Quando
iniziai il liceo classico, ero completamente digiuna di greco. Non ne sapevo
proprio nulla, tranne che era una lingua antica, che nessuno più parlava e tutti dicevano morta.
Nemmeno l’alfabeto conoscevo, ad esclusione delle prime tre lettere con cui avevo familiarizzato in prima media, studiando i piani in geometria e imparando che si chiamano con le lettere alfa, beta, gamma. Siccome i piani che passano per una retta sono infiniti, si potrebbe andare avanti, ma i libri di geometria non vanno, di solito, oltre e comunque quelle io ricordavo.
Forse, anzi,
conoscevo anche la quarta lettera, ma per ragioni legate a un’altra materia, la
geografia, che quando parla dei fiumi, ti dice che ce ne sono alcuni che hanno
la foce a “delta”. Ecco, il mio bagaglio linguistico, almeno per il greco
antico, era tutto lì. Davvero inconsistente.
Perciò,
quando, dopo la prima lezione, mi trovai a studiare l’intero alfabeto e a
provare timidamente a tracciare le sue lettere su un foglio, sia per capire che
movimenti far fare alla mano (esattamente come in prima elementare per imparare
a scrivere) sia per memorizzarne la sequenza e la forma, mi venne un po’ di
sconforto. Quella sensazione di inadeguatezza e il pensiero che mi occupava la
mente me li ricordo ancora. Come il giorno, un sabato pomeriggio del mese di
settembre. “Ma come posso mai riuscire a imparare tutto? E se non ce la
faccio?”. Poi, siccome non sono una che si scoraggia facilmente né è abituata a
lamentarsi, ma ho una mente che, di fronte ai problemi, trova velocemente una
soluzione, mi dissi anche che non dovevo imparare tutto in una volta sola, ma passo
dopo passo. Considerare quel percorso come una serie di segmenti riuscì a
tranquillizzarmi e a farmi fare subito pace con quella nuova fatica, che in
fondo poteva anche essere praticabile.
Ho passato
pomeriggi interi a tradurre (c’era anche la sorella gemella del greco, la
lingua latina), a volte anche sere, persino, in certi casi, qualche ora
piccola. Ho mandato a memoria verbi, paradigmi, eccezioni (e chi ha studiato il
greco, anche senza troppa convinzione, sa che sono più numerose queste delle
regole), accenti, spiriti, crasi, significati, fin quasi allo sfinimento. Ne ho
fatto, per dirla con le parole dello storico Tucidide, un “κτῆμα ἐς αἰεί”, un
“possesso per sempre”, qualcosa che niente e nessuno mi potrà mai togliere (con
quello che ci ho messo per costruirlo, vorrei ben vedere!).
Il tempo è
passato, infatti, il mio Rocci ora è bello giallo, quel giallo caldo che
prendono i libri quando sono ormai vecchi, eppure il greco è ancora lì,
radicato, ancorato stretto stretto alla mia testa caparbia e pronto a sgusciare
fuori in ogni momento, riemergendo come bollicine sulla superficie dell’acqua.
A ricordarmi che, in fondo, ancora lo parliamo, quando diciamo “praticabile”,
appunto, “fenomeno”, “gelosia”, “filosofia” … (potrei andare avanti ancora per
molto!). Persino quando chiamiamo chi ha nome di Andrea, Sofia, Irene… Il
greco, insomma, tutt’altro che morto, costruisce ancora la nostra realtà, che è
fatta, prima ancora che di cose, di concetti, frasi (ecco un altro termine di
origine greca, ve lo dicevo che potevo andare avanti), pensieri già pensati più
di duemila anni fa, già scritti, già pronunciati, con un altro alfabeto, nato
per solcare i mari e finito per solcare i secoli.
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