Interrogato sulla necessità dell'unione tra la Chiesa latina e quella orientale al Concilio di Ferrara e Firenze del 1438, Giorgio Gemisto Pletone affermò che tutto il mondo avrebbe presto accolto una sola religione, che Cristo e Maometto sarebbero caduti nell'oblio e che sarebbe rifulsa in tutto l'universo l'assoluta Verità. L'intera vita del filosofo bizantino è da interpretare come uno sforzo atto affinché ciò avvenisse realmente: uno sforzo verso la restaurazione dell'antica sapienza e della più pura Tradizione.
Assoldato da Venezia per portare guerra nella Morea occupata dal Gran Turco, Sigismondo Malatesta, Signore di Rimini e Fano, appassionato di filosofia ed a più riprese calunniato e scomunicato dalle autorità ecclesiastiche cattoliche, tornò in patria al termine della sfortunata campagna militare con un solo trofeo: le spoglie mortali di Giorgio Gemisto Pletone. Una reliquia che venne collocata in quel tempio di Rimini, costruito sotto la direzione del grande Leon Battista Alberti, così pieno di opere pagane da non sembrare un tempio di Cristo, bensì di fedeli adoratori di demoni, come ebbe modo di affermare Pio II nei suoi Commentarii. Sul sarcofago, ancora oggi visibile all’infuori della cattedrale riminese, il guerriero e mecenate fece iscrivere una dedica in latino la cui traduzione suona così:
Quel che resta di Gemisto di Bisanzio principe dei filosofi del suo tempo, Sigismondo Pandolfo, figlio di Pandolfo Malatesta, durante la guerra contro il re dei turchi, spinto dal grande amore di cui arde verso i sapienti, ordinò fosse portato in questo luogo e qui murato nel 1465.
scrisse molti libri di storia, filosofia pratica e speculativa e d’altre materie d’ogni genere: e tutti con tanta copia e gravità di sentenze, con tal sanità, con tal nobiltà di stile, tanta purità, tanta finezza di lingua, che, leggendoli, si direbbe non mancare altro a Gemisto ad essere uguale ai grandi scrittori greci, di quegli antichi, se non l’essere antico.
Tuttavia, tale condizione di oblio si potrebbe facilmente spiegare col fatto che il pensiero di Gemisto, profondamente tradizionale, risulti difficilmente comprensibile, se non addirittura pericoloso, ad un mondo in cui la metafisica è stata pervertita nella sua anti-essenza, in cui sacro ed eterno vengono rigettati in toto ed in cui il platonismo viene considerato come il principale nemico della popperiana società aperta.
Il pensiero di Gemisto è puramente platonico e puramente metafisico. Il platonismo si fonda sul concetto stesso di eternità. Un’eternità che in quanto passato, presente e futuro si sviluppa non solo nel senso dell’avvenire. Il tempo nel platonismo è riflesso dell’eternità e come tale non è lineare ma verticale. L’anima umana pre-esistente, immortale e celeste, discende in vista dell’ascensione. La sua discesa nel mondo, e le sue possibili trasmigrazioni, si realizzano in previsione del ritorno all’unità originaria e universale. Il suo movimento si compie in due archi: uno discendente e l’altro ascendente. Non vi è morte ma solo ritorno alla sorgente di luce. Essere indoeuropei significa essere platonici nel senso di riconoscere come proprio un Logos filosofico fondato su gerarchia e verticalità e sulla constatazione intellettuale che le idee sono archetipi divini perenni dimoranti nello stesso intelletto divino. E solo attraverso una rigida disciplina si può venire in contatto con esse e apprenderne la Verità ultima.
