Δευτέρα 26 Ιουνίου 2017

Per una vacanza intelligente tra relax e cultura. La Grecia vista con gli occhi della costa Sorrentina amalfitana. Il Parco archeologico di Asine in Argolide.

 

E’ stato recentemente aperto al pubblico l’area archeologica di Asine in Argolide Grecia, pochi chilometri da Nauplio, dopo due anni di intenso lavoro per la sistemazione e la fruizione anche da parte dei disabili e ipovedenti, con sale multimediali all’avanguardia nel campo del lay out museale,  finanziati per circa un milione di euro dalla regione Peloponneso.

di Lucio Esposito

E’ la Patria di Teodoro di Asine, filosofo neoplatonico del IV secolo a.C. Ne parlano Omero, Iliade II, 560 –  Erodoto, Storie VIII, 73.2 – Strabone, Geografía libri, VIII-X, p.135, nota 445 di Juan José Torres Esbarranch, Madrid: Gredos (2001), ISBN 84-249-2298-0 , e  Pausania, Descrizione della Grecia II. 36.5

Ma che cosa accomuna la penisola sorrentina amalfitana con questa particolare località? Ebbene un poeta, premio Nobel per la letteratura 1963, Giorgios Seferis, ha scritto una poesia emozionante e vibrante , come la luce dei tramonti di questi luoghi. Una dedicata a Cava dei Tirreni e l’altra dedicata al re di Asine.

Dovete essere così pazientosi da attardarvi nella lettura e rileggere più volte per coglierne la struggente bellezza, anche paesistica. Caro lettore ti assicuro che non te ne pentirai!

Si tratta di una località, che oltre alle valenze archeologiche, vanta anche e soprattutto qualità paesistiche integrali, come ben si evince dalle foto.

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Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, Cava de’ Tirreni è stata sede del Governo greco in esilio di Papandreou e quindi capitale della Grecia, da settembre al 17 ottobre 1944.Il governo greco godeva della protezione degli inglesi e Churchill, Primo Ministro inglese, scelse la città di Cava de’ Tirreni per motivi strategici. Il presidente Papandreou alloggiava presso Villa Ricciardi mentre tutti i ministri, rappresentanti del Governo, alloggiavano presso l’Hotel Victoria Maiorino, che era anche la sede del Governo e dove si svolgevano le riunioni presiedute da Papandreou. Di quel governo faceva parte anche Giorgios Seferis, statista e poeta che successivamente diventerà premio Nobel per la letteratura nel 1963 e che scrisse durante il suo soggiorno presso l’Hotel Victoria Maiorino una struggente poesia: “Ultima tappa – Cava de’ Tirreni, 5 ottobre 1944”.  L’amministrazione Comunale di Cava dei Tirreni nel 2012, in una solenne manifestazione con la presenza della Comunità Ellenica della Campania presieduta da  Jannis Korinthios, appose due  targa commemorative nei due luoghi e approntò una mostra documentaria della presenza del Governo Greco nel 1944.

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SEFERIS, Ultima tappa

Rare le notti di luna che mi piacevano.



L’alfabeto degli astri che tu sillabi,

se la fatica te lo consentirà, al  termine del giorno,

svolgendo altri pensieri, altre speranze

puoi leggerlo più chiaro.

Ora che siedo in ozio calcolando,

rare lune ha serbato la memoria:

isole, colore d’una Madonna addolorata,

lente a luna calante,

o chiari di luna in città del Settentrione

che talora stendevano

sopra turbate vie e fiumi e membra d’uomini

un torpore pesante.

Ma ieri sera qui, in quest’ultimo scalo ove aspettiamo

che l’ora del ritorno albeggi,

come un antico debito, un denaro rimasto

nel forziere d’un avaro a lungo,

al momento del saldo s’odono le monete

scrosciare sulla tavola,

in questo villaggio tirrenico, di là

dal mare di Salerno

di là dai porti del ritorno, all’apice

d’una bora d’autunno, la luna

ha varcato le nuvole, e le case

si sono fatte, sull’opposto pendio, di smalto.

Amica silentia lunae.

E’ un filo del pensiero, un modo

di cominciare

a dire cose che mal si confessano,

quando non reggi più,

ad un amico fuggito di nascosto

con notizie di casa e dei compagni,

e bisogna far presto, aprire il cuore

prima che la migrazione lo degeneri.

Veniamo dall’Arabia, dall’Egitto

e dalla Palestina e dalla Siria,

lo staterello della Commagene

spento come una piccola lucerna

spesso ci torna in mente,

e metropoli che vissero millenni

e decaddero a pascolo di capre,

a terreni di canne da zucchero e granturco.

Veniamo dalla sabbia del deserto

e dai mari di Pròteo,

anime raggrinzite da pubblici peccati,

ciascuno col suo rango come l’uccello in gabbia.

E’ l’autunno piovoso in questo buco

a sdegnare la piaga di ciascuno

– per usare altri termini: la nemesi, la mòira,

forse solo abitudini cattive, frode, inganno

o l’egoismo

di speculare sopra il sangue altrui.

Facilmente si logora alla guerra

l’uomo: ché l’uomo è molle come un covone d’erba:

labbra e dita che anelano smaniate un petto bianco

occhi che si socchiudono al barbaglio del giorno

e piedi pronti a correre -stremati-

al più piccolo fischio del guadagno.



L’uomo è molle e assettato come l’erba, insaziato

come l’erba, i suoi nervi radici protese.

