Παρασκευή 13 Ιουλίου 2018

Egeo, il mare delle isole che nuotano

Luce e miti hanno la stessa sostanza. Giorgio Ieranò in «Arcipelago»
(Einaudi) percorre le rotte degli dei e della grande poesia e approda a noi

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«L’Egeo — scrive Giorgio Ieranò nel suo fascinoso libro intitolato Arcipelago (Einaudi) — ha visto sorgere e tramontare grandi civiltà. È stato protagonista dei momenti più tragici e più esaltanti della storia mediterranea. 

Giorgio Montefoschi, 12 luglio 2018

Nelle sue acque hanno navigato le triremi degli ateniesi e le galee del doge, le navi romane e le flotte del sultano. Ma, oltre a questo, l’Egeo è, da sempre, anche il mare del mito». E della luce, va aggiunto: unica, meravigliosa, irripetibile, nutrita dall’aria, dalla terra, e dal mare. Mi disse un professore di letteratura ateniese, che soltanto verso sera scendeva sugli scogli di Sifnos, con un cappellino beige messo di tre quarti: «Voi oramai viaggiate con gli aerei o con gli aliscafi veloci e non potete accorgervene; ma se una volta vi andasse di prendere un vaporetto, di quelli che vanno piano, e capitasse che io fossi a bordo, potrei mostrarvi un punto preciso, dopo un po’ di navigazione, proprio preciso, nel quale di colpo la luce cambia. Quella non è più la luce , che so, di Salamina, di Capo Sounion, è la luce dell’Egeo». La luce che si riflette nel bianco dei muri, che sbalza sul rosso delle rocce, che rende l’azzurro più azzurro, che è assorbita dal verde degli ulivi, si confonde nell’aria e, come l’aria, è odorosa di erbe selvatiche, di capra, di iodio. «L’Egeo — scrive ancora Ieranò, con bella intuizione — è lo spazio di una metafora incessante. Le sue isole sono, in tutti i sensi, entità in perenne movimento. La stessa parola greca nesos è forse connessa al verbo nechomai:nuotare. L’isola è dunque una terra che nuota, che vaga nel mare. Quando si stagliano a distanza, nella luce abbagliante dell’Egeo, specie all’alba e al tramonto, le isole sono apparizioni fantasmatiche, epifanie dai contorni incerti, miraggi marini».

«Arcipelago. Isole e miti del Mar Egeo» di Giorgio Ieranò è uscito per Einaudi (pagine 288, € 20)

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Queste visioni — lo sanno tutti coloro che non si stancano di percorrere quello spazio blu guidati dai gabbiani, di inseguire nuovi approdi, di cullare la nostalgia dei ritorni — provocano emozioni incontenibili. Però, oltre che dal mare, e forse meglio, le isole vanno conosciute «da terra»; standoci. Non sbarcare, non fermarsi, è un peccato mortale: come, nelle città, star fuori dalle chiese. Martin Heidegger, il filosofo — racconta Ieranò, informatissimo su tutti i viaggiatori che nei secoli hanno solcato quelle onde — quando fece la sua crociera di rito nell’Egeo, quasi mai discese dalla nave. Anche a Patmos, nel Dodecanneso, si rifiutò di scendere. Disse che aveva letto l’Apocalisse e gli bastava così. Io ricordo una cena romana di tantissimi anni fa con un famoso biblista, monsignor Rossano; incantevole persona. Lui — mi disse — a Patmos ci andava ogni anno in autunno e prendeva in affitto per un mese una casetta minuscola che accanto aveva un grande albero di fico. «Sa — mi sussurrò per non farsi sentire dagli altri commensali biblisti — certe volte le raffiche di vento che scuotono i rami e sbattono i frutti al suolo assomigliano, tali e quali, alle raffiche di vento dell’Apocalisse».

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Giorgio Ieranò insegna Letteratura greca all’università di Trento. È traduttore e studioso di teatro

Anche René de Chateaubriand, non sbarcava. Consumava il suo pasto sulla nave, aspettando che si levasse l’ancora. Da «fuori», gli sembrava di non poter vedere «niente altro che boschetti di olivi e rocce rossastre, tappezzate di salvia e di muschio». Se fosse sbarcato (chissà con che scarpe «da Grecia», o che stivali), dietro quelle rocce rossastre avrebbe scoperto vallette profonde, ruscelli, pozzi, oleandri, asini immobili, paglia, muretti a secco, montagne, minuscoli monasteri candidi. Se poi avesse aperto la porta di uno di questi monasteri, nella penombra avrebbe visto emergere il volto fisso dei santi e del Cristo, dal fondo oro. E il profumo delle candele lo avrebbe stordito.

