Σάββατο 2 Μαΐου 2020

Morte sull'Acropoli: la peste ad Atene

Morte sull'Acropoli: la peste ad Atene

Nel quinto secolo a. C. lo statista Pericle e il suo amico scultore Fidia furono le vittime più illustri di un'epidemia misteriosa che seminò strage intorno al Partenone da poco inaugurato. La morte di centomila cittadini dell'Attica segnò le sorti della guerra contro Sparta.

Nel 430 avanti Cristo si combatte il secondo anno della guerra del Peloponneso. È la fase iniziale di una guerra feroce fra la democratica Atene e l'oligarchica Sparta, che spacca in due schieramenti la Grecia per 28 anni.
È uno scontro di civiltà e di modelli politici. Nel 403, quando gli Ateniesi si arrendono, decenni di distruzioni mettono fine all'età dell'oro delle città-stato, della politica, della filosofia, delle arti.
 
Nel 430 Atene è ancora all'apice della sua potenza. A guidarla è uno dei politici più geniali del mondo antico, Pericle di Santippo, discendente dalla nobile famiglia degli Alcmeonidi ma convertito al credo rivoluzionario della democrazia che prescrive uguaglianza di fronte alla legge per tutti i cittadini.
 
Nella polis ateniese il sessantenne Pericle occupa la carica elettiva e collegiale di stratego e ha stabilito le linee guida della guerra contro Sparta. Le descrive il suo concittadino Tucidide. Il padre della storia moderna ha trent'anni nel 431-430 ed è inquadrato nell'esercito, costituito integralmente da cittadini e dagli alleati-tributari di Atene raccolti nella Lega delio-attica, un modello di tipo imperialistico che sarà grosso modo imitato secoli dopo dal Commonwealth britannico.
 
La condotta bellica decisa da Pericle, che Tucidide ammira profondamente, è semplice. Atene, potenza marittima, non deve accettare lo scontro in campo aperto con gli opliti spartani che, in quel momento, sono la forza militare di terra più temibile del mondo conosciuto, come hanno imparato a loro spese i re di Persia qualche decennio prima al tempo della grande alleanza panellenica.
 
Atene quindi abbandona l'interno dell'Attica alle forze di invasione peloponnesiache, guidate dal re spartano Archidamo di Zeuxidamo. Gli abitanti dell'entroterra attico (mesogheia) sono invitati a rifugiarsi in città dove sono protetti dalle Lunghe Mura, una fortificazione insuperabile realizzata cinquant'anni prima da Temistocle che unisce la città alta con il porto del Pireo (10 chilometri circa).
 
La strategia di Pericle non si limita alla difensiva.
 
Nel 431, mentre gli spartani devastano l'Attica, dal Pireo parte una spedizione navale che porta le stesse distruzioni a casa dell'avversario, nel Peloponneso.
 
L'impossibilità di sopravvivere a lungo nella terra bruciata e la necessità di difendere le proprie città inducono gli spartani a ritirarsi alla fine della prima estate di conflitto (431) nei quartieri invernali di Corinto.
 
Nell'estate del 430, però, l'invasione dell'Attica ricomincia. Pochi giorni dopo, nella città affollata di profughi, si diffonde un contagio che nessun medico riesce a comprendere o a curare e che presto riempie case e strade di morti.
 
La descrizione del loimós, la pestilenza che si abbatte su Atene, occupa la parte centrale del secondo libro della storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, appena dopo l'epitaffio che Pericle dedica ai morti del primo anno di battaglia e che lo statista trasforma in una straordinaria esaltazione del sistema democratico ateniese.
 
L'origine del contagio è forse Lemno, isola egea alleata di Atene, o più probabilmente l'Africa. Di sicuro, la porta d'ingresso è il Pireo. Tucidide riporta, senza abbracciare la tesi, la voce che gli spartani avrebbero avvelenato i pozzi della zona portuale scatenando la guerra batteriologica.
La paranoia dell'untore si presenta per la prima, ma non per l'ultima volta, fra gli ateniesi in guerra.
 
La città non potrebbe essere in una situazione peggiore rispetto a un'epidemia. I suoi abitanti sono arrivati a circa 300 mila a causa dell'enorme afflusso di sfollati dalle campagne. I contadini che gli ateniesi di città prendono in giro per il loro accento occupano baracche e alloggi di fortuna in condizioni igieniche pessime.
 
La trasformazione dei civili in soldati ha conseguenze pesanti per tutte le attività economiche e commerciali sulle quali Atene prosperava e che sono in piena recessione. I principali raccolti estivi, a incominciare dal grano, sono persi o distrutti dal nemico.
 
La fuga dal focolaio dell'epidemia, una delle costanti storiche di ogni pestilenza, è resa impossibile dalla presenza dell'esercito invasore a breve distanza dalle Lunghe Mura.
 