Se viene mietitura,

c’è chi esorcizza il demone gridando

c’è chi s’invischia nei suoi beni e c’è chi fa retorica.

Ma gli esorcismi, i beni, la retorica

a che servono, se sono lungi i vivi?

O forse l’uomo è un’altra cosa? O forse è questo

che trasmette la vita?

Tempo di seminare, tempo di raccogliere.



Sempre, sempre le stesse cose, dirai, compagno.

Ma il pensiero del profugo, il pensiero

del prigioniero, il pensiero

dell’uomo divenuto anch’egli merce,

prova a mutarlo, non puoi.



Forse vorrebbe persino

restare re degli antropofagi

spendendo forze che nessuno acquista,

andare a spasso in campi d’agapanti

a sentire il tam-tam sotto la pianta di bambù,

mentre muovono a ballo i cortigiani

con maschere mostruose.

Ma il paese che stroncano con la scure, che bruciano

come il pino -lo vedi

o da dentro il vagone buio, senz’acqua, i vetri rotti

per notti e notti,

o nella nave infuocata che andrà a picco

secondo le statistiche-

Queste cose si sono radicate nella mente e non mutano,

queste cose germogliano immagini eguali a quelle piante

che gettano i virgulti nelle foreste vergini

e i virgulti si radicano al suolo e rigermogliano

varcando leghe e leghe:

la nostra mente, una foresta vergine

d’amici assassinati.

E se ti parlo in chiave di parabola, è solo

perchè l’ascolto n’è più dolce: del brivido

d’orrore non si parla perch’è vivo

e perch’è muto e avanza:

stilla di giorno, stilla nel sonno

memore e dolente angoscia.



Ma parliamo d’eroi, parliamo, ora, d’eroi: Michele

che con le piaghe aperte fuggì dall’ospedale

parlava forse degli eroi, quando, la notte

che trascinava il piede per la città oscurata,

mettendo il dito sulla nostra pena

urlava: “Nella tenebra

andiamo, nella tenebra avanziamo…”

Nella tenebra avanzano gli eroi.

Rare le notti di luna che mi piacciono.

Cava de’Tirreni, 5 ottobre 1944


Il Re di Asìne

Tutto il mattino scrutammo d’intorno la rocca,
cominciando dal lato dell’ombra, dove il mare verde
senza barbagli, petto di pavone ucciso,
ci accolse come il tempo senza vuoti.
Le vene della rupe calavano dall’alto,
torti vigneti nudi, tutti sarmenti, ravvivati al tatto
dell’acqua, come l’occhio seguace contrastava
al logorante dondolio
perdendo forza sempre.

Dalla parte del sole un lungo litorale spalancato,
e la luce forbiva diamanti alle muraglie.
Non v’era creatura viva, fuggiaschi i palombacci
e il re d’Asìne, che cerchiamo da due anni,
sconosciuto e scordato da tutti, anche da Omero
– una parola sola nell’Iliade e mal certa –
gettata qua come la funebre maschera d’oro.
La toccasti, ricordi il suo rimbombo? vuoto nella luce,
un doglio secco nel suolo scavato;
eguale era il rimbombo del mare ai nostri remi.
Il re d’Asìne, un vuoto sotto la maschera, sempre
con noi, sempre con noi dovunque, dietro un nome:
“Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε”

I suoi figli
statue, battiti d’ali le sue brame e il vento
nei vuoti dei suoi pensieri, e le sue navi
attraccate in un porto sparito.
Sotto la maschera un vuoto.

Di là dai grandi occhi, delle curve labbra, dai riccioli,
rilievi sul coperchio d’oro del nostro esistere,
un punto tenebroso che viaggia come il pesce
nella bonaccia mattinale del mare, e tu lo scorgi:
sempre un vuoto, dovunque, con noi.
E’ l’uccello svolato l’altro inverno
con l’ala rotta,
riparo di vita,
e la giovane donna fuggita per giocare
con i denti canini dell’estate,

l’anima che frugò il mondo di sotterra pigolando,

e il paese, una larga foglia di platano a deriva

nel torrente del sole,

con le reliquie antiche e con la pena d’ora.



Il poeta s’attarda a mirare le pietre e si domanda:

esiste

in mezzo a queste linee smozzicate,

apici, punte, curve, cavità

esiste

quassù dove si incontra il passo della pioggia

e del vento e del guasto,

esiste il moto del viso, la figura dell’affetto

di coloro che vennero meno

sì stranamente nella nostra vita

e degli altri, rimasti ombre di flutti,

pensieri nell’infinità del mare?

O forse no, forse non resta, se non il peso, nulla,

la nostalgia del peso d’un’esistenza viva,

qui dove stiamo senza consistenza, chini

come i rami del salice agghiacciante,

traboccati in un tempo costante e disperato?

(lenta la gialla corrente cala

sradicati giunchi nel fango,

parvenza d’impietrita forma, risoluzione

d’amarezza perenne). Il poeta,

un vuoto.



Scudato il sole saliva pugnando, e dal profondo

della caverna un pipistrello spaventato

picchiò sopra la luce come freccia allo scudo:

“Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε”

Forse era quello il re d’Asìne

che così attentamente cercavamo su questa

acropoli, sfiorando con le dita

forse il tatto di lui sopra le pietre.


GHIORGIOS SEFERIS
Traduzione di Filippo Maria Pontani


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