Pletone visse appieno l’ultimo secolo di Bisanzio ed ancora giovane trascorse un periodo di tempo presso la corte del Sultano ad Adrianopoli: vero polo di attrazione per intellettuali e scienziati di ogni parte del mondo a causa del sostanziale clima di tolleranza che vi si poteva respirare. Qui, Pletone conobbe Elisha: un uomo che, “all’apparenza un ebreo, ma a dire il vero un pagano” (secondo quanto riportato da Scolario), avrebbe condotto il giovane bizantino all’apostasia. Ciò che sembra essere vero, al contrario, è che Elisha (molto probabilmente un sufi ishraqi) istruì Pletone su Zoroastro, Averroè, Aristotele e Platone. Di fatto, dopo la chiusura della scuola platonica di Atene nel 529 d. C. ad opera dell’imperatore Giustiniano, il platonismo si trasferì, attraverso la Siria, in Persia e nel mondo arabo. E proprio in Persia lo Shaikh al-Ishraq Shihab al-Din Yahya Sohrawardi (1155-1191), resuscitatore dell’antica sapienza persiana, elaborò la sua teosofia della luce come una vera e propria congiunzione tra zoroastrismo e platonismo. Sohrawardi, infatti, era convinto dell’esistenza presso gli antichi persiani di una comunità guidata direttamente da Dio, quella che lui stesso chiamava l’antica comunità della Verità. La loro sublime dottrina della luce sarebbe stata testimoniata da Platone e da Ermete Trismegisto. Essa si fondava sulla visione estatica degli esseri di luce. E questa luce altro non era che la “luce di gloria” dello zoroastrismo (xvarnah: termine che indica la fiammata primordiale che è la fonte degli splendori aurorali, quelle ipostasi di luce che, generandosi a vicenda dalle loro stesse irradiazioni, raggiungono l’innumerevole). La luce dell’Oriente, nella teosofia dello Shaikh, si opponeva alla pura tenebra (barzakh): il mondo occidentale (landa dell’occaso) in cui regnava il male a causa dell’assenza di Dio.
Sohrawardi vedeva altresì in Aristotele una distorsione della filosofia perenne ed universale che aveva limitato il nous (l’intelletto, la radice più profonda dell’essere umano) al suo aspetto fisico e razionalistico. Da qui deriva l’idea pletonica che l’aristotelismo, tanto in voga nella scolastica latina, avrebbe inevitabilmente condotto il mondo all’ateismo. E sempre da Sohrawardi deriva l’idea di una tradizione continua e perenne della Verità che non ha avuto bisogno di Cristo per divenire perfetta e che, attuata attraverso un lignaggio di trasmettitori (una vera e propria “catena aurea”) iniziato con Zoroastro, tramite Licurgo, Minosse, i Magi, i Cureti, i Brahmani, Pitagora e Platone, è arrivata fino a Plotino e Giamblico.
Tornato in patria, Pletone venne incaricato di insegnare filosofia a Costantinopoli ma, a causa delle sue idee e su pressione della Chiesa ortodossa, venne allontanato dall’imperatore Manuele II (che comunque non gli fece mai mancare la sua stima e amicizia affidandogli l’incarico di magistrato, diverse proprietà fondiarie e l’educazione del figlio Teodoro, proclamato despota di Morea a soli dodici anni) a Mistrà. Fu proprio alle pendici del monte Taigeto che Pletone, contemplando le rovine di Sparta, sviluppò il suo peculiare sistema filosofico-religioso. Mistrà era la seconda capitale dell’Impero: una città cosmopolita e vicina al bellicoso popolo del Mani ancora “elleno” e dunque “pagano”. Dopo tutto, in fondo alla Morea, come riporta lo storico romeno Nicolae Iorga, intorno ai quattordici villaggi degli tzakoni, si parlava un dialetto che taluni eruditi credevano fosse l’antica e più pura lingua ellenica. Qui, Pletone aprì una scuola sul modello dell’Accademia platonica e, richiamandosi alla tradizione pitagorica, diede vita ad una società segreta dal carattere iniziatico, basata sulla fratellanza ideale ritualmente contratta (da qui l’antico nome di phratriai) e sul rispetto totale del maestro, che si proponeva di svolgere il ruolo di avanguardia culturale per riportare la mentalità generale verso le fonti della vera intellettualità.
