un radicamento culturale: le nostre categorie di giudizio e di pensiero risalgono – in ultima analisi – alla “visione del mondo” elaborata dai Greci. Userò anche in questo caso un esempio. Nel dialogo di Plutarco intitolato “Sull’amore” si discute del senso del matrimonio; l’occasione è data dalla curiosa vicenda di Baccone e Ismenodora, una coppia decisamente “anomala”: lei è una giovane vedova, ricca, colta e attraente, lui un ragazzotto di belle speranze. Quando Ismenodora, ignorando i consigli di amici e parenti, “rapisce” Baccone e se lo porta in casa come marito, molti in città insorgono: non si è mai visto che una sposa abbia il doppio degli anni dello sposo e che prenda l’iniziativa, riducendo il partner a una conduzione di gregario, di esecutore. Queste nozze “scandalose” producono un dibattito a tutto campo, una riflessione collettiva sull’istituto matrimoniale. Che cos’è il matrimonio? Una “regola” sociale, giuridicamente disciplinata e convalidata dalla sua rispondenza a una consolidata convenzione? O una relazione affettiva, una condivisione di sentimenti che diventa poi, per naturale conseguenza, un’unione di corpi? Nel primo caso, non è giusto che la società imponga norme severe, a cui gli individui devono adeguarsi? Nel secondo caso, quale differenza c’è tra l’unione di un uomo e di una donna e quella di due individui dello stesso sesso? La coppia omoerotica non è, per molti aspetti, più “virtuosa” della coppia eterosessuale? Plutarco dà una risposta, ma facendo chiaramente intendere che è la “sua” risposta, ispirata alla sua personale esperienza di vita. In realtà, il dibattito rimane aperto, con tutte le opzioni sul tappeto. E si tratta di un dibattito estremamente moderno; leggendo l’operetta plutarchea si rimane sbalorditi dalla “riconoscibilità” degli argomenti: le discussioni di Plutarco e dei suoi amici anticipano quelle che da qualche decina di anni infiammano il dibattito pubblico, su temi come il divorzio, il diritto familiare, le unioni civili, le nozze gay. Ecco il punto: quando mettiamo in dubbio gli schemi tradizionali e ci illudiamo di essere alternativi, di rivoltare il vecchio mondo come un calzino, in realtà ripercorriamo pensieri già pensati.
Dire che le nostre radici sono in Grecia è una metafora, naturalmente. Una metafora che può essere fuorviante, e persino pericolosa, se la applichiamo pensando che esprima un’appartenenza etnica. Si tratta, invece, di un radicamento culturale: le nostre categorie di giudizio e di pensiero risalgono – in ultima analisi – alla “visione del mondo” elaborata dai Greci. Userò anche in questo caso un esempio. Nel dialogo di Plutarco intitolato “Sull’amore” si discute del senso del matrimonio; l’occasione è data dalla curiosa vicenda di Baccone e Ismenodora, una coppia decisamente “anomala”: lei è una giovane vedova, ricca, colta e attraente, lui un ragazzotto di belle speranze. Quando Ismenodora, ignorando i consigli di amici e parenti, “rapisce” Baccone e se lo porta in casa come marito, molti in città insorgono: non si è mai visto che una sposa abbia il doppio degli anni dello sposo e che prenda l’iniziativa, riducendo il partner a una conduzione di gregario, di esecutore. Queste nozze “scandalose” producono un dibattito a tutto campo, una riflessione collettiva sull’istituto matrimoniale. Che cos’è il matrimonio? Una “regola” sociale, giuridicamente disciplinata e convalidata dalla sua rispondenza a una consolidata convenzione? O una relazione affettiva, una condivisione di sentimenti che diventa poi, per naturale conseguenza, un’unione di corpi? Nel primo caso, non è giusto che la società imponga norme severe, a cui gli individui devono adeguarsi? Nel secondo caso, quale differenza c’è tra l’unione di un uomo e di una donna e quella di due individui dello stesso sesso? La coppia omoerotica non è, per molti aspetti, più “virtuosa” della coppia eterosessuale? Plutarco dà una risposta, ma facendo chiaramente intendere che è la “sua” risposta, ispirata alla sua personale esperienza di vita. In realtà, il dibattito rimane aperto, con tutte le opzioni sul tappeto. E si tratta di un dibattito estremamente moderno; leggendo l’operetta plutarchea si rimane sbalorditi dalla “riconoscibilità” degli argomenti: le discussioni di Plutarco e dei suoi amici anticipano quelle che da qualche decina di anni infiammano il dibattito pubblico, su temi come il divorzio, il diritto familiare, le unioni civili, le nozze gay. Ecco il punto: quando mettiamo in dubbio gli schemi tradizionali e ci illudiamo di essere alternativi, di rivoltare il vecchio mondo come un calzino, in realtà ripercorriamo pensieri già pensati.