Non è un assedio in senso proprio anche perché gli Spartani vengono presto a sapere del morbo. Si tengono a debita distanza e preferiscono dedicarsi al saccheggio delle miniere di argento del Monte Laurio, circa cinquanta chilometri a sud di Atene.
 
Per alleggerire la pressione Pericle ordina e spesso guida operazioni di disturbo. Una spedizione composta da quattromila opliti (fanteria pesante) e trecento cavalieri caricati su centocinquanta navi attacca senza successo Epidauro nel Peloponneso mentre un altro stratego, Agnone, assedia Potidea nella penisola Calcidica.
 
Agnone ottiene la resa ma a carissimo prezzo. Le truppe di rinforzo arrivate da Atene portano il contagio che fa più strage del nemico uccidendo 1050 opliti, circa un quarto delle truppe. Di nuovo, bisogna sottolineare che i caduti sono tutti cittadini e che gli eserciti dell'epoca non prevedono la partecipazione dei mercenari.
 
Quando le truppe ateniesi rientrano, gli spartani hanno abbandonato l'Attica dopo quaranta giorni di occupazione, pronti a una nuova invasione l'anno seguente. È troppo alto il rischio di rientrare nei quartieri invernali con la pestilenza al seguito.
 
Il mistero della peste
Il morbo che passa alla storia come la peste di Atene è un mistero della patologia. Le ipotesi degli studiosi sul loimós tucidideo riempiono volumi. Si è pensato alla peste bubbonica, al tifo petecchiale, alla salmonella enterica (febbre tifoide), al vaiolo, al morbillo, all'ergotismo sviluppato da granaglie infette, al cimurro, a malattie epizootiche varie, a febbri emorragiche di provenienza africana (Ebola, Lassa), all'influenza e, infine, a una combinazione fra alcune delle malattie elencate.
 
Il motivo dell'incertezza è nella descrizione sintomatologica offerta da Tucidide che non solo è il padre della storia moderna con il suo metodo dell'autopsia (osservazione diretta dell'evento attraverso documenti e testimonianze) ma nel caso del loimós è egli stesso parte della ricostruzione autoptica poiché è un sopravvissuto del morbo (“io stesso ne fui affetto”).
 
Purtroppo i sintomi che descrive sono così vasti e caotici da non rientrare con esattezza in nessun quadro clinico preciso. Si va dallo squilibrio mentale alla depressione, dalle emorragie alla diarrea, dalla cancrena all'amnesia. Altri sintomi distintivi, come i bubboni del batterio Yersinia pestis o come le macchie tipiche del vaiolo, sono invece assenti.
 
Senza troppo addentrarsi nel dibattito scientifico ancora molto controverso, si possono segnalare un elemento archeologico e uno storico.
Nel 1995 gli scavi delle fosse comuni nel quartiere ateniese del Ceramico, a nord dell'Acropoli, hanno consentito l'esame di alcuni cadaveri risalenti all'era del grande loimós. Gli esami delle gengive e dei denti hanno mostrato tracce compatibili con la salmonella enterica o la febbre tifoide, da non confondere con il tifo. Della letalità della Salmonella enterica si è già parlato nell'articolo  sulla conquista delle Americhe  dove l'epidemia di febbre tifoide, a metà del Cinquecento, fece milioni di morti fra i nativi.
 
L'elemento storico che rende probabile l'origine africana del loimós, oltre alla ricostruzione dello stesso Tucidide, è la frequenza dei rapporti fra Atene e paesi come l'Egitto, la Libia, l'Etiopia che spediscono merci preziose introvabili in Europa.
Nel 438, otto anni prima della peste, Fidia aveva realizzato e installato nella cella interna del Partenone la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos combinando l'oro e l'avorio delle zanne degli elefanti. Due anni dopo (436), il genio della scultura e amico di Pericle diede il bis con la statua di Zeus a Olimpia.
Le due statue, che non esistono più in originale, erano alte oltre 12 metri e hanno richiesto tonnellate di materiali contribuendo a intaccare pesantemente il tesoro delio-attico, in teoria cassa comune della Lega, in pratica deposito fiduciario degli alleati gestito da Atene e investito per le architetture religiose monumentali dell'Acropoli.
 
Il legame degli ateniesi con il divino è contraddittorio ed estremistico come tutto in Atene. Tucidide il razionalista non prende in considerazione, se non per la cronaca, profezie, presagi, scongiuri e altre pratiche che per lui sono superstizioni.
 
L'eclisse solare che molti ateniesi accolgono come annuncio di sventura viene scientificamente spiegata dal filosofo razionalista Anassagora, il precettore di Pericle che la cittadinanza ringrazierà, in modo molto tipico, con l'accusa di empietà e l'esilio.
Fidia viene invece accusato di malversazione dei fondi statali e di blasfemia per essersi raffigurato sullo scudo di Atena. Assolto dalla corruzione, viene condannato per il secondo reato e muore in carcere nel 430, probabilmente vittima del morbo che non risparmia i prigionieri.
 