Una relazione iniziatica, sigillata dal vincolo del segreto, che ricorda da vicino il legame maestro-discepolo per ciò che concerne la trasmissione delle nozioni intellettuali dell’irfan (gnosi) sciita imamita. L’irfan è infatti un giardino segreto che non deve essere svelato e l’unico criterio che rende tale un maestro di gnosi è il suo collegamento diretto ad una silsila (catena) che arrivi fino all’Imam del tempo: volto rivelato di Dio, come i suoi predecessori, ed unica persona capace di portare ogni essere, direttamente o tramite intermediario, alla perfezione che gli è propria. Non è un caso se Pletone destinò la maggior parte dei suoi scritti dal marcato carattere esoterico esclusivamente al pubblico del suo circolo segreto.
L’obiettivo di Pletone era in primo luogo liberare il platonismo dall’influenza cristiana ristabilendo il primato di Atene su Gerusalemme. I neoplatonici bizantini (come Michele Psello), infatti, aspiravano in primo luogo ad essere dei buoni cristiani. Ed effettivamente l’estasi descritta dai padri della teologia mistica del cristianesimo orientale ha delle somiglianze impressionanti con quella descritta da Plotino alla fine della VI Enneade. A ciò si aggiunga che la via teologica apofatica che conduce l’uomo all’ignoranza totale, ad avvicinarsi alle tenebre divine attraverso la negazione di tutto ciò che è inferiore a Dio, ha una chiara origine neoplatonica. Per Plotino occorreva superare l’intelligenza per raggiungere un oggetto che le è superiore. Ciò è possibile solo risalendo al principio interiore e divenendo un solo essere invece di molti. Questa è la via per contemplare il principio e l’Uno secondo la prospettiva plotiniana. La via apofatica, descritta in particolar modo da Dionigi l’Areopagita, non si scosta in modo evidente da essa. Tuttavia, i padri della teologia mistica all’Uno, il Dio-unità primordiale dei neo-platonici, sostituirono il concetto di Trinità.
Ora, Pletone, nel tentativo di tornare alle radici del pensiero platonico, cercò di limare gli slanci mistico-ascetici del neoplatonismo e di superare la tradizione plotiniana che trascurava totalmente la dimensione politica dell’uomo. Farsi simili a Dio non doveva essere una mera fuga dal mondo ma una fuga dal male del mondo attraverso l’applicazione della giustizia e della virtù. L’assimilazione a Dio non è rinuncia e distacco dal mondo ma conquista e costruzione di esso attraverso l’essere nel mondo nel migliore dei modi possibili. Dunque, la via verso il perfezionamento umano non può che avvenire attraverso l’azione. Una prospettiva, quella dell’ascesi tramite l’azione, riportata anche da Julius Evola nella sua fondamentale opera Rivolta contro il mondo moderno:
Il primo aspetto dell’approssimazione ascetica è l’azione come azione eroica […] Azione e conoscenza sono due facoltà fondamentali dell’uomo: e nell’ordine sia dell’una che dell’altra è possibile una integrazione la quale vi rimuova il limite umano.
Non è un caso se fu la civiltà eroico-guerriera spartana ad influenzare il progetto di rinnovamento filosofico pletonico e non la democrazia talassocratica ateniese giudicata dai suoi stessi contemporanei come il dominio dell’incompetenza, dell’immoralità e della prepotenza: un sistema politico edificato su fondamenta perverse ma funzionante in quanto impostato sul mero profitto e la libertà di chi vuole governare secondo il proprio interesse.
Affinché le azioni umane raggiungano realmente la perfezione che corrisponde alla loro essenza divina è necessario definire in cosa consista la virtù umana e determinare ciò che è il vero bene. A questo proposito scrisse Pletone nel Trattato delle virtù:
La sommità di tutte le virtù, dove tutte devono tendere e senza la quale le altre non servirebbero a niente sarà certamente la religione. Ciò attraverso cui stabiliamo una sorta di comunanza con le specie superiori e siamo definitivamente allontanati dalle specie inferiori, ciò che c’è di migliore in noi non è altro che il pensiero. Ora, tra gli esseri pensanti e che il pensiero studia, e di tutti gli esseri dell’universo, Dio è il migliore. Nel godere per mezzo di ciò che c’è di migliore in noi, del migliore degli esseri, si può così vivere felicissimi: la conoscenza di Dio sarà la più grande felicità nella vita dell’uomo ed è anche la sommità della religione.