In che modo la Grecia di Pericle e Alessandro Magno ci è “madre”?
Prendo alla lettera la domanda, facendo riferimento proprio a Pericle e ad Alessandro Magno: i due personaggi forse più grandi della storia greca, e diversissimi tra loro. Pericle è lo statista ateniese che porta a perfezione il modello della polis democratica: apre a tutti i cittadini la possibilità di fare politica (estendendo a tutti i ceti l’accesso alle cariche pubbliche e introducendo indennità per chi le esercita), si espone continuamente al confronto, cercando il consenso popolare con una politica di sviluppo (grandi opere pubbliche, che danno lavoro a molti; forte impegno internazionale, che assicura allo stato grandi risorse, utili per finanziare piani di assistenza). Alessandro Magno per molti versi è il suo opposto: pur essendo greco fin nel midollo (per cultura e per formazione, anche se la Macedonia è una regione di confine, ai margini della grecità), è colui che supera il modello tradizionale della città-stato e “inventa” un mondo completamente nuovo, infinitamente più vasto, complesso e inclusivo rispetto alla polis. Entrambi però sono splendidi modelli per i politici e gli statisti di oggi. Pericle è una sorta di “populista” ante litteram: ha come interlocutore il popolo e dà conto della sua azione al popolo, più che ai “poteri forti”; peraltro, non è schiavo degli umori popolari, e anzi non rinuncia a guidare l’opinione pubblica, a volte anche imponendo scelte poco gradite. A lui quindi potrebbero utilmente ispirarsi i demagoghi del giorno d’oggi, per diventare meno rozzi e meno pavidi. Alessandro è il “visionario”, è il genio politico che vede più lontano degli altri e concepisce scenari diversi, tali da cambiare radicalmente gli assetti e da aprire prospettive rivoluzionarie. Se pensiamo all’Unione Europea, a questa organizzazione politica voluta da statisti lungimiranti ma rimasta poi incompiuta, così ricca di promesse e così tristemente in crisi, ci rendiamo conto della statura straordinaria di Alessandro: in quindici anni di azione intensissima questo ragazzo morto a trentatré anni buttò all’aria il passato e aprì una nuova epoca della storia. Perfezionare modelli, inventare nuovi modelli: questo la nostra mente occidentale dovrebbe saper fare; e questo la “madre” Grecia ci ha insegnato.
Prendo alla lettera la domanda, facendo riferimento proprio a Pericle e ad Alessandro Magno: i due personaggi forse più grandi della storia greca, e diversissimi tra loro. Pericle è lo statista ateniese che porta a perfezione il modello della polis democratica: apre a tutti i cittadini la possibilità di fare politica (estendendo a tutti i ceti l’accesso alle cariche pubbliche e introducendo indennità per chi le esercita), si espone continuamente al confronto, cercando il consenso popolare con una politica di sviluppo (grandi opere pubbliche, che danno lavoro a molti; forte impegno internazionale, che assicura allo stato grandi risorse, utili per finanziare piani di assistenza). Alessandro Magno per molti versi è il suo opposto: pur essendo greco fin nel midollo (per cultura e per formazione, anche se la Macedonia è una regione di confine, ai margini della grecità), è colui che supera il modello tradizionale della città-stato e “inventa” un mondo completamente nuovo, infinitamente più vasto, complesso e inclusivo rispetto alla polis. Entrambi però sono splendidi modelli per i politici e gli statisti di oggi. Pericle è una sorta di “populista” ante litteram: ha come interlocutore il popolo e dà conto della sua azione al popolo, più che ai “poteri forti”; peraltro, non è schiavo degli umori popolari, e anzi non rinuncia a guidare l’opinione pubblica, a volte anche imponendo scelte poco gradite. A lui quindi potrebbero utilmente ispirarsi i demagoghi del giorno d’oggi, per diventare meno rozzi e meno pavidi. Alessandro è il “visionario”, è il genio politico che vede più lontano degli altri e concepisce scenari diversi, tali da cambiare radicalmente gli assetti e da aprire prospettive rivoluzionarie. Se pensiamo all’Unione Europea, a questa organizzazione politica voluta da statisti lungimiranti ma rimasta poi incompiuta, così ricca di promesse e così tristemente in crisi, ci rendiamo conto della statura straordinaria di Alessandro: in quindici anni di azione intensissima questo ragazzo morto a trentatré anni buttò all’aria il passato e aprì una nuova epoca della storia. Perfezionare modelli, inventare nuovi modelli: questo la nostra mente occidentale dovrebbe saper fare; e questo la “madre” Grecia ci ha insegnato.
