Κυριακή 6 Μαρτίου 2016

L'Area Grecanica


Uno dei tratti più esclusivi e tipici del grecanico è costituito dalle numerose espressioni idiomatiche tuttora in voga nella Calabria greca.


Esse rappresentano un vero e proprio giacimento lessicale, allo stato attuale poco sfruttato dai linguisti, presente solo in parte nei dizionari e spesso cristallizzato in formulari privi di riferimenti storico-sociali, come mera elencazione di vocaboli, la cui origine etimologica appare quasi sempre incerta, oscura. 
Associazione Culturale Magna Grecia
Eppure, come vedremo più avanti, molte di queste espressioni che non hanno alcun equivalente in ambito grico o neogreco, opportunamente contestualizzate e correttamente interpretate, ci forniscono un’ulteriore prova dell’autonomia linguistica e culturale dei grecanici; il che sarebbe un notevole passo in avanti per la ricerca, se non fosse che l’argomento “identità grecanica”, per una folta schiera di studiosi di provato orientamento “filo-ellenico”, rimane ancora adesso un tabù.

La conseguenza più ovvia di tale atteggiamento è quella di considerare il grecanico non già una lingua a sé, dotata di una propria dignità evolutiva e peculiarità storico-geografica, ma un dialetto di tipo neogreco, assimilabile nei tratti generali al neogreco; sicché è ormai opinione comune che il recupero e la tutela del grecanico debba passare esclusivamente tramite l’insegnamento del neogreco: niente di più sbagliato. Il limite di questa prospettiva è stato da noi più volte dichiarato e segnalato anche attraverso la confutazione etimologica di alcuni vocaboli essenziali, contenuti nel “Dizionario Storico” del Karanastasis, opera meritoria, imprescindibile per lo studio del grecanico, ma passibile di rettifiche ed integrazioni.
Come di certo il lettore saprà, ogni lingua possiede delle espressioni proprie, originali, tali da risultare intraducibili, se non con delle vistose forzature di pensiero; espressioni “curiose”, apparentemente incomprensibili ad un primo esame letterale da parte di chi proviene da un altro codice linguistico. Questo è il caso della nota formula di congedo pao ta fatti mu, l’equivalente grecanico del nostro arrivederci, totalmente travisata dal Karanastasis, poiché, come abbiamo già detto, la conoscenza del neogreco non rende affatto immuni da grossolani errori interpretativi in ambito grecanico, e pefino un rohlfsiano convinto in questi casi può sbagliare. Il Karanastasis traduce alla lettera pao ta fatti mu con vado (=torno) ai miei fatti (=faccende, lavori domestici) 1
Il vocabolo fatti qui sarebbe, secondo tale lettura, un prestito lessicale proveniente dall’italiano “fatto”.
Il Karanastasis però, stando a questa sua ipotesi etimologica, non spiega come mai i grecanici avrebbero dovuto servirsi di un vocabolo mutuato dall’italiano già esistente nella loro lingua, e che potrebbe tranquillamente essere sostituito con il più congruo dulìe (“faccende, lavori”) o il generico, ma altrettanto efficace pràmata (“cose”).
In realtà questa perifrasi rischierebbe di rimanere incompresa, se non si tenesse conto della sua arcaicità e diffusione areale nel dialetto calabrese, ben documentata peraltro dal Rohlfs 2.
La voce fatti, per noi, non deriva dall’italiano “fatto”, ma dal latino facta, participio femminile sostantivato di facěre, usato al neutro plurale in grecanico, nel senso estensivo di “orme”, secondo il seguente trapasso semantico: facta, “(cosa) fatta”, ossia “escremento di selvaggina” > “traccia” > “pedata” > “orma”. Dunque pai ta fatti su 3 significa vai con le tue orme e non torna alle tue faccende: c’è una bella differenza! Nel primo caso ci troviamo difronte ad una formula apotropaica atta ad allontanare gli influssi malefici e nefasti, nel secondo, invece, ad un più prosaico e banale invito a svolgere i lavori quotidiani. Data questa chiave interpretativa, non sarà per noi difficile chiarire come mai proprio un siffatto rito di scongiuro sia entrato nell’uso comune del linguaggio dei greci di Calabria.
Come ha scritto il Frazer, pioniere della moderna antropologia, “è credenza universalmente diffusa che, danneggiando l’orma di un piede si danneggia il piede che l’ha lasciata” 4 (magia simpatica); inoltre “sembra che nell’antica Grecia, superstizioni del genere fossero largamente diffuse; si credeva infatti, che se un cavallo calpestava le orme di un lupo veniva preso dai crampi; e una massima attribuita a Pitagora, vietava d’infiggere chiodi o coltelli in un’orma umana” 5 .
Il Frazer ha colto nel segno, soprattutto per quanto concerne Pitagora e la sua predicazione: in effetti, molti precetti pitagorici (akoùsmata) insistono sulla necessità di cancellare le impronte Paradossalmente però, proprio attraverso queste sue prescrizioni il Pitagorismo, nella Bovesìa più che altrove, ha lasciato ancora una volta delle tracce evidenti 7.
L’indagine può comunque essere estesa pure ad altre zone della Calabria, dove coesistono credenze simili. Nel reggino ad esempio, “si toglie a manate la terra per dove passa il nemico e questa terra tolta cagiona morte e miseria” e a Dasà, nel catanzarese, “volendo far cadere l’unghia ad un cavallo, bisogna far l’orma sulla terra disegnando nel mezzo una croce” 9
Esiste poi un altro antico rituale di magia erotica, documentabile attraverso Lucrezio: se si vuole conquistare un cuore riottoso, sbaragliando i rivali, bisogna salire sulle orme lasciate dall’amato/a, ponendo il piede sinistro nell’impronta del destro e viceversa, dicendo:
\Epibeébhkaé soi kaiè u|peraénw ei\mié “metto i piedi su di te e ti sovrasto” 10.
Anche nel Vangelo, la terra calpestata dagli apostoli in attività missionaria assume un valore sacrale 11.
Ma la notizia storica che rende ancora meglio il senso intrinseco della frase pai ta fatti su nel greco di Bova e dintorni, è quella ricordata da Polibio nel celebre episodio dei cosiddetti “patti locresi”:
[...] (I Locresi) che occupavano il territorio (indigeno), erano stati accolti dagli indigeni a patto che promettessero di occupare insieme la regione finché avessero calcato la stessa terra e avessero portato la testa sulle spalle. Ma, a quanto si racconta, i Locresi pronunciarono il giuramento dopo aver cosparso di terra la suola interna delle loro scarpe ed aver posto sulle spalle, ben nascoste, delle teste d'aglio. Poco dopo essi tolsero la terra dalle scarpe, gettarono le teste d'aglio ed attaccarono gli indigeni [...]. 12
Lo stratagemma adottato dai Locresi per non risultare spergiuri, vero o no che fosse, la dice lunga sulla “mentalità” del popolo grecanico. Non a caso presente nella memoria collettiva della nostra gente, locrese per natura e cultura, è pure un altro idiomatismo che il Karanastasis stavolta non registra:ecino echi ta scorda crimmena ossia costui ha agli nascosti (avi l’agghi ’mmucciati, nel bovese romanzo), riferito a persone che solo apparentemente sembrano calme, innocue e tranquille, ma che all’occorrenza, come gli antichi Locresi non mancano di rivelare la loro vera natura bellicosa. Quindi attenzione: mai stuzzicare un grecanico, lo rendereste ancor di più un locrese.

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