Dio è il bene ed ogni azione rivolta alla sua imitazione sarà intrinsecamente buona. La felicità risulta dunque dall’armonia e la coincidenza con l’Essere, uno e ultimo, puro e sovrano, origine di tutte le cose. La forza dell’uomo risiede nella sua volontà/possibilità di imitare l’immutabilità divina. E, per fare ciò, l’uomo deve diventare un essere che è in se stesso passando dalla conoscenza empirica a quella perfetta del divino. L’uomo pletonico è pontifex: un facitore di ponti fra naturale e sovrannaturale, tra ordine fisico e metafisico. Ed è al contempo copula mundi
perché lega lo Stato a un territorio, la famiglia al suo fondo, l’individuo alla sua terra, l’anima alla sua origine.
Il vero criterio della virtù è nella giusta misura come mezzo esatto di qualità e non di quantità. La scienza e l’arte della misura è l’unica capace di evitare difetto ed eccesso. Elogi della misura in questo senso non sono rari nell’antica cultura greca. Si ritrovano ad esempio nelle tragedie di Sofocle ed in particolar modo nel ciclo tebano. Ma ne esistono anche esempi medievali. Si narra, infatti, che Federico II Hohenstaufen, interrogato dal leggendario Prete Gianni (figurazione del guenoniano “Re del Mondo”) circa quale fosse la migliore cosa al mondo, rispose:
la miglior cosa di questo mondo si è misura.
Ora, in termini teologici, la misura esatta è l’Uno: ovvero, l’unità nella molteplicità.
Il cambiamento, la molteplicità non modificano o intaccano la Verità metafisica eterna, così come l’unità o l’identità essenziale dell’Essere non vengono alterate dalla molteplicità della manifestazione sensibile.
L’armoniosa coincidenza con l’Essere deriva dall’esercizio delle quattro virtù cardinali: prudenza (la più eccelsa in quanto si applica all’uomo in se stesso), giustizia, fortezza e temperanza. E la felicità come superamento di passioni e desideri immediati si realizza in primo luogo nello Stato/Impero, riflesso terreno della gerarchia celeste, come luogo privilegiato della realizzazione dell’essere umano assoluto. Lo Stato pensato da Pletone richiama tanto l’utopia politica della Repubblica di Platone quanto lo schema societario trifunzionale (Re/sacerdoti – guerrieri – produttori) proprio della civiltà indoeuropea descritto negli studi di Georges Dumézil. Pletone, infatti, suddivide lo Stato in tre classi a tenuta stagna e con funzioni diverse: dirigenti, produttori e servitori.
Tale suddivisione in caste, tuttavia, pur individuando tre diversi gruppi sociali e non quattro, si collega maggiormente alla tradizione indù. L’ordinamento sociale indù, anch’esso di chiara matrice indoeuropea, si fonda infatti sulla divisione in quattro caste suscettibili, a loro volta, di possibili suddivisioni secondarie: i Brahmana, i Kshatriya, i Vaishya, gli Shudra. Come sottolinea René Guénon nel suo studio sulle dottrine indù:
I Brahmana rappresentano essenzialmente l’autorità spirituale e intellettuale; gli Kshatriya il potere amministrativo, che comporta insieme le attribuzioni giudiziarie e militari, e la cui funzione regale non è che il grado più elevato; i Vaishya l’insieme delle differenti funzioni economiche, nel senso più esteso della parola, che comprende le funzioni agricole, industriali, commerciali e finanziarie; quanto agli Shudra, essi eseguono tutti i lavori necessari ad assicurare la sussistenza meramente materiale della collettività.
Appare evidente come l’unica sostanziale differenza con lo schema pletonico sia il fatto che il filosofo bizantino comprende all’interno della casta dei dirigenti tanto i rappresentanti dell’autorità spirituale quanto i rappresentati di quella politica e militare. Ma il principio alla base della suddivisione rimane identico e si fonda essenzialmente sull’idea di “qualità” e di “essenza individuale”. Afferma ancora Guénon che
La conoscenza della natura individuale deve permettere di assegnare ad ogni essere umano la funzione che gli conviene in virtù di questa stessa natura, ovvero, in altri termini, il posto che egli deve normalmente occupare nell’organizzazione sociale.