Quali lasciti dobbiamo alla civiltà greca?
Nel libro faccio molti esempi. Uno che mi sembra particolarmente chiaro riguarda il nostro modo (“nostro” perché comunemente accettato in tutto il mondo occidentale) di prendere decisioni in tutti gli ambiti della vita collettiva. Noi diamo per scontato che le decisioni di gruppo siano l’esito di una pubblica discussione (aperta, leale, sincera) e – eventualmente – di una votazione, dalla quale emerge l’opinione della maggioranza. In realtà questo modo di procedere (che definiamo “democratico”) è tutt’altro che scontato. Nella storia dell’umanità non si è sempre proceduto così; anzi, la messa a punto del metodo democratico è stata lunga, difficile, controversa. È una “produzione” della mente greca, lasciata poi in eredità alle epoche successive. La stessa cosa si può dire per la “cura di sé”. La “cura di sé” non è, naturalmente, la preoccupazione del nostro aspetto esterno (anche se non la esclude); è invece la coscienza di che cosa siamo, di che cos’è la nostra persona, e l’impegno di coltivare noi stessi, tenendo conto del complesso delle nostre potenzialità. Anche questo è un grande regalo dei Greci; è la civiltà greca a scoprire che un essere umano (un ànthropos) è la somma integrata di un hardware (il corpo) e di un software (“anima”, nella definizione tradizionale; ma possiamo definirlo anche “autocoscienza”, “mente”, “pensiero”). Oggi anche i meno acculturati parlano, per esempio, di medicina psicosomatica, perché la dualità soma – psyché è qualcosa di ovvio, di acquisito, di banale. È, appunto, una di quelle categorie che la “grecitudine” ha depositato in noi, e che ci troviamo dentro senza – spesso – sapere da dove vengano.
Nel libro faccio molti esempi. Uno che mi sembra particolarmente chiaro riguarda il nostro modo (“nostro” perché comunemente accettato in tutto il mondo occidentale) di prendere decisioni in tutti gli ambiti della vita collettiva. Noi diamo per scontato che le decisioni di gruppo siano l’esito di una pubblica discussione (aperta, leale, sincera) e – eventualmente – di una votazione, dalla quale emerge l’opinione della maggioranza. In realtà questo modo di procedere (che definiamo “democratico”) è tutt’altro che scontato. Nella storia dell’umanità non si è sempre proceduto così; anzi, la messa a punto del metodo democratico è stata lunga, difficile, controversa. È una “produzione” della mente greca, lasciata poi in eredità alle epoche successive. La stessa cosa si può dire per la “cura di sé”. La “cura di sé” non è, naturalmente, la preoccupazione del nostro aspetto esterno (anche se non la esclude); è invece la coscienza di che cosa siamo, di che cos’è la nostra persona, e l’impegno di coltivare noi stessi, tenendo conto del complesso delle nostre potenzialità. Anche questo è un grande regalo dei Greci; è la civiltà greca a scoprire che un essere umano (un ànthropos) è la somma integrata di un hardware (il corpo) e di un software (“anima”, nella definizione tradizionale; ma possiamo definirlo anche “autocoscienza”, “mente”, “pensiero”). Oggi anche i meno acculturati parlano, per esempio, di medicina psicosomatica, perché la dualità soma – psyché è qualcosa di ovvio, di acquisito, di banale. È, appunto, una di quelle categorie che la “grecitudine” ha depositato in noi, e che ci troviamo dentro senza – spesso – sapere da dove vengano.
In un mondo sempre più tecnologico, quale ruolo per la cultura classica?
Se pensare in modo problematico (provando cioè a ribaltare i termini di una questione), avere coscienza di sé, conoscere la propria storia e il proprio passato, capire che cosa significano le parole che usiamo: se tutte queste cose hanno importanza anche nel mondo tecnologico, allora la cultura classica serve anche oggi.
Se pensare in modo problematico (provando cioè a ribaltare i termini di una questione), avere coscienza di sé, conoscere la propria storia e il proprio passato, capire che cosa significano le parole che usiamo: se tutte queste cose hanno importanza anche nel mondo tecnologico, allora la cultura classica serve anche oggi.
https://www.letture.org/siamo-tutti-greci-giuseppe-zanetto
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