Πέμπτη 21 Ιουνίου 2018

Atene di Ungaretti, un samisdat da 50 anni

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27 dicembre 2017

GIUSEPPE UNGARETTI

Atene, Grecia, vertice di favola
incastonata dentro il topazio che l’inanella.

Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti
per essere misura, libertà della misura, libertà di legge
che a sé liberi legge.

Sino al mare, dal cielo al mare, liberi l’umano vertice,
la legge di libertà, dal mare al cielo.

Non saresti più, Atene, Grecia, che tana di dissennati?
Che tana della dismisura, Atene mia,
Atene occhi aperti a chi aspirava all’umana dignità, apriva gli occhi.

Ora, mostruosa, accecheresti?
Chi ti ha ridotta a tale, quali mostri?

GIORGIO FRASCA POLARA

Qui sopra (e in una pagina dello “Zibaldone”) c’è una splendida, amara lirica con cui Giuseppe Ungaretti reagì nel 1967 al golpe dei colonnelli fascisti in Grecia, di cui quest’anno cade il cinquantenario. Ma a parte la pubblicazione in un libricino donato ai lettori de “l’Unità”, questa lirica è un vero e proprio samisdat, come quelli che circolavano clandestinamente in Urss nella stagione del terrorismo staliniano. Perché è un fatto che, ancora oggi, questa lirica viene ostinatamente censurata dai cosiddetti curatori delle opere del grande poeta. E allora, anzitutto, la spiegazione: di come è nata, di quando è apparsa e dove, e del perché non è compresa nell’opera omnia di Giuseppe Ungaretti e anzi ne è stata cancellata.

Scritta di getto dal poeta dell’Allegria nell’avanzato autunno del 1969, in pieno golpe dei colonnelli greci, è stata e resta un’opera che vive tuttora in clandestinità: malgrado le diecine di edizioni, di lusso e non, della Vita d’un uomo, in quella raccolta di “tutte le poesie” di Giuseppe Ungaretti, curata dallo scomparso critico Leone Piccioni, c’è assolutamente quasi tutto: perché manca proprio e solo questa Grecia 1970 del cui autografo possedevo una copia che pubblicammo su “l’Unità” il 30 maggio 1993 come “lancio” di un volumetto con un gruppo di liriche del poeta, scelte dal collega Nicola Fano, e tra le quali impaginammo anche questa appassionata elegia.

È giusto dunque raccontare la storia di questa poesia, e della censura che ne è stata fatta, anche per rendere un dolente, postumo omaggio ad un finissimo e schivo poeta, Elio Fiore, amico e allievo di Ungaretti, che mi donò copia di questa lirica, il cui originale era appeso sopra un Cristo di Pericle Fazzini nel caotico studiolo di Elio, un’umida e oscura stanzetta tra le mura nobili e cadenti di quella che era stata la rinascimentale Casa dei Fabii, in Portico d’Ottavia, nel cuore di quel ghetto romano dove anch’io ho vissuto, in faccia al suo studiolo, per molti anni. (Quel palazzo, oggi, non è più cadente: ristrutturati gl’interni, sbarrato l’ingresso con un cancello di ferro, scomparsi i cessi appesi nel vuoto, le antiche famiglie giudìe allontanate, ad abitarlo ora c’è solo gente nota e facoltosa: gente che può, tra cui una nota collega in giornalismo).

Elio aveva molto sofferto, e nella sua difficile vita fu aiutato anche materialmente da Giuseppe Ungaretti, tanti anni addietro, quando vita e poesia di Fiore erano già irreparabilmente segnate dalla più terribile di tante dolorose esperienze: l’aver visto e vissuto la deportazione in massa degli ebrei romani in quel “16 ottobre ’43” di cui Giacomo De Benedetti ha scritto uno straordinario ricordo con parole assai dolenti, e forti come pietre.

La lirica risale all’autunno del 1969 quando, nel quadro di una campagna di solidarietà promossa dopo il colpo di stato dei colonnelli greci, Pietro Dorazio, uno dei padri dell’astrattismo romano e uomo di forti sentimenti civili, chiese a Ungaretti di scrivere una poesia da legare ad una cartella di nove serigrafie a colori che sarebbe stata venduta per aiutare gli antifascisti greci esuli in Italia. Il poeta accettò con entusiasmo: non dimenticava mai di esser uomo del suo tempo. E buttò giù, d’impeto e con poche correzioni, un disperato canto per il paese oppresso dalla feroce dittatura dei colonnelli.

