Venerdì 11 gennaio si è svolta, in tutta Italia, la Notte Bianca del Liceo Classico. È una bella idea, nata in quel tanto vituperato Sud d’Italia che, a dispetto della sua sempre maggiore lontananza dall’epicentro di questa triste globalizzazione – tecnicista, economicista ed efficientista – non manca ogni tanto (e speriamo sempre più spesso) di sorprenderci.
di ALBERTO MATTIACCI - 17 Gennaio 2019
Lo fa, spesso,
nel modo che meglio riesce alla gente del Sud: richiamarci al valore delle cose
umane; prenderci per la mano e portarci laggiù, dove c’è più caldo e il tempo
va più piano. È come se la Magna Grecia, osservandoci da molto lontano, con
distacco olimpico (qui ci sta proprio bene), ogni tanto si prendesse la briga
di mandarci un messaggio, un richiamo a guardarci dentro: «ma dove andate così
di corsa – sembra dire – smettete di pensare solo alla materia e ascoltate la
musica della vita – stolti!» (la Magna Grecia parla ancora un po’ aulico,
evidentemente).
Già, la
musica della vita. E difatti quanto “suona”, quant’è musicale il tormento
amoroso della poetessa Saffo di Lesbo letto in greco antico; e poi che dire del
guazzabuglio emotivo di Catullo, sconquassato fra un odio e un amore che solo e
unicamente il suono del latino riesce a rendere così onomatopeico e struggente.
Incredibile
come il solo tocco di qualche parola antica riesca a scioglierci, induriti
protagonisti delle nostre difficile vite adulte, dentro un’onda emotiva
sorprendente: poche parole in greco e ti ricordi, come fosse ieri, di quando la
già anziana professoressa di greco, nubile e cattolicissima, piangeva commossa
fra i banchi, recitando in greco i versi di quella poetessa lontana del tempo –
ma vicinissima, compagna di banco, in tutto il resto. Ti ricordi di come
riuscisse ad estrarre il valore universale dell’amore, dalle per lei
inaccettabili e indicibili vicende dell’omosessualità, e suonarlo, battendo i
tasti di una lingua che non c’è più.
E allora,
mentre osservi questi liceali camminare lentamente in tondo, nella penombra,
proprio come un coro greco, e in questo circolo recitare poesie che da tremila
anni suonano sempre allo stesso modo e da tremila anni arrivano sempre allo
stesso punto dei corpi che hanno di fronte, speri arrivi Leonida. Sì, lo
spartano, quello ignorante come un criceto e sensibile come un muretto a secco
–proprio lui. Speri che arrivi, nervoso assai, alla testa dei suoi trecento
guerrieri e ci dia dentro di brutto.
Perché il
nuovo Ciro il Grande da fermare, ad ogni costo e con ogni mezzo, è qui fra noi,
è alle porte – anzi, ha già infiltrato qualcuno dei suoi a preparargli il
terreno. Va fermato: è questo l’imperativo categorico che senti pulsare e che
inizia a salire lungo le vene quando una di quelle liceali che ci giravano in
tondo si ferma e, illuminata da un faro nella penombra, inizia a cantare.
Ricordate The Mission? Quel bel film con Robert De Niro che racconta della
vicenda dei gesuiti presso gli indios del Parana. C’è una scena in cui una
bambina inizia a cantare: ferma la terra; clic: mette un dito sul mondo e lo fa
smettere di ruotare su sé stesso; blocca l’aria nei polmoni di chi la sente.
Quella ragazza, Martina, nel buio di un Liceo Classico, fa lo stesso.
Ciro il
Grande, nel XXI Secolo, è quella supposta cultura riformista e postmodernista
che ha l’ardire di ritenere “inutili” il greco e il latino; di considerare la
cultura classica come roba del passato, inadeguata alle sfide che questa
visione efficientista del tempo attuale ci propone come le uniche possibili.
Scrive
Nuccio Ordine nell’introduzione di un libro del 2013 L’utilità dell’inutile:
«esistono saperi fine a se stessi che –proprio per la loro natura gratuita e
disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale- possono avere un
ruolo fondamentale nella crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno
di questo contesto, considero utile quello che ci aiuta a diventare migliori».
Diventare
migliori: salire su un gradino più alto di quello nel quale abbiamo esordito su
questa terra. Ecco a cosa serve il Liceo Classico: a darci le scarpe, la spinta
per farlo ma, soprattutto, a farcela venire quell’idea un po’ folle e a farcela
amare.
Grazie,
dunque, Rocco, inventore della Notte del Liceo Classico e grazie a tutti i
liceali, studenti e docenti, che ci ricordate, in questa fredda notte di
gennaio, che senza l’anima nulla vale, nulla serve, nulla suona.
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