Di fronte alla catastrofe gli Ateniesi non lasciano nulla di intentato per placare l'ira degli dei. Il governo della città decide una delle più grandi sanificazioni del mondo antico. Il luogo prescelto non è Atene, dove la situazione del contagio è disperata. La purificazione consigliata dall'oracolo di Delfi si svolge a Delo, l'isola delle Cicladi dove viene custodito il tesoro della Lega delio-attica.
 
Prima di essere un simbolo politico, Delo ha un significato religioso. È sede del maggiore santuario panellenico dedicato al culto di Apollo, il dio che nel primo libro dell'Iliade scatena la sua ira sull'esercito acheo che assedia Troia e che ha mancato di rispetto al suo sacerdote Crise.
Apollo, attraverso il suo arco letale, manda la pestilenza: “lanciò sugli Achei mala freccia, così gli uomini morivano gli uni sugli altri, volavano i dardi del dio da tutte le parti”.
 
Secoli dopo, per sfuggire a un altro contagio, gli Ateniesi riesumano tutti i sepolti a Delo e li portano nell'isoletta vicina di Renea insieme agli ammalati. “Proclamarono”, scrive Tucidide (III, 104), “che da allora in poi nessuno morisse e nessuna donna partorisse a Delo”.
 
Di qualunque patologia si trattasse, Tucidide non si limita a descriverne gli effetti corporei. La peste è presentata come un disgregatore formidabile del tessuto sociale, dei costumi e delle leggi.
Lo scoraggiamento di fronte alla totale mancanza di una cura e alla mortalità elevatissima che colpisce i medici, i cittadini mostrano di non avere più “nessun timore degli dei o della legge umana”. Le infrazioni e i reati si moltiplicano perché nessuno si aspettava di vivere fino a rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio”.
Si allentano i rapporti di una società dove la dimensione pubblica era essenziale. “Per timore non volevano recarsi l'uno dall'altro, morivano abbandonati e molte case furono spopolate”.
 
Alla mente razionale greca non sfugge il concetto che oggi è definito immunità anticorpale: “Il morbo non colpiva la stessa persona una seconda volta in modo mortale”.
Quelli che sopravvivevano e acquisivano l'immunità “erano considerati felici dagli altri e loro stessi per la gioia del momento avevano la vana speranza di non essere più uccisi da nessun'altra malattia”. Ma la letalità rimane altissima.
“Molti usavano metodi di sepoltura indecenti” prosegue Tucidide, “mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che portavano e se ne andavano”.
I contagiati sembrano impazziti. Vengono presi da un tale bruciore interno che circolano nudi e si tuffano nell'acqua gelida. I morti abbandonati per strada vengono divorati da cani e uccelli che dopo poco spariscono, sterminati dalle tossine dei cadaveri infetti.
 
Fiducia confermata
La peste del 430 sembra dare un colpo definitivo al potere di Pericle che si presenta in assemblea a perorare la sua linea bellicista contro chi vuole trovare un accordo di pace con gli spartani.
Tucicide riporta anche questo discorso subito dopo avere raccontato la strage del morbo che uccide “come le pecore” (osper ta pròbata) almeno un terzo dei residenti in Atene e che si spegnerà soltanto nel 426.
Pericle rischia di finire sotto processo e viene multato. “Poco dopo”, scrive Tucidide, “come di solito fa il popolo, lo rielessero stratego e gli affidarono tutti gli affari pubblici perché erano stati resi più miti per quanto riguarda le sciagure private”.
Ma i lutti privati non hanno finito di colpire Pericle. Muoiono in successione sua sorella e i due figli legittimi Santippo e Paralo. Nel 429 lo stesso Pericle soccombe al contagio.
 
Sopravvive alla pestilenza soltanto il suo terzo figlio, Pericle il giovane, che al tempo è un bambino di dieci anni. Lo statista lo ha avuto dalla sua compagna, l'etera Aspasia, dopo la separazione dalla moglie.
Pericle junior ottiene la cittadinanza pur non essendo, come la legge prescrive, figlio di due ateniesi (Aspasia è di Mileto in Asia minore). Sopravviverà alla peste, crescerà nella città in guerra e diventerà navarco (ammiraglio). La sua vittoria alle Arginuse nel 406 costerà a lui e ad altri ufficiali un processo per avere abbandonato i naufraghi.
Pericle il giovane sarà condannato a morte in uno degli episodi più sconcertanti nella storia della democrazia ateniese.
 
Ma già vent'anni prima la morte di suo padre e la peste avevano indirizzato le sorti della guerra del Peloponneso. Prima di risentire parlare di democrazia nel mondo passeranno un paio di millenni.


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