Alexis
Tsipras ha un nuovo obiettivo di governo: la Chiesa ortodossa. Obiettivo
difficile, specialmente in un periodo in cui il governo della sinistra greca
non appare affatto sulla cresta dell’onda (gli ultimi sondaggi lo danno
parecchi punti sotto il blocco di centrodestra). Ma che non sembra essere così
distante dall’agenda politica dell’esecutivo guidato da Syriza.
Il primo
segnale è arrivato a novembre, quando il capo del governo e l’arcivescovo
Ieronymos, capo della Chiesa ortodossa greca, hanno annunciato la decisione di
eliminare la tradizionale definizione dei religiosi come dipendenti dello
Stato. Un annuncio che riguarda 9mila fra preti e vescovi, e che ha radice
nella volontà di Tsipras di secolarizzare la Grecia togliendo il cristianesimo
come religione di Stato. Il tutto prevedendo un accordo che faccia comunque
arrivare il denaro attraverso delle sovvenzioni e a patto che lo Stato entri
nella gestione del ricchissimo patrimonio della Chiesa ellenica: il più grande
proprietario terriero in Grecia.
Un do ut des
che spacca il Paese. Per i sostenitori del piano di Tsipras, l’idea è che
questo sia il primo passo verso un processo di laicizzazione della Grecia. Un
obiettivo a lungo agognato dalla sinistra radicale ellenica, di cui il primo
ministro doveva essere il garante e rappresentante, che da sempre spera in una
rimozione del forte connotato religioso che impernia la Grecia profonda e anche
la politica del Paese, soprattutto nell’area conservatrice.
Ma per i
critici del governo, questo piano trova un attacco a tenaglia sia da destra che
da sinistra. Da sinistra, considerano la riforma di Tsipras uno specchietto per
le allodole. I soldi entreranno comunque nelle casse della Chiesa di Grecia non
più tramite elargizione diretta al clero come dipendenti pubblici, ma tramite
sovvenzioni. E l’idea è che dietro ci sia solo un tornaconto elettorale per
ingraziarsi il bacino della sinistra estrema, deluso dagli ultimi accordi con
l’Europa e la Troika.
Ma, a
destra, per la parte più conservatrice del Paese, questo accordo rappresenta un
colpo a un vero e proprio pilastro della Grecia: l’assoluta unità fra fede e
popolo, ma anche fra Chiesa e Stato.
Un’unità
rappresentata già nella costituzione del Paese, che all’articolo 3 definisce il
cristianesimo ortodosso come “la religione predominante in Grecia”. E anche il
fatto che la seconda sezione della norma fondamentale di Grecia parli
apertamente di religione, di rapporti fra Stato e Chiesa e di autocefalia della
Chiesa di Atene, è un segnale chiarissimo del radicamento dei due poteri.
Del resto,
che questa unità fra Chiesa e Stato sia indice anche di un profondo legame fra
popolo e fede, è dato anche dall’analisi dei sondaggi sulla spiritualità della
popolazione greca. Ad oggi, la Grecia rappresenta uno dei Paesi europei dove è
più sentita non solo l’appartenenza a una confessione religiosa, ma anche la
stessa fede in Dio. Un’analisi del Pew Reasearch Institute del 2017 spiega in
maniera molto netta la forte connotazione religiosa della Grecia. Il 92% degli
adulti intervistati in Grecia ha affermato di credere nell’esistenza di Dio,
una media simile a quella di tutta l’Europa orientale, ma nettamente superiore
rispetto all’Europa occidentale. E il 76% degli intervistati ha affermato di
considerare molto importante l’appartenenza alla Chiesa ortodossa per la
propria identità nazionale.
Partendo da
questi numeri, è evidente che Tsipras non possa muovere guerra alla Chiesa,
perché oltre a rappresentare un potere estremamente importante nella
costruzione della stessa Grecia, è anche un pilastro della vita di milioni di
cittadini: e quindi di elettori. Tanto è vero che lo stesso primo ministro, pur
non ritenendosi religioso e provenendo dai ranghi del comunismo ellenico, ha
sempre tenuto un profilo di profondo rispetto verso la Chiesa greca,
consapevole che essa rappresenta un elemento imprescindibile della cultura e
anche della stessa ideologia che permea il Paese.
Un elemento
che negli ultimi tempi appare però sempre più inserito in una sfida politica
che ha anche una prospettiva internazionale. La dimostrazione è arrivata anche
dallo scontro sull’accordo fra Macedonia e Grecia per il nome della Repubblica
macedone. In quell’occasione, la Chiesa di Grecia aveva espresso la propria
contrarietà al patto con Skopje e la comunità monastica del Monte Athos era
stata individuata come una sorta di centrale nazionalista che si opponeva
all’accordo. E anche in quell’occasione, in molti videro un collegamento fra
l’ostilità della Chiesa al negoziato, l’unità fra nazionalisti e clero e la
contemporanea opposizione della Russia.
Anche in
quel caso, come spesso accade in questi ultimi anni, la Chiesa ortodossa venne
accusata di essere una sorta di longa manus culturale del Cremlino. E la sfida
fra Oriente e Occidente in Europa orientale passa anche per la Chiesa
ortodossa: Ucraina docet.
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