Παρασκευή 20 Ιουλίου 2018

Ascoltate Aristofane, state alla larga dai sicofanti!

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L’età dell’oro dell’impegno civile, della partecipazione alla vita pubblica, dei dibattiti costruttivi che consentono ad ognuno di prendere la parola, come s’immagina accadesse nell’Atene dell’epoca classica, è riferimento familiare a politologi, filosofi, storici o giuristi, all’interno di una tradizione preoccupata di accertare le origini delle moderne democrazie, che ha guardato il “modello” ateniese dell’epoca classica da un punto di stazione quasi esclusivamente positivo, spesso trascurando schiavitù, esclusione delle donne e degli stranieri, imperialismo a spese degli altri greci. Non v’è dubbio, tuttavia, che anche a causa delle sue derive, delle sue défaillances e delle sue crisi, la democrazia antica, tanto generosamente idealizzata, possa servire da modello per comprendere meglio l’odierna politica.

Otello Lupacchini, 20 luglio 2018

Il pensiero corre ad Aristofane, il commediografo, fattosi agitatore politico, la cui grande abilità, come ci ha ricorda Luciano Canfora (Cleofonte deve morire, Bari 2017), consiste nel presentarsi come difensore del popolo agendo, in realtà, per conto di chi intende distruggere il potere popolare. Le sue commedie mettono assai bene in evidenza le criticità della democrazia ateniese, come ad esempio l’ignoranza dei governanti, la mancanza di scrupoli morali in alcuni di essi, l’interesse dei giudici per il denaro o la libertà di parola concessa ai meteci e agli schiavi. Si pensi, ad esempio, a Gli Acarnesi, a I Cavalieri e a Le Vespe: le prime due aggrediscono rispettivamente la politica estera e la politica interna della democrazia ateniese, ma anche l’assemblea e l’esecutivo; la terza, invece, mette sotto accusa un altro dei cardini del sistema: il potere giudiziario.                                                      

Tutto il teatro di Aristofane è comunque, attraversato dall’attacco al sistema giudiziario, che non si focalizza tanto sulla negatività etico-politica, data per scontata, ma si scarica sulla proliferazione dei processi implicante un’esclusività all’interno delle attività pubbliche degli Ateniesi, qualcosa, insomma, di equivalente nella dimensione collettiva alla mania del singolo, che occupa l’interezza del suo spazio emotivo. Così, se ne Gli Acarnesi (v. 375), Diceopoli mette sotto accusa i vecchi Ateniesi che “Non badano a niente altro che a mordere con il voto”; nel quadro panellenico di Pace, il rimprovero di Ermes agli Ateniesi è “non fate altro che processi” (v. 505); ne Le Nuvole, l’illetterato Strepsiade non riconosce Atene sulla carta geografica, perché, spiega, “non vedo i giudici in seduta” (v. 208); Evelpide, ne Gli Uccelli, motiva con l’ossessione giudiziaria il disgusto ormai irreversibilmente maturato nei confronti i Atene: “le cicale cantano sui rami un mese o due; gli Ateniesi cantano nei tribunali per tutta la vita” (vv. 39-41).

Il testo de Le Vespe indaga con sottigliezza ed in profondità la relazione tra politici e giudici, leggendola non nei termini anodini dell’alleanza, ma in quelli di strumentalizzazione: “Vogliono che tu sia povero, e ti dirò il motivo: così ti abitui a riconoscere il padrone, e quando fischia per aizzarti contro un suo nemico, tu gli salti addosso furiosamente” (vv. 703-705). evidente come ci si trovi nel bel mezzo della polemica politica, il cui presupposto è che la giustizia viene gestita, cioè mistificata, non secondo principi etici, ma secondo l’interesse della parte politica dominante: gli ateniesi erano evidentemente assai litigiosi e ricorrevano spesso alla giustizia di Stato; a causa della interminabile guerra del Peloponneso, le giurie popolari erano ormai composte quasi esclusivamente da persone anziane, che si illudevano in questo modo di svolgere ancora una funzione sociale importante, ossia di essere ancora in grado di pungere, di qui la metafora dei giudici popolari come Vespe. In realtà, almeno secondo Aristofane essi erano, invece, soltanto uno strumento nelle mani del potere, in particolare di Cleone, frequente bersaglio dei suoi strali: il demagogo aveva portato da due a tre oboli il compenso per i giudici popolari, accrescendo così il desiderio e la mania degli ateniesi per i processi.

Nella folgorante intuizione che il fine delle malversazioni private risulta essere non solo il personale profitto, ma l’impoverimento delle masse, si saldano il motivo economico e quello politico: l’indigenza dei giudici è l’esito di uno scaltro calcolo dei demagoghi inteso a convertire la loro frustrazione in rabbia da indirizzare nei processi contro i propri avversari politici. Già ne I Cavalieri, del resto, Demo ringiovanito veniva invitato a prendere posizione contro le malversazioni giudiziarie (vv. 1358-1360).

La persistente polemica di Aristofane verso il sistema giudiziario ateniese si salda, peraltro, e insieme si determina nella demonizzazione ancora più frequente del “sicofante”, personaggio-chiave dei tribunali, che, sebbene teoricamente utile alla causa dello Stato, con il suo eccesso di zelo, se non anche con i suoi abusi legali, incarna un tipo di comportamento decisamente inviso, se non addirittura nocivo, alla società ateniese: “odiare il sicofante”, che nell’immaginario della polis costituiva l’ipostasi delle più diffuse e palesi espressioni distorsive dell’amministrazione della giustizia, era, come ricordava Aristotele, un sentimento condiviso da “tutti” (cfr. Retorica, 1382a.6-7).

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato


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