Questo è il fondamento di un’organizzazione veramente gerarchica strettamente conforme alla natura degli esseri. Ognuno, secondo la propria natura, è un elemento necessario dell’armonia totale e universale. E la negazione di tale ordine implicherebbe la distruzione di ogni legittima gerarchia.
Questa gerarchia terrena, come già anticipato, è il riflesso della gerarchia celeste. L’universo prodotto della cosmogonia pletonica è infatti rigidamente gerarchizzato in forma enoteistica. Tale dottrina è contenuta nel Trattato delle leggi: uno di quei testi riservato al circolo segreto di Mistrà che, dopo la morte del filosofo, venne dato alle fiamme su ordine delle istituzioni ecclesiastiche ortodosse (salvo piccoli stralci utili a dimostrare l’apostasia di Pletone) per paura che potesse smarrire il popolo in un rinnovato paganesimo. Scrisse Pletone:
Vi sono numerosi Dei, ma con gradi differenti di divinità. Uno di essi, il più eccelso di tutti, è il Dio supremo, il re Zeus che, infatti, li supera tutti infinitamente per la sua maestà e per l’eccellenza della sua natura […] Tutti sono governati dal grande Poseidone, il primo e più potente di tutti i figli di Zeus, la più bella e la più perfetta possibile delle sue opere […] Poseidone signore, sei tu del grande Zeus il figlio maggiore e più potente. Tu che sei nato da un padre completamente e assolutamente ingenerato e che non ha avuto altro padre che se stesso, non si può dire che tu stesso sia totalmente non generato, poiché procedi da una causa; ma sei nato come l’essere più perfetto in virtù e dignità di tutto ciò che è stato generato […] Attraverso di te tutti gli esseri raggiungono la propria forma e partecipano della bellezza che loro conviene. Dopo di te, vi è la regina Era, generata dallo stesso padre tuo, ma inferiore a te per dignità come per natura […] Apollo ha sotto la sua legge l’identità, Artemide la diversità; Efesto, la stabilità e la quiete; Dioniso, sia il movimento proprio come lo slancio e il riferimento al principio più perfetto.
I fatti storici hanno dimostrato come la progettualità politico e religiosa di Pletone non conobbe il successo sperato dal suo propugnatore. Tuttavia, il filosofo bizantino fu capace di influenzare in modo determinante l’intellettualità del suo tempo. Pur considerando l’unione con i latini come una forma di auto-negazione dell’identità greca, Pletone non poté rifiutare l’invito imperiale a partecipare al Concilio unionista di Ferrara e Firenze che avrebbe dovuto garantire a Bisanzio l’aiuto sperato contro gli ottomani. Qui, Gemisto, approfittando della quasi totale ignoranza occidentale su Platone e l’imperfetta conoscenza di Aristotele, introdusse i misteri platonici ed iniziò, ad oltre ottant’anni, il suo periodo di creazione intellettuale più ricco.
Il fascino esercitato sugli intellettuali italiani da Pletone, capace di citare a memoria i testi degli antichi filosofi greci, fu così grande che l’arca con le sue spoglie mortali a Rimini venne considerata come il simbolo del Rinascimento stesso. Tuttavia, ad oggi, la fama di Pletone, come ebbe modo di asserire Ezra Pound, è maggiormente legata proprio alla sua arca riminese che non al contenuto dei suoi scritti. Occorre anche ricordare che vi fu un precursore italiano di Pletone, e che esisteva a Firenze un circolo di umanisti, platonizzati ed ellenizzati, da lui influenzati ben prima dell’arrivo del filosofo bizantino. Costui fu il grande Francesco Petrarca che ebbe modo di viaggiare, tra metafore e realtà, alla ricerca dell’ultima ed incognita Thule, agli estremi di quel mondo iperboreo da cui il mito fa discendere la stirpe degli indoeuropei.
https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/filosofia/logos-indoeuropeo-giorgio-gemisto-pletone/
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