Quasi ogni isola ha una nascita miracolosa o contempla un mito. Anafi — una delle più belle, con la sua dolomia alta trecento metri a picco sull’acqua e la sua piccola chora a conchiglia — apparve all’improvviso per volere di Apollo. Patmos, se la dea Artemide non l’avesse fatta emergere, sarebbe rimasta per sempre in fondo al mare. Santorini fu creata da una zolla di terra libica gettata in mare dagli Argonauti. Rodi fu resa visibile grazie al dio Helios, innamorato della sua bellezza. A Creta — l’isola che può deludere o entusiasmare a seconda dei luoghi e delle stagioni: ai primi di maggio è imbattibile una spiaggetta della costa sud, a luglio i campi gialli di stoppie dell’interno raggiungono la rarefazione — in una caverna del monte Ida nacque Zeus. Secondo la leggenda, sul monte Ghiouta, dal quale si scorgono le rovine di Cnosso, c’è la sua tomba: stando a quanto afferma il filosofo neoplatonico Porfirio, Pitagora la visitò. Ma c’è anche chi dice che a Creta è sepolto Caifa, il sacerdote che mandò a morte Gesù.

Delo, l’isola al centro di una corona di isole — come si vede nelle notti chiare, quando tutto intorno brillano le luci dei porti e dei villaggi — errava nelle acque. Scrive Pindaro(la bella traduzione è dello stesso Ieranò): «Errava infatti un tempo/ sulle onde ai soffi di ogni vento: ma quando la figlia di Ceo, nel delirio/ delle doglie prossima al parto, vi pose piede,/ allora, ecco, quattro diritte colonne/ sorsero dal fondo del mare;/ e con i capitelli sostennero/ su ferrei piedistalli la roccia,/ dove essa contemplò la prole/ divina che aveva generato». La figlia di Ceo era Latona; il connubio era avvenuto con Zeus; la «prole» era il fratello di Artemide: Apollo. Nel suo Inno a Delo, Callimaco, il raffinato poeta bibliotecario nell’Alessandria dei Tolomei, racconta la nascita così: «Latona si sciolse la cintura e appoggiò le spalle al tronco di una palma, afflitta da una oscura angoscia. Sulla pelle le scorreva umido il sudore. Sfinita e inquieta disse: — Perché, bambino mio, fai soffrire tua madre? Eccoti, mio amato, l’isola che naviga sul mare. Nasci, nasci, bambino mio, e dolcemente esci dal mio ventre». Tornando ad Atene, dopo aver ucciso il Minotauro, si fermò a Delo Teseo. Racconta Plutarco, nella Vita di Teseo, che, per celebrare l’impresa, legò i quattordici ragazzi ateniesi salvati dal mostro «nella catena di una danza rituale che da allora fu sempre eseguita nell’isola»: la cosiddetta geranos o «danza delle gru», che nei suoi movimenti replicava i meandri del labirinto.

Uno dei massimi studiosi dell’antichità greca, Kàroly Kerèny, nei suoi Studi sul labirinto, sostiene che questa danza primordiale si sia col tempo trasformata nel syrtos, la danza popolare che tutti conosciamo come syrtaki per via della famosa scena del meraviglioso film di Cacoyannis, Zorba il greco, nella quale a ballarla, sulla spiaggia di Creta, sono Anthony Quinn e Alan Bates, ma che si balla ancora spesso nelle feste, nelle cerimonie, oppure nei luoghi più sperduti, all’improvviso. È una danza che «sorge», letteralmente, dal profondo della terra, e ti fa battere il cuore.

Ricordo un primo di giugno nell’isoletta di Kastellorizo, ancora priva di turisti. Eravamo noi soli. Ma nella nostra stessa taverna cenava un gruppo di pensionate e di pensionati greci di qualche associazione d’anziani, venuti in «gita aziendale» per un paio di giorni da Rodi. Se serve, in tre parole si può descrivere il posto: una pergola, l’acqua del porto, le montagne alte e nere della Turchia alle spalle. I pensionati erano molto allegri, bevevano, mangiavano lentamente, come si usa in Grecia, servendosi dal piatto comune. Da qualche parte veniva della musica. A un tratto, nel buio della notte, si sciolsero le note del syrtaki e tre o quattro signore, coi capelli argentei, rotonde, si ravviarono i capelli e intrecciarono le braccia. Di lì a poco, gli uomini spensero le sigarette e si unirono alla corona. Battevano il piede, facevano oscillare i fianchi, sembrava che volassero.


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