La cartella fu presentata il 27 gennaio del 1970 nella storica libreria romana dell’Oca dove lo stesso Ungaretti declamò la lirica dedicata alla “Atene mia oppressa”. Quella stessa sera Ungaretti fornì a Dario Micacchi, il critico d’arte de “l’Unità“, una limpida, modernissima chiave di lettura di quei versi: «Bisogna stimolare i giovani a non avere paura. La paura è lo stato d’animo che determina le peggiori conseguenze. Basta che s’insinui la paura perché un popolo perda la libertà. Abbiate paura della paura!». Per Ungaretti questa denuncia alta e appassionata – «Chi ti ha ridotta a tale, quali mostri?» – è il canto del cigno. Settantaduenne, il poeta morirà d’improvviso appena quattro mesi dopo, e nel frattempo avrà messo mano a penna solo ancora una volta, la notte del Capodanno ’70, per comporre L’impietrito e il velluto. Ma, a differenza di quest’ultima lirica, raccolta poi nella così detta opera omnia, la maledizione contro l’Atene «tana di dissennati» avrà – ha tuttora – vita strana, difficile, emarginata. Tant’è che, come ho detto, non comparirà mai, neppure nella ennesima ristampa del Meridiano mondadoriano dedicato all’opera poetica Ungaretti, e neppure nel capitolo dedicato proprio alle sue “Poesie disperse”.

E se la ingiustificabile giustificazione di questa esclusione – segnalata più volte al curatore, contestata ad ogni riedizione, ma sempre ignorata – è stata sempre data dall’esser, quei versi, dettati da “occasionalità”, un discrimine letterariamente singolare e criticamente inaccettabile dal momento che esclude dal mosaico ungarettiano questa sola tessera, forse piccola ma con tanta storia in sé, con tanti stimoli politico-civili e tanti riferimenti per la complessiva opera del poeta. (A proposito di riferimenti: pare evidente che nella sua lirica contro i colonnelli Ungaretti abbia tenuto presente come archetipo il primo canto All’Italia di Giacomo Leopardi. Dove il remoto «Chi la ridusse a tale?» è mutato in un prossimo «Chi ti ha ridotto a tale?». Del resto già Umberto Saba si gloriava, con umiltà e grande amore per i classici, che non ci fosse nel suo Canzoniere «un solo verso che sia interamente mio»….)

Liquidato il regime, i greci esporranno in una teca il manoscritto della lirica di Ungaretti nel museo ateniese dedicato proprio alla loro Resistenza. Mentre in Italia essa continuerà a girare solo tra amici e allievi del maestro, nei seminari e nei convegni a lui dedicati, sino a quando il mio giornale di un miglior tempo non la farà conoscere a centinaia di migliaia di lettori. Ma sarà anche questa, per Grecia 1970, una pura parentesi: quando si tratta di carta di giornale, la fine è nota. Ancora un particolare, non secondario, che Elio Fiore mi segnalò qualche anno dopo, dopo averne parlato con Mario Luzi, che restò “turbato” da questo particolare, che è poi una coincidenza: il manoscritto dell’elegia ha il tratto sicuro, scarse le correzioni, è completa di titolo e porta la data. E’ quella del 12 dicembre 1969: lo stesso giorno della strage fascista alla Banca dell’Agricoltura di Milano. Impressionante coincidenza.

(Post scriptum: i lettori de “l’Unità” non seppero mai che l’autore di quel piccolo scoop ero stato io. Per pura sciatteria chi doveva impaginare sul giornale la mia ampia presentazione dell’inedito dimenticò di mettere la firma al pezzo. Di più: il curatore del libretto ungarettiano che l’indomani sarebbe stato allegato al giornale non mise nemmeno una sigla alla nota esplicativa su come “l’Unità” fosse venuta in possesso del manoscritto. Un piccolo, ulteriore segno del crescente disordine in cui viveva e morirà il giornale fondato da Antonio Gramsci.)

Giorgio Frasca Polara

Inviato e notista de “l’Unità” per oltre quarant’anni. Spiega diritto parlamentare e costituzionale ai corsi dell’Ordine dei giornalisti, e giornalismo politico ai master di Scienze politiche della Sapienza. È stato portavoce della presidente della Camera Nilde Iotti. È autore di alcuni libri, tra cui la riproduzione anastatica del manoscritto di Togliatti del "Memoriale di Jalta" (Sellerio